Errico Malatesta: Al caffè - Discutendo di rivoluzione e anarchia - Parte seconda

Capitolo VII

Ambrogio. - Ebbene volete spiegarci che cosa è questo vostro comunismo?

Giorgio. - Ma volentieri. Il comunismo è un modo di organizzazione sociale in cui gli uomini, invece di lottare tra di loro per accaparrare i vantaggi naturali e sfruttarsi ed opprimersi a vicenda, come avviene nella società presente, si assocerebbero e si accorderebbero per cooperare tutti al maggior benessere di ciascuno. Partendo dal principio che la terra, le miniere e tutte quante le forze naturali appartengono a tutti e che a tutti appartengono pure i prodotti accumulati e le acquisizioni di ogni genere delle generazioni passate, gli uomini, in comunismo, s'intenderebbero per lavorare cooperativa mente, e produrre tutto ciò che occorre.

Ambrogio. - Ho capito. Voi volete, come diceva un giornalucolo che ho avuto per le mani in un processo di anarchici, che ciascuno produca secondo le sue forze e consumi secondo i suoi bisogni; oppure che ciascuno dia quel che può e prenda quello che gli abbisogna. Non è vero?

Giorgio. - Infatti queste sono massime che noi sogliamo ripetere spesso; ma perché esse rappresentino correttamente quello che sarebbe una società comunistica quale noi la concepiamo, bisogna saperle intendere. Non si tratta, evidentemente, di un diritto assoluto a soddisfare tutti i propri bisogni, poiché i bisogni sono infiniti, crescono più rapidamente che i mezzi per soddisfarli, e quindi la loro soddisfazione è sempre limitata dalle possibilità della produzione; né sarebbe utile e giusto che la collettività per soddisfare ai bisogni eccessivi, altrimenti detti capricci, di qualche individuo, si sobbarcasse ad un lavoro, fuor di proporzione con l'utilità prodotta. E neppure si tratta di impiegare nella produzione tutte le proprie forze, poiché questo preso alla lettera, significherebbe che bisogna lavorare fino all'esaurimento, vale a dire che per soddisfare meglio ai bisogni dell'uomo si distruggerebbe l'uomo. Quel che noi vogliamo è che tutti stiano il meglio possibile: che tutti col minimo di sforzo penoso raggiungano il massimo di soddisfazione. Darvi una formula teorica che rappresenti esattamente un tale stato di cose,io non saprei; ma quando fossero tolti di mezzo il padrone e il gendarme, e gli uomini si considerassero fratelli e pensassero ad aiutarsi e non già a sfruttarsi l'un l'altro, la formula pratica di vita sociale sarebbe presto trovata. In ogni modo si farebbe come si sa e si può, salvo a modificare e migliorare man mano che si apprendesse a fare meglio.

Ambrogio. - Ho capito: voi siete partigiano della prise au tas, come dicono i vostri compagni di Francia, vale a dire che ognuno produce quel che gli pare e butta nel mucchio, o, se volete, porta nei magazzini comunali quel che ha prodotto; e ciascuno prende dal mucchio tutto quello che gli abbisogna o gli piace. Eh?

Giorgio. - Mi accorgo che vi siete deciso ad informarvi un po' della questione, e suppongo che siete andato a leggere i documenti dei processi più attentamente di quel che fate quando si tratta di mandarci in carcere. Se magistrati e poliziotti si mettessero a far questo, la roba che ci rubano nelle perquisizioni servirebbe almeno a qualche cosa!

Ma torniamo all'argomento. Anche questa formula della presa nel mucchio non è che un modo di dire, che esprime la tendenza di voler sostituire allo spirito mercantile dell'oggi lo spirito di fratellanza e di solidarietà, ma non indica certamente un modo concreto di organizzazione sociale. Forse trovereste fra noi chi piglia quella formula alla lettera, perché suppone che il lavoro fatto spontaneamente sarebbe sempre sovrabbondante ed i prodotti si accumulerebbero in tale quantità e varietà da rendere inutile qualsia si regola nel lavoro e nel consumo. Ma io non credo così: io credo, come vi ho detto, che l'uomo ha sempre più bisogni che mezzi per soddisfarli e me ne rallegro perché questo fatto è causa di progresso; e credo che, anche se si potesse, sarebbe uno spreco assurdo di energia il produrre alla cieca per provvedere a tutti i possibili bisogni, anziché calcolare i bisogni effettivi ed organizzarsi per soddisfarli col meno di fatica possibile. Dunque, ancora una volta, la soluzione sta nell'accordo tra gli uomini e ne i patti, espressi o taciti, a cui essi verranno quando avran conquistata l'eguaglianza di condizioni e saranno ispirati dal sentimento di solidarietà.

Cercate di penetrare nello spirito del nostro programma, e non vi preoccupate troppo delle formule che, nel nostro come in tutti gli altri partiti, non sono che una maniera concisa ed impressionante, ma quasi sempre vaga ed inesatta, di esprimere una tendenza.

Ambrogio. - Ma non vi accorgete che il comunismo è la negazione della libertà, della personalità umana? Forse avrà potuto esistere nei primordi dell'umanità, allorché l'uomo, poco sviluppato intellettualmente e moralmente, era contento quando poteva soddisfare nell'orda i suoi appetiti materiali; forse è possibile in una società religiosa, monacale, che si propone la soppressione delle passioni umane, si pregia dell'assorbimento dell'individuo nella comunità conventuale e fa primo dovere l'ubbidienza. Ma nella società moderna, in tanto fiorimento di civiltà prodotta dalla libera attività individuale, con il bisogno d'indipendenza e di libertà che tormenta e nobilita l'uomo moderno; il comunismo se non fosse un sogno impossibile, sarebbe il ritorno alla barbarie. Ogni attività sarebbe paralizzata; spenta ogni gara feconda per distinguersi, per affermare la propria individualità...

Giorgio. - E così di seguito.

Via, non sciupate la vostra eloquenza. Queste sono frasi fatte che conosco da un pezzo... e non sono che tante menzogne, spudorate o incoscienti. La libertà, l'individualità di chi muore di fame! Quale crudele ironia! Quale profonda ipocrisia!

Voi difendete una società in cui la grande maggioranza vive in condizioni animalesche, una società in cui i lavoratori muoiono di stenti e di fame, in cui i bambini periscono a migliaia ed a milioni per mancanza di cure, in cui le donne si prostituiscono per fame, in cui l'ignoranza ottenebra le menti, in cui anche chi è istruito deve vendere il suo ingegno e mentire per mangiare, in cui nessuno è sicuro del domani - ed osate parlare di libertà e d'individualità?

Forse la libertà e la possibilità di sviluppare il proprio individuo esisteranno per voi, per una piccola casta di privilegiati... e poi nemmeno. Gli stessi privilegiati sono vittime dello stato di lotta tra uomo e uomo che inquina tutta la vita sociale, e guadagnerebbero un tanto se potessero vivere in una società solidale, liberi tra liberi, uguali tra uguali.

Come potete mai sostenere che la solidarietà faccia danno alla libertà ed allo sviluppo dell'individualità? Se discutessimo della famiglia - e ne discuteremo quando vorrete - voi non manchereste di sciogliere uno dei soliti inni convenzionali a questa santa istituzione, base, ecc. ecc. Or bene, nella famiglia - quella a cui s'inneggia, se non quella che generalmente esiste - l'amore e la solidarietà regnano tra i suoi membri. Sosterreste voi che i veri fratelli sarebbero più liberi e le loro individualità si svilupperebbero meglio se invece di volersi bene e di lavorare tutti d'accordo per il comune benessere, stessero a rubarsi l'un l'altro, ad odiarsi ed a bastonarsi?

Ambrogio. - Ma per regolare la società come una famiglia, per organizzare e far camminare una società comunistica, ci vuole un accentramento immenso, un dispotismo di ferro, uno stato onnipossente. Figuratevi quale potenza oppressiva avrebbe un governo che disponesse di tutta la ricchezza sociale e assegnasse a ciascuno il lavoro che deve fare e la roba che può consumare!

Giorgio. - Certamente se il comunismo dovesse essere quale lo concepite voi e qual e lo concepisce qualche scuola autoritaria sarebbe una cosa impossibile, o, se fosse possibile, si risolverebbe in una colossale e complicatissima tirannide, che provocherebbe poi necessariamente una grande reazione.

Ma nulla di tutto questo vi è nel comunismo che vogliamo noi. Noi vogliamo il comunismo libero, anarchico, se la parola non vi offende. Vogliamo cioè che il comunismo si organizzi liberamente, dal basso all'alto, incominciando dagl'individui che si uniscono in associazioni e salendo man mano alle federazioni sempre più complesse di associazioni, fino a stringer tutta quanta l'umanità con un patto generale di cooperazione e di solidarietà. E come liberamente si sarà costituito, così, esso comunismo, liberamente dovrà mantenersi, per la volontà degli interessati.

Ambrogio. - Ma perché questo fosse possibile bisognerebbe che gli uomini fossero angeli, che fossero tutti altruisti! Ed invece l'uomo è per natura egoista, cattivo, ipocrita, fannullone.

Giorgio. - Certamente perché sia possibile il comunismo bisogna bene che gli uomini, un po' per impulso di sociabilità e un po' per retta intelligenza dei loro interessi, non si odino tra di loro ed amino andar d'accordo ed aiutarsi scambievolmente. Ma questo, lungi dall'essere una impossibilità, è anche ora il fatto normale e generale. La presente organizzazione sociale è causa permanente di antagonismi e conflitti tra classi e tra individui; e se malgrado ciò la società può mantenersi e non degenera letteralmente in un'orda di lupi che si divorano l'un l'altro, è appunto per il profondo istinto sociale umano che provoca quei mille atti di solidarietà, di simpatia, di devozione, di sacrificio che si compiono tutti i momenti, senza nemmeno pensarvi, e che rendono possibile il perdurare della società, nonostante le cause di dissoluzione ch'essa porta in seno.

L'uomo è nello stesso tempo egoista ed altruista e lo è nella sua stessa natura, dirò così biologica presociale. Se non fosse stato egoista, se cioè non avesse avuto l'istinto della propria conservazione, non avrebbe potuto esistere come individuo; e se non fosse stato altruista, cioè non avesse avuto l'istinto di sacrificarsi per gli altri, la cui prima manifestazione si riscontra nell'amore per la prole, non avrebbe potuto esistere come specie, né, a maggior ragione, ascendere alla vita sociale.

La coesistenza del sentimento egoista e del sentimento altruista e l'impossibilità nella società attuale di soddisfarli ambedue fa si che oggi nessuno è soddisfatto, nemmeno quelli che si trovano in posizione privilegiata. Invece il comunismo è la forma sociale in cui egoismo ed altruismo si confondono o tendono a confondersi - e ogni uomo lo accetterà perché farà il bene suo e farà il bene degli altri.

Ambrogio. - Sarà come voi dite: ma credete poi che tutti vorrebbero e saprebbero adattarsi ai doveri che impone una società comunistica? Se, per esempio, la gente non volesse lavorare?... Già, voi accomodate tutto, in immaginazione, come meglio v'aggrada, e mi direste che il lavoro è un bisogno organico, un piacere, e che tutti faranno a gara per avere quanto più possono di quel piacere!

Giorgio. - Io non dico questo, quantunque so che trovereste molti amici miei che lo dicono. Secondo me quello che è un bisogno organico ed un piacere è il movimento, l'attività muscolare e nervosa; ma il lavoro è attività disciplinata in vista di uno scopo obiettivo, esteriore all'organismo. Ed io capisco benissimo che uno possa preferire gli esercizi equestri quando invece sarebbe necessario piantar dei cavoli. Ma credo che l'uomo, quando vuole il fine, sa adattarsi e si adatta alle condizioni necessarie per conseguirlo.

Siccome i prodotti che si hanno col lavoro sono necessari per vivere, e nessuno avrebbe i mezzi di obbligare gli altri a lavorare per lui, tutti riconoscerebbero la necessità di lavorare e preferirebbero quell'organizzazione nella quale il lavoro fosse meno penoso e più produttivo, quale è, secondo me, l'organizzazione comunista.

Considerate inoltre che in comunismo sono gli stessi lavoratori che organizzano e dirigono il lavoro, e quindi hanno ogni interesse a renderlo leggero e piacevole; considerate che in comunismo si formerebbe naturalmente un'opinione pubblica che condannerebbe l'oziosità come dannosa a tutti, e capirete che se anche vi fossero degli oziosi, non sarebbero che una minoranza insignificante, che si potrebbe compatire e sopportare senza danno sensibile.

Ambrogio. - Ma supponete che malgrado le vostre previsioni ottimiste, gli oziosi fossero molti, che cosa fareste? Li manterreste lo stesso? Allora tanto vale mantenere quelli che chiamate borghesi!

Giorgio. - Veramente la differenza ci sarebbe e grande; poiché i borghesi non solo ci prendono una parte di quello che produciamo, ma ci impediscono anche di produrre quanto vogliamo e come vogliamo. Nullameno io non dico niente affatto che bisognerebbe mantenere gli oziosi, quando essi fossero in tal numero da arrecar danno: tanto più che temerei che l'ozio e l'abitudine di vivere a ufo facesse venire anche a loro la voglia di comandare. Il comunismo è un patto libero: chi non lo accetta o non lo mantiene, resta fuori.

Ambrogio. - Ma allora vi sarebbe una nuova classe di diseredati?

Giorgio. - Niente affatto. Ognuno ha diritto alla terra, agli strumenti di lavoro ed a tutti i vantaggi di cui può godere l'uomo nello stato di civiltà in cui è giunta l'umanità. Se uno non vuole accettare la vita comunista e gli obblighi che essa suppone, è affare suo. Egli si accomoderà come crede insieme con quelli con cui andrà d'accordo, e se si troverà peggio degli altri ciò gli proverà la superiorità del comunismo e lo spingerà ad unirsi coi comunisti.

Ambrogio. - Ma dunque uno sarebbe libero di non accettare il comunismo?

Giorgio. - Certamente: ed avrebbe sulle ricchezze naturali e sui prodotti accumulati dalle generazioni passate gli stessi diritti che avrebbero i comunisti. Che diavolo! Vi ho sempre parlato di libero patto, di comunismo libero. Come potrebbe esservi libertà se non vi fosse alternativa possibile?

Ambrogio. - Ma dunque voi non volete imporre le vostre idee colla forza?

Giorgio. - Oh! che siete matto? Ci pigliate dunque per carabinieri.., o per magistrati?

Ambrogio. - O beh allora non ci è poi nulla di male. Ognuno è libero di sognare come vuole!

Giorgio. - Badate però a non pigliare abbaglio: altro è imporre le idee, altro è difendersi dai ladri e dai violenti, e riconquistare i propri diritti.

Ambrogio. - Ah, ah! Dunque per riconquistare i diritti impieghereste la forza, non è vero?

Giorgio. - Questo non ve lo voglio dire: vi potrebbe far comodo per tesserci su una requisitoria in un qualche processo. Quel che vi dirò è che certamente, quando il popolo avrà coscienza dei suoi diritti e vorrà farla finita... voi correrete il rischio di esser trattati un po' ruvidamente. Ma questo dipenderà dalla resistenza che opporrete. Se cederete di buona grazia, tutto sarà pace e amore; se invece sarete ostinati, ed io son convinto che lo sarete, tanto peggio per voi.

Buona sera.

Capitolo VIII

Ambrogio. - Sapete! più penso a quel vostro comunismo libero e più mi persuado che siete... un bell'originale.

Giorgio. - E perché?

Ambrogio. - Perché parlate sempre di lavoro, godimenti, accordi, patti, ma di autorità sociale, di governo non ne parlate mai. Chi regolerà la vita sociale? Chi sarà il Governo? Come sarà costituito ? Chi lo eleggerà? Quali saranno i mezzi di cui disporrà per obbligare a rispettare le leggi o per punire i contravventori? Come saranno costituiti i vari poteri, legislativo, esecutivo e giudiziario?

Giorgio. - Ma noi di tutti questi vostri poteri non sappiamo che farcene. Noi non vogliamo governo. Non sapete ancora che sono anarchico?

Ambrogio. - Se ve lo dico che siete un originale. Io capirei ancora il comunismo e ammetto che potrebbe offrire dei grandi vantaggi, se però tutto fosse ben regolato da un governo illuminato, che avesse la forza d'imporre a tutti il rispetto della legge. Ma così, senza governo, senza leggi! Che guazzabuglio sarebbe mai questo?!

Giorgio. - Io lo prevedevo: prima eravate contro il comunismo perché dicevate ch'esso ha bisogno dì un governo forte e accentrato; ora poi che sentite parlare di una società senza governo, accettereste anche il comunismo, purché ci fosse un governo dal pugno di ferro. Insomma, è la libertà che vi fa paura più di tutto!

Ambrogio. - Questo vorrebbe dire che per sfuggire ad uno scoglio si va a dar di cozzo nell'altro. Quel che è certo è che una società senza governo non può esistere. Come volete che le cose possano andare, senza regole, senza norme di nessuna specie? Succederebbe che uno tira a destra,un altro tira a sinistra e la barca resta ferma, o piuttosto se ne va a fondo.

Giorgio. - Ma non v'ho mica detto che non voglio regole e norme. Io v'ho detto che non voglio Governo, ed intendo per governo un potere che fa la legge e l'impone a tutti.

Ambrogio. - Ma se questo governo è eletto dal popolo, non rappresenta che la volontà del popolo stesso. Di che potreste lagnarvi?

Giorgio. - Questo non è che una menzogna. Una volontà popolare, generica, astratta non è che una metafisicheria. Il popolo è composto di uomini, e gli uomini hanno mille volontà differenti e varianti secondo il variare dei temperamenti e delle circostanze, e voler ricavare da essi, coll'operazione magica dell'urna, una volontà generale comune a tutti è semplicemente un assurdo. Per un uomo solo già sarebbe impossibile incaricare un altro di eseguire la sua volontà in tutte le questioni che potranno presentarsi durante un dato tempo; poiché quell'uomo non potrebbe dire egli stesso anticipatamente quale sarà la sua volontà nelle varie occasioni . Come potrebbe dirlo una collettività, un popolo, i cui membri già nel momento stesso di dare il mandato sono in disaccordo tra loro?

Pensate solo un momento al modo come si fanno le elezioni - e badate che intendo parlare del modo come si potrebbero fare quando tutti gli uomini fossero istruiti ed indipendenti e perciò il voto fosse perfettamente cosciente e libero. Voi, per esempio, votate per colui che stimate più adatto a fare i vostri interessi ed applicare le vostre idee. Questo è già molto concedere, perché voi avete tante idee e tanti interessi vari che non sapreste trovare un uomo che pensi come voi sempre e su tutto; ma sarà poi colui al quale voi date il voto che vi governerà? Niente affatto. Già il vostro candidato potrà non riuscire e quindi la volontà vostra non avrà più nessuna parte nella cosidetta volontà popolare: ma supponiamo pure ch'egli riesca.

Sarà egli per questo il vostro governante? Nemmeno per sogno. Egli non sarà che uno fra i tanti (nel parlamento italiano per esempio uno fra 535) e voi sarete realmente governato da una maggioranza di persone a cui non avete mai dato alcun mandato. E questa maggioranza (i cui membri han ricevuti tanti mandati differenti o contraddittori, o meglio non hanno ricevuto che una delegazione generale di poteri, senza nessun mandato determinato) impossibilitata, anche se volesse, ad accertare una volontà generale, che non esiste, e a contentar tutti, farà come pare a lei, o come pare a coloro che nel momento la domineranno.

Via, è meglio lasciar da parte questa vecchia finzione del governo che rappresenta la volontà popolare.

Vi sono certamente delle questioni di ordine generale, su cui, in un dato momento, tutto il popolo si trova d'accordo. Ma allora, a che serve il governo? Quando tutti vogliono una cosa, non hanno che da farla.

Ambrogio. - Ma insomma, voi avete ammesso che ci vogliono delle regole, delle norme di vita. Chi dovrà stabilirle?

Giorgio. - Gli stessi interessati, coloro che queste norme dovranno seguire.

Ambrogio. - E chi ne imporrà il rispetto?

Giorgio. - Nessuno, poiché si tratta di norme liberamente accettate e liberamente seguite. Non confondete le norme di cui vi parlo io, che sono convenzioni pratiche basate sul sentimento di solidarietà e sulla cura che dovranno avere tutti dell'interesse collettivo, colla legge che è una regola prescritta da alcuni ed imposta per forza a tutti. Noi non vogliamo leggi, ma liberi patti.

Ambrogio. - E se uno viola il patto?

Giorgio. - E perché dovrebbe violarlo se il patto gli conviene? Del resto se avvenissero delle violazioni, servirebbero ad avvertire che il patto non soddisfa tutti e che bisogna modificarlo. E tutti cercherebbero un accomodamento migliore, perché tutti hanno interesse che nessuno sia malcontento.

Ambrogio. .- Ma voi a quanto pare vagheggiate una società primitiva in cui ognuno faccia ogni cosa da sé ed i rapporti tra gli uomini siano pochi, ristretti ed elementari.

Giorgio. - Ma niente affatto. Dal momento che il moltiplicarsi e il complicarsi dei rapporti, produce agli uomini maggiori soddisfazioni morali e materiali, noi cercheremo di aver rapporti quanto più numerosi e complessi è possibile.

Ambrogio. - Ma allora avrete bisogno di delegare funzioni, di dare incarichi, di nominare rappresentanti per stabilire accordi.

Giorgio. - Certamente. Ma non crediate che questo equivalga a nominare un governo. Il governo fa la legge e l'impone, mentre in una società libera le delegazioni non sono che incarichi determinati, temporanei, per fare dei dati lavori, e non danno diritto a nessun'autorità e a nessun compenso speciale. E le risoluzioni dei delegati sono sempre soggette all'approvazione dei mandanti.

Ambrogio. - Ma voi non supponete che tutti saranno sempre d'accordo. Se vi sarà della gente a cui non conviene il vostro ordinamento sociali, come farete?

Giorgio. - Quella gente si accomoderà come crede meglio, e noi ed essi piglieremo degli accordi per non darci noia vicendevolmente.

Ambrogio. - Ma se gli altri vi vogliono dar noia?

Giorgio. - Allora... ci difenderemo.

Ambrogio. - Ah! Ma non vedete che da questo bisogno di difesa può nascere un nuovo governo?

Giorgio. - Certamente che lo veggo: ed è appunto per questo che vi ho sempre detto che l'anarchia non è possibile se non quando siano eliminate le più grandi cause di conflitto, e l'accordo sia diventato interesse di tutti, e lo spirito di solidarietà sia ben sviluppato fra gli uomini.

Se vorreste far l'anarchia oggi, lasciando intatte la proprietà individuale e le altre istituzioni sociali che ne derivano, subito scoppierebbe tale guerra civile che un governo, anche tirannico, sarebbe accolto come una benedizione.

Ma se nello stesso tempo che stabilite l'anarchia abolite la proprietà individuale, le cause di conflitto che sussisteranno non saranno insuperabili e si arriverà all'accordo, perché coll'accordo tutti saranno avvantaggiati.

Del resto, s'intende che le istituzioni valgono quel che valgono gli uomini che le fanno funzionare e che l'anarchia specialmente, che è il regno del libero accordo, non può esistere se gli uomini non capiscono i benefizii della solidarietà e non vogliono accordarsi.

Per questo facciamo la propaganda.

Capitolo IX

Ambrogio. - Lasciate che torni sul vostro comunismo anarchico. Francamente non mi può andar giù...

Giorgio. - Eh! Lo credo bene. Dopo aver passato la vita fra i codici e le pandette a difendere il diritto dello Stato e quello del proprietario, una società senza Stato e senza proprietarii, in cui non vi sarebbero più ribelli ed affamati da mandare in galera, vi deve sembrare una cosa dell'altro mondo.

Ma se vorrete fare astrazione dalla vostra posizione, se avrete la forza di vincere le vostre abitudini di spirito e vorrete riflettere alla cosa senza prevenzioni, comprenderete facilmente che, ammesso che scopo della società debba essere il maggior bene possibile di tutti, il comunismo anarchico è la soluzione a cui necessariamente si arriva. Se poi pensate invece che la società è fatta per ingrassare pochi gaudenti a spese di tutti, allora...

Ambrogio. - No, no, io ammetto che la società deve proporsi il bene di tutti, ma non per questo posso accettare il vostro sistema. Mi sforzo bene di mettermi al vostro punto di vista, poiché ormai ho preso interesse alla discussione e vorrei almeno farmi un'idea chiara di quel che volete: ma le vostre conclusioni mi sembrano talmente utopiche, talmente...

Giorgio. - Ma insomma, che cosa è che trovate oscuro o inaccettabile nella esposizione che vi ho fatta?

Ambrogio. - Ecco... non so... tutto il sistema. Lasciamo stare la questione del diritto, sulla quale non potremo convenire; ma supposto che, come voi sostenete, tutti abbiamo un diritto uguale a godere della ricchezza esistente, capisco che il comunismo possa sembrare l'ordinamento più sbrigativo e forse migliore. Ma quello che assolutamente non mi pare possibile, è una società senza governo.

Voi fondate tutto il vostro edificio sulla libera volontà degli associati...

Giorgio. - Precisamente.

Ambrogio. - E questo è il vostro errore. Società significa gerarchia, disciplina, sottomissione dell'individuo alla collettività. Senza autorità non v'è società possibile.

Giorgio. - Proprio il contrario. Società propriamente detta non esiste che tra eguali; e gli eguali sogliono accordarsi tra di loro se vi trovano piacere e convenienza, ma non si sottopongono l'uno all'altro.

Quelle vostre relazioni di gerarchia e di sottomissione, che a voi sembrano l'essenza della società, sono relazioni di schiavo a padrone: e voi ammetterete, spero, che lo schiavo non è propriamente l'associato del padrone, come l'animale domestico non è l'associato dell'uomo che lo possiede.

Ambrogio. - Ma credete davvero possibile una società in cui ciascuno fa quel che vuole!

Giorgio. - A condizione s'intende, che gli uomini vogliano vivere in società e si ad attino quindi alle necessità della vita sociale.

Ambrogio. - E se non lo vogliono?

Giorgio. - Allora non vi sarebbe società possibile. Ma siccome è solo nella società che l'uomo, almeno l'uomo moderno, può trovare la soddisfazione dei suoi bisogni materiali e morali, è strano il supporre che esso vorrà rinunziare a quello che è per lui condizione di vita e di benessere.

Gli uomini difficilmente si mettono d'accordo quando discutono in astratto; ma appena v'è qualche cosa da fare, che è necessario fare e che interessa a tutti, purché nessuno abbia il mezzo di imporre agli altri la sua volontà e di obbligarli a fare a modo suo, subito cessano le ostinazioni ed i puntigli, si diventa concilianti, e la cosa si fa colla maggiore soddisfazione possibile di ciascuno.

Si capisce: niente di umano è possibile senza la volontà degli uomini. Tutto il problema per noi sta nel cambiare questa volontà, vale a dire nel far capir e agli uomini che a farsi la guerra l'un l'altro, a odiarsi, a sfruttarsi vicendevolmente, ci si perde tutti, e persuaderli a volere un ordinamento sociale fondato sul mutuo appoggio e sulla solidarietà.

Ambrogio. - Dunque per fare il vostro comunismo anarchico dovrete aspettare che tutti siano persuasi, ed abbiano voglia di farlo.

Giorgio. - Oh, no! Staremmo freschi! La volontà è determinata in gran parte dall'ambiente, ed è probabile che fino a che durano le condizioni attuali, la grande maggioranza continuerà a credere che la società non può essere organizzata diversamente da quella che è.

Ambrogio. - Ma allora?!

Giorgio. - Allora il comunismo e l'anarchia li faremo lo stesso fra di noi... quando saremo in numero sufficiente per farlo - convinti che se gli altri vedranno che ci troviamo bene, presto faranno come noi. O almeno, se non potremo attuare il comunismo e l'anarchia, lavoreremo perché le condizioni sociali cambino in modo da de terminare le volontà nel senso che vogliamo noi.

Capirete; si tratta di un'azione reciproca della volontà sull'ambiente e dell'ambiente sulla volontà... Noi facciamo e faremo quel che possiamo perché si cammini verso il nostro ideale.

Quel che dovete bene intendere è questo. Noi non vogliamo violentare la volontà di nessuno; ma non vogliamo che altri violenti la volontà nostra o quella del pubblico. Siamo ribelli contro quella minoranza che colla violenza sfrutta ed opprime il popolo. Una volta conquistata la libertà per noi e per tutti, e, s'intende, i mezzi di esser liberi, cioè il diritto di servirsi della terra e degli strumenti di produzione, noi non conteremo più, per far trionfare le nostre idee, che sulla forza della parola e dell'esempio.

Ambrogio. - E va bene; e credete così di arrivare ad una società che si regga semplicemente per la volontà concorde dei suoi membri? È proprio il caso dì dire che sarebbe una cosa senza precedenti!

Giorgio. - Non tanto quanto l'immaginate. Anzi, in sostanza, è sempre stato cosi... se si considera che i vinti, i dominati, le bestie da soma e da macello del consorzio umano, non fanno propriamente parte della società.

Negli Stati dispotici, dove tutti gli abitanti sono trattati come gregge al servizio di un solo, nessuno ha volontà se non il sovrano... e quelli di cui il sovrano ha bisogno per tener soggetta la massa. Ma amano a mano che altri arrivano ad emanciparsi e ad entrare nella classe dominatrice, nella società propriamente detta, sia per mezzo della partecipazione diretta al governo, sia per mezzo del possesso della ricchezza, la società si va plasmando in modo da soddisfare alla volontà di tutti i dominatori. Tutto l'apparato legislativo ed esecutivo, tutto il governo colle sue leggi, i suoi soldati, i suoi sbirri, i suoi giudici, ecc. non serve che per regolare ed assicurare lo sfruttamento del popolo. Altrimenti, i padroni troverebbero più semplice e più economico accordarsi tra di loro e fare a meno dello Stato. I borghesi stessi lo dicono... quando per un momento dimenticano che senza i soldati e senza i birri il popolo verrebbe a guastare la festa.

Distruggete le divisioni di classe, fate che non vi siano più schiavi da tenere a freno, e tosto lo Stato non avrà più ragion di essere.

Del resto, anche oggi la parte essenziale della vita sociale, sia nella classe dominante che nella classe dominata, si compie per accordo spontaneo, e spesso incosciente, fra gli individui: per consuetudini, punto d'onore, rispetto della parola data, tema dell'opinione pubblica, sentimento di onestà, amore, simpatia, regole di buona creanza - senza alcun intervento della legge e del governo. Legge e governo diventano necessarii solo quando si tratta di relazioni tra dominatori e dominati. Tra eguali ognuno sente vergogna di chiamare il birro, di ricorrere al giudice!

Ambrogio. - Ma non esagerate. Lo Stato fa poi anche delle cose che giovano a tutti. Dà l'istruzione, veglia sulla pubblica salute, difende la vita dei cittadini, organizza i servizi pubblici.., non direte che queste sono cose inutili o dannose!

Giorgio. - Uh! fatte come lo Stato suol farle, quasi quasi ci sarebbe da dirlo. Il certo è che chi fa realmente quelle cose è sempre il lavoratore, e lo Stato coll'erigersi a loro regolatore non fa che trasformarle in strumenti di dominio e volgerle a vantaggio speciale dei governanti e dei proprietarii.

L'istruzione si propaga, se v'è nel pubblico il desiderio d'istruirsi e se vi sono maestri capaci d'istruire; la salute pubblica prospera, quando il pubblico conosce, apprezza e può mettere in pratica le regole d'igiene, e quando vi sono medici capaci di consigliare la gente; la vita dei cittadini è sicura quando la gente si è abituata a considerare come sacre la vita e la libertà umane e quando... non vi sono giudici e guardie di P. S. per dare esempio di brutalità; i servizi pubblici si organizzano, quando il pubblico ne sente il bisogno.

Lo Stato non crea nulla: nell'ipotesi migliore non sarebbe che una ruota superflua, un inutile spreco di forze. Ma magari non fosse che inutile!

Ambrogio. - Basta. Tanto credo che me ne abbiate detto abbastanza. Ci voglio riflettere. A rivederci.

Capitolo X

Gino (operaio). - Ho saputo che qui si discute la sera sulla questione sociale ed io son venuto per fare, col permesso di questi signori, una domanda al mio amico Giorgio.

Dimmi è vero che voi altri anarchici vorreste che non ci fosse più polizia?

Giorgio. - Certamente. O che! non sei d'accordo? Da quando in qua sei diventato amico dei questurini e dei carabinieri?

Gino. - Io non sono loro amico, tu lo sai. Ma non sono nemmeno l'amico dei ladri e degli assassini e voglio che la mia roba e la mia vita siano guardate, e ben guardate.

Giorgio. - E chi ti guarda dai guardiani?...

Credi tu che gli uomini diventino ladri ed assassini senza causa nessuna?

E che il miglior modo di provvedere alla propria sicurezza sia quello di mettersi sul collo una masnada di gente che colla scusa di difenderci ci opprime e ci taglieggia, e fa a mille doppi più danno che tutti i ladri e tutti gli assassini? O non sarebbe meglio distruggere le cause del male, facendo in modo che tutti potessero star bene senza strapparsi l'un l'altro il pan dalla bocca, e che tutti potessero educarsi e svilupparsi in modo da bandire dal cuore le male passioni della gelosia, dell'odio e della vendetta?

Gino. - Ma che! gli uomini sono cattivi per natura, e se non ci fossero leggi, giudici, soldati e carabinieri per tenerci a freno, ci divoreremmo tra noi peggio che lupi.

Giorgio. - Se così fosse, sarebbe una ragione di più per non dare a nessuno il potere di comandare e di disporre della libertà degli altri. Costretti a lottare contro tutti, ciascuno colle proprie forze, correremmo il rischio della lotta e potremmo essere a volta a volta vincitori o vinti: saremmo dei selvaggi, ma godremmo almeno della libertà relativa delle selve e delle acri emozioni della bestia da preda. Ma se volontariamente dessimo ad alcuni, già, secondo te, per il solo fatto di essere uomini, predisposti a divorarci, il diritto ed il potere d'imporci la loro volontà, sarebbe lo stesso che votarci da noi stessi alla schiavitù ed alla miseria.

Tu t'inganni però, mio caro amico. Gli uomini sono buoni o cattivi secondo le circostanze. Quello che è generale negli uomini è l'istinto della propria conservazione, è l'aspirazione al benessere ed al pieno sviluppo delle proprie facoltà. Se per star bene bisogna far male agli altri, pochi e con molto sforzo resisteranno alla tentazione. Ma fa in modo che gli uomini trovino nella società dei loro simili le condizioni del loro benessere e del loro sviluppo, e ci vorrà tanta fatica ad esser cattivo, quanta ce ne vuole oggi ad esser buono.

Gino. - Va bene, sia pure come tu dici. Ma intanto in attesa della trasformazione sociale la polizia impedisce che si commettano reati.

Giorgio. - Impedisce?!

Gino. - Insomma, ne impedisce un gran numero, ed assicura alla giustizia gli autori di quei reati che non ha potuto impedire.

Giorgio. - Nemmeno questo è vero. L'influenza della polizia sul numero e sull'importanza dei reati è pressoché nulla. Infatti per quanto si riformi l'organizzazione della magistratura, della polizia e delle prigioni, e si aumenti o si diminuisca il numero dei poliziotti, finché non cambiano le condizioni economiche e morali del popolo, la delinquenza resta inalterata, o quasi.

Invece, basta la più piccola modificazione nei rapporti tra proprietari e lavoratori, o un'alterazione nel prezzo del frumento e degli altri alimenti di prima necessità, o una crisi che lasci degli operai senza lavoro, o la propaganda di un'idea che apra al popolo nuovi orizzonti e gli faccia sorridere nuove speranze, perché subito se ne osservino gli effetti nel numero cresciuto o diminuito dei reati.

La polizia, è vero, manda in prigione i delinquenti, quando può coglierli; ma questo, poiché non serve ad evitare nuovi reati, è un male aggiunto al male, una sofferenza di più inutilmente inflitta ad esseri umani.

E se anche l'opera della polizia riuscisse ad evitare qualche reato, ciò non basterebbe, e di gran lunga, a compensare i reati ch'essa provoca,le vessazioni cui essa sottopone il pubblico.

La funzione stessa che esercitano, mette i poliziotti in sospetto ed in lotta contro tutto il pubblico, ne fa come dei cacciatori d'uomini, li induce a mettere il loro amor proprio nella scoperta dei «bei» casi di delinquenza, e crea in loro una mentalità speciale che finisce molto spesso collo sviluppare degl'istinti addirittura antisociali. Non è raro il fatto che il poliziotto, il quale dovrebbe prevenire o scoprire il delitto, lo provoca invece, o lo inventa, nell'interesse della sua carriera, o semplicemente per darsi dell'importanza e rendersi necessario.

Gino. - Ma allora i poliziotti sarebbero essi stessi dei malfattori! Questo può darsi qualche volta, tanto più che il personale di polizia non é sempre reclutato in mezzo al fiore della popolazione; ma in generale...

Giorgio. - In generale l'ambiente agisce inesorabilmente, e la deformazione professionale colpisce anche coloro che sarebbero chiamati a cose migliori.

Dimmi tu: quale può essere, o quale può diventare la moralità di uno che si obbliga per salario, a perseguitare, arrestare, martoriare chiunque gli viene indicato dai suoi superiori, senza preoccuparsi se questi è un reo o un innocente, se è un malfattore o un apostolo?

Gino. - Si... ma...

Giorgio. - Ma lascia che ti dica qualche parola sul punto più importante della questione; cioè su quel che sono i cosidetti reati che la polizia s'incarica di prevenire e di reprimere.

Certamente tra gli atti che il codice punisce ve n'è di quelli che sono e saranno sempre delle cattive azioni; ma essi sono l'eccezione, e dipendono dallo stato di abbrutimento e di disperazione in cui la miseria riduce gli uomini.

In generale però gli atti puniti sono quelli che offendono i privilegi che si sono attribuiti i signori e quelli che attaccano il governo nell'esercizio della sua autorità. Di guisa che la polizia, efficace o no, serve a proteggere, non già la società tutta quanta, ma i signori, ed a tenere il popolo sottomesso.

Tu parlavi di ladri. Ma chi più ladro del proprietario che si arricchisce rubando il prodotto del lavoro degli operai?

Tu parlavi di assassini. Ma chi è più assassino dei capitalisti che, per non rinunziare al privilegio di comandare e di vivere senza lavorare, sono la causa degli stenti atroci e della morte prematura di milioni di lavoratori, nonché di una continua ecatombe di bambini?

Questi ladri e questi assassini, ben più colpevoli e ben più pericolosi di quei poveracci che sono spinti al delitto dalle miserevoli condizioni in cui si trovano, la polizia non li tocca: anzi!...

Gino. - Insomma, tu credi che fatta la rivoluzione, gli uomini diventeranno subito, di punto in bianco, tanti angioletti. Tutti saranno rispettosi dei diritti degli altri; tutti si vorranno bene e si aiuteranno; non vi saranno più odii, né gelosie.., il paradiso terrestre, che?!

Giorgio. - Niente affatto. Io non credo che le trasformazioni morali avvengano repentinamente, di punto in bianco. Certo, un grande, un immenso cambiamento vi sarà per il solo fatto del pane assicurato e della libertà conquistata; ma tutte le cattive passioni, che si sono incarnate in noi per l'azione secolare della schiavitù e della lotta di ciascuno contro tutti, non spariranno d'un tratto. Vi sarà per lungo tempo ancora chi si sentirà tentato d'imporre colla violenza la propria volontà agli altri, chi vorrà profittare di circostanze favorevoli per crearsi dei privilegi, chi conserverà per il lavoro quell'avversione che gli è ispirata dalle condizioni di schiavitù in cui è costretto a lavorare oggi, ecc.

Gino. - Dunque anche dopo la rivoluzione bisognerà difendersi contro i malfattori?

Giorgio. - Molto probabilmente. Beninteso che allora saranno considerati malfattori non già quelli che non intendono morir di fame senza ribellarsi, e ancor meno quelli che attaccano l'organizzazione sociale attuale e cercano di sostituirvene una migliore; ma quelli che faranno male a tutti, quelli che attenteranno all'integrità personale, alla libertà ed al benessere degli altri.

Gino. - Sta bene. Dunque ci vorrà sempre una polizia.

Giorgio. - Ma niente affatto. Sarebbe davvero una grande sciocchezza per guardarsi contro qualche violento, qualche fannullone e qualche degenerato, di aprire scuola di fannullaggine e di violenza costituendo un corpo di scherani, che si abituino a considerare i cittadini come carne da manette e da prigione e faccian della caccia all'uomo la principale o l'unica loro occupazione.

Gino. - Ma allora!

Giorgio. - Allora, ci difenderemo da noi.

Gino. - E tu credi che questo sia possibile?

Giorgio. - Non solo credo che sia possibile che il popolo si difenda da sé senza delegare a nessuno la funzione speciale della difesa sociale,ma son convinto che è il solo modo efficace.

Dimmi un po'! Se domani vien e da te uno ricercato dalla polizia, vai tu a denunziarlo?

Gino. - Ma che sei matto? Nemmeno se fosse il peggiore degli assassini. O che mi pigli per un poliziotto?!

Giorgio. - Ah! Ah! deve essere un gran brutto mestiere quello di poliziotto, se ogni uomo che si rispetta si stimerebbe disonorato facendolo, anche quando lo ritiene utile e necessario alla società.

Ed ora, dimmi un'altra cosa. Se ti capitasse un ammalato di malattia infettiva o un matto pericoloso lo porteresti all'ospedale?

Gino. - Certamente.

Giorgio. - Anche per forza?

Gino. - Ma... capirai! a lasciarlo libero potrebbe far male a tanta gente!

Giorgio. - Ora spiegami tu, perché un assassino tu ti guarderesti bene dal denunciarlo, mentre un matto o un appestato lo porteresti all'ospedale, magari con la forza?

Gino. - Ma... prima di tutto perché mi ripugna fare il poliziotto, mentre ritengo cosa onorevole ed umanitaria fare l'infermiere.

Giorgio. - Dunque già vedi che il primo effetto della polizia è quello di disinteressare i cittadini dalla difesa sociale, anzi di metterli dalla parte di coloro che a ragione o a torto la polizia perseguita.

Gino. - Poi l'è che quando io porto qualcuno all'ospedale so che lo lascio in mano ai medici, i quali cercano di guarirlo per metterlo in libertà appena esso è diventato innocuo pei suoi simili. In tutti i casi, anche se incurabile, cercano di lenire le sue sofferenze e non gl'infliggono mai un trattamento più severo di quello che è strettamente necessario. E se i medici non facessero il loro dovere, il pubblico ve li obbligherebbe, perché è inteso che all'ospedale la gente vi si tiene per curarla e non per martirizzarla.

Mentre invece, se si consegna uno in mano alla polizia, già ci mettono dell'amor proprio a farlo condannare, poco curandosi se è reo o innocente; poi lo mettono in una prigione, dove, invece di cercare di migliorarlo a forza di cure amorose, fanno di tutto per farlo soffrire, lo inaspriscono sempre di più, e lo rilasciano poi nemico ben più pericoloso per la società di quello che era quando entrò in carcere.

Ma questo si potrebbe modificare con una riforma radicale...

Giorgio. - Per riformare, mio caro, o distruggere un'istituzione, la prima cosa è di non costituire una corporazione interessata a conservarla.

La polizia (e quello che dico della polizia si applica anche alla magistratura) facendo il mestiere di mandare in carcere la gente e di massacrarla quando capita, finisce sempre col considerarsi e con l'essere in lotta con il pubblico. Essa accaneggia il delinquente vero o supposto con la passione con cui il cacciatore perseguita la selvaggina, ma nello stesso tempo ha interesse a che vi siano dei delinquenti perché essi sono la ragione della sua esistenza; e più cresce il numero e la nocuità dei delinquenti, più cresce il potere e l'importanza sociale della polizia!

Perché il delitto sia trattato razionalmente, perché se ne ricerchino le cause e si faccia realmente tutto il possibile per eliminarlo, bisogna che questo lavoro sia affidato a coloro che sono esposti a soffrire le conseguenze del delitto, al popolo tutto, e non già a coloro pei quali l'esistenza del delitto è sorgente di potere e di guadagni.

Gino. - Uh! Può darsi che tu abbia ragione. A rivederci.

Capitolo XI

Ambrogio. - Ho riflettuto a quanto mi avete detto in queste nostre conversazioni... e rinunzio a discutere. Non già che io mi confessi vinto; ma... insomma voi avete le vostre ragioni e l'avvenire potrebbe anche essere per voi.

Io intanto son magistrato e finché c'è la legge, debbo rispettarla e farla rispettare. Capirete...

Giorgio. - Oh, capisco benissimo. Fate, fate pure. Sarà cura nostra di abolire la legge, e liberarvi così dall'obbligo di agire contro la vostra coscienza.

Ambrogio. - Piano, piano, io non ho detto questo... ma, lasciamo andare.

Io vorrei qualche altra spiegazione da voi.

Potremmo forse intenderci sulle questioni riguardanti il regime della proprietà e l'organizzazione politica della società; dopo tutto sono forme storiche che sono cambiate tante volte e forse cambieranno ancora.

Ma vi sono delle istituzioni sacre, dei sentimenti profondi dell'animo umano che voi continuamente offendete: la famiglia, la patria!

Per esempio, voi volete mettere in comune ogni cosa. Naturalmente metterete in comune anche le donne, e farete così tutto un gran serraglio; non è vero?

Giorgio. - Sentite; se volete discutere con me, fate il piacere di non dire sciocchezze e di non fare dello spirito di cattiva lega. È troppo seria la questione che trattiamo per inframmettervi dei lazzi volgari!

Ambrogio. - Ma... io dicevo sul serio. Che cosa farete delle donne?

Giorgio. - Allora tanto peggio per voi, perché è veramente strano che non comprendiate l'assurdità di quello che avete detto.

Mettere in comune le donne! E perché non dite che vogliamo mettere in comune gli uomini? Ciò che solo può spiegare questo vostro concetto è che voi, per abitudine inveterata, considerate la donna come un essere inferiore fatto e messo al mondo per servire da animale domestico e da strumento di piacere pel signore maschio, e quindi fate di lei il conto che si fa di una cosa, e supponete che si debba assegnarle il destino che si assegna alle cose.

Ma noi che consideriamo la donna come un essere umano pari a noi, che deve godere di tutti i diritti e di tutti i mezzi di cui gode, o deve godere, il sesso maschile, noi troviamo semplicemente vuota di senso la domanda: che cosa farete delle donne? Domandate piuttosto: che cosa faranno le donne? Ed io vi risponderò che faranno quel che vorranno e che siccome esse hanno al pari degli uomini bisogno di vivere in società, è certo che vorranno accordarsi con i loro simili, maschi e femmine, per soddisfare ai loro bisogni col maggior vantaggio proprio e di tutti.

Ambrogio. - Veggo; voi considerate la donna siccome l'eguale dell'uomo. Eppure molti scienziati, esaminando la struttura anatomica e le funzioni fisiologiche dell'organismo femminile, sostengono che la donna è naturalmente inferiore all'uomo.

Giorgio. - Eh! si sa. Qualunque cosa c'è da sostenere, v'è sempre uno scienziato pronto a farlo. Vi sono degli scienziati che sostengono l'inferiorità della donna come ve ne sono altri che sostengono invece che le facoltà della donna e la sua capacità di sviluppo sono equivalenti a quelle dell'uomo, e che se oggi generalmente le donne sono meno intelligenti degli uomini ciò dipende dall'educazione che esse ricevono e dall'ambiente in cui vivono. Se cercate bene troverete anche degli scienziati o almeno delle scienziate che sostengono che l'uomo è un essere inferiore, destinato a liberare la donna dai lavori materiali e lasciarla libera alle sue vocazioni geniali. So che in America si è sostenuta anche questa tesi.

Ma che importa. Qui non si tratta di risolvere un problema scientifico, ma di realizzare un voto, un ideale umano.

Date alla donna tutti i mezzi e tutta la libertà di sviluppo e ne risulterà quel che può risultarne. Se la donna sarà eguale all'uomo, o se sarà più o meno intelligente di lui si vedrà dai fatti: - e ne sarà avvantaggiata anche la scienza, la quale avrà allora dei dati positivi su cui elevare le sue induzioni.

Ambrogio. - Dunque voi non prendete in considerazione le facoltà di cui sono dotati gl'individui?

Giorgio. - Non nel senso che esse debbano creare dei diritti speciali. In natura non trovereste due individui eguali; ma noi reclamiamo per tutti l'eguaglianza sociale, vale a dire gli stessi mezzi, le stesse opportunità - e crediamo che questa eguaglianza non solo risponda al sentimento di giustizia e di fratellanza che si è sviluppata nell'umanità, ma ridondi a benefizio di tutti, forti o deboli che siano.

Anche fra gli uomini, fra i maschi, ve ne sono dei più e dei meno intelligenti, ma non per questo si ammette che l'uno debba avere più diritti dell'altro. V'è chi sostiene che i biondi siano meglio dotati dei bruni o viceversa, che le razze a cranio oblungo siano superiori a quelle a cranio largo, o viceversa; e la questione, se ha un fondamento nella realtà, è certamente interessante per la scienza. Ma, dato lo stato attuale dei sentimenti e delle idealità umane, sarebbe assurdo il pretendere che i biondi ed i dolicocefali debbano comandare ai bruni ed ai brachicefali o al contrario.

Non vi pare?

Ambrogio. - Va bene; ma guardiamo la questione della famiglia. Volete abolirla, o organizzarla sopra un'altra base?

Giorgio. - Ecco. Nella famiglia bisogna considerare le relazioni economiche, le relazioni sessuali e le relazioni fra genitori e generati.

In quanto alla famiglia come istituzione economica è chiaro che una volta abolita la proprietà individuale e per conseguenza l'eredità, essa non ha più ragione di esistere e sparisce di fatto. In questo senso del resto la famiglia già è abolita per la grande maggioranza della popolazione,la quale è composta di proletarii.

Ambrogio. - E per le relazioni sessuali? Voi volete l'amore libero, la...

Giorgio. - E via! O che credete che possa esistere davvero un amore schiavo? Esisterà la coabitazione forzata, l'amore finto per forza, per interesse o per convenienza sociale; magari vi saranno uomini e donne che rispetteranno il vincolo matrimoniale per convinzione religiosa o morale; ma l'amore vero non può esistere, non si concepisce, se non perfettamente libero.

Ambrogio. - Questo è vero ; ma se ognuno seguisse i capricci che gl'ispira il dio amore, non vi sarebbe più morale e il mondo diventerebbe un lupanare.

Giorgio. - In fatto di morale, potete vantar davvero i risultati delle vostre istituzioni! L'adulterio, le menzogne d'ogni sorta, gli odii lungamente covati, i mariti che uccidono le mogli, le mogli che avvelenano i mariti, gl'infanticidii, i fanciulli cresciuti fra gli scandali e le risse familiari... è questa la morale che voi temete minacciata dalla libertà nell'amore?

Oggi sì che il mondo è un lupanare, perché le donne son costrette spesso a prostituirsi per fame; e perché il matrimonio, sovente contratto per puro calcolo d'interesse, è sempre per tutta la sua durata un'unione in cui l'amore o non c'entra affatto, o c'entra solo come un accessorio.

Assicurate a tutti i mezzi per vivere convenientemente ed indipendentemente, date alla donna libertà completa di disporre della sua persona, distruggete i pregiudizii, religiosi o altri, che vincolano uomini e donne ad una quantità di convenienze che derivano dalla schiavitù e la perpetuano e le unioni sessuali saran fatte d'amore, dureranno tanto quanto dura l'amore, e non produrranno che la felicità degli individui ed il bene della specie.

Ambrogio. - Ma insomma, siete partigiano delle unioni perpetue, o temporanee? Volete le coppie separate, o la molteplicità e varietà delle relazioni sessuali, o la promiscuità addirittura?

Giorgio. - Noi vogliamo la libertà.

Finora le relazioni sessuali hanno subito tanto la pressione della violenza brutale, delle necessità economiche, dei pregiudizi religiosi e delle prescrizioni legali, che non è possibile dedurre qual sia il modo di relazioni sessuali che meglio risponda al bene fisico e morale degl'individui e della specie.

Certamente, una volta eliminate le condizioni che oggi rendono artificiose e forzate le relazioni tra uomo e donna, si costituiranno un'igiene ed una morale sessuale che saranno rispettate, non per legge, ma per la convinzione, fondata sull'esperienza, che esse soddisfano al bene proprio e della specie. Ma questo non può essere che l'effetto della libertà.

Ambrogio. - E i figli?

Giorgio. - Capirete che ammessa la proprietà comune, e stabilito sopra solide basi morali e materiali il principio della solidarietà sociale, il mantenimento dei fanciulli spetta alla comunità, e la loro educazione sarà cura ed interesse di tutti.

Probabilmente tutti gli uomini e tutte le donne ameranno tutti i fanciulli; e se, come io credo certo, i genitori avranno un'affezione speciale pei nati da loro, non avranno che da rallegrarsi sapendo l'avvenire dei loro figli assicurato, e avendo per il loro mantenimento e la loro educazione il concorso di tutta la società.

Ambrogio. - Ma il diritto dei genitori sui figli lo rispettate almeno?

Giorgio. - Il diritto sui fanciulli è fatto di doveri. Ha più diritto su di loro, vale a dire più diritto a guidarli e a curarli, chi più li ama e più se ne occupa: e siccome i genitori d'ordinario amano più che tutti i figli loro, sono essi cui spetta principalmente il diritto di provvedere ai loro bisogni. Ne in questo v'è da temere contestazioni, perché se qualche padre snaturato ama poco i suoi digli e non li cura sarà contento che altri se ne occupi e né lo sbarazzi.

Se poi per diritto del padre sui figli intendete il diritto di maltrattarli, corromperli, sfruttarli, allora certamente nego in modo assoluto questo diritto, e credo che nessuna società degna del nome lo riconoscerebbe e soffrirebbe.

Ambrogio. - Ma voi non pensate che questo affidare la responsabilità del mantenimento dei fanciulli alla collettività provocherebbe un tale aumento di popolazione che non vi sarebbe più da vivere per tutti? Già, voi non volete sentir parlare di malthusianismo e dite che è una cosa assurda.

Giorgio. - Io vi ho detto altra volta che è assurdo il pretendere che la miseria presente dipenda dall'eccesso di popolazione ed assurdo il volervi porre rimedio colle pratiche malthusiane. Ma riconosco ben volentieri la gravità della questione della popolazione, ed ammetto che nell'avvenire, quando ad ogni nato da donna fosse assicurato il mantenimento, la miseria potrebbe rinascere per eccesso reale di popolazione. Gli uomini emancipati ed istruiti penseranno, quando io stimeranno necessario, a mettere un limite alla troppo rapida moltiplicazione della specie; e aggiungo che non vi penseranno sul serio se non quando, eliminati gli accaparramenti, i privilegi, gli ostacoli messi alla produzione dall'ingordigia dei proprietari e tutte le cause sociali della miseria, la necessità di proporzionare il numero dei viventi alle possibilità della produzione, nonché allo spazio disponibile, apparirà a tutti semplice ed evidente.

Ambrogio. - Ma se gli uomini non vorranno pensarci?

Giorgio. - Allora, tanto peggio per loro!

Voi non volete capirlo: non v'è nessuna provvidenza, sia divina o naturale, che si curi del bene degli uomini. Il loro bene gli uomini bisogna che se lo procurino da loro, facendo quello che scoprono utile e necessario a conseguire lo scopo.

Voi dite sempre: ma se non vogliono? In questo caso non conseguiranno nulla e resteranno sempre in balia delle forze cieche che li circondano.

Così oggi: gli uomini non sanno come fare per essere liberi, o se lo sanno, non vogliono fare quello che occorre per liberarsi. E perciò restano schiavi.

Ma noi speriamo che più presto che voi noi crediate essi sapranno e vorranno.

Allora saranno liberi.

Capitolo XII

Ambrogio. - Voi conchiudevate l'altro giorno che tutto dipende dalla volontà. Se gli uomini vorranno esser liberi, dicevate, se vorranno fare quello che occorre per vivere in una società di uguali, tutto andrà bene: se no tanto peggio per loro. E starebbe bene se tutti volessero la stessa cosa; ma se gli uni vogliono vivere in anarchia e gli altri preferiscono la tutela di un governo, se gli uni sono disposti a prendere in considerazione i bisogni della collettività e gli altri vogliono godere dei benefizi che derivano dalla vita sociale derivano, e vogliono fare a modo loro senza occuparsi del danno che può venirne agli altri, come farete se non v'è un governo che determini ed imponga i doveri sociali?

Giorgio. - Se il governo c'è, trionfa la volontà dei governanti del loro partito, dei loro cointeressati e il problema, che è quello di soddisfare la volontà di tutti, non è risolto. Al contrario, la difficoltà è aggravata. La frazione che governa non solo può ignorare o violentare la volontà degli altri coi mezzi proprii, ma dispone, per imporsi, della forza di tutti. È il caso della società attuale in cui la classe operaia fornisce al governo i soldati e le ricchezze che servono per tenere schiavi gli operai.

Credo di avervelo già detto: noi vogliamo una società in cui ognuno abbia i mezzi per vivere come gli pare, ma nessuno possa costringere gli altri a lavorare per lui, nessuno possa obbligare un altro a sottoporsi alla sua volontà. Attuati questi due principii: la libertà per tutti e gli strumenti di produzione per tutti, tutto il resto deriva naturalmente, per la forza delle circostanze, e la nuova società si organizzerà nel modo che meglio conviene agl'interessi di tutti.

Ambrogio. - E se alcuni si vogliono imporre colla forza materiale?

Giorgio. - Allora essi sarebbero il governo, o gli aspiranti a governare, e noi li combatteremmo colla forza. Capirete che se vogliamo oggi fare la rivoluzione contro il governo, non sarà per sottometterci supinamente domani a nuovi oppressori. Se questi vincessero, la rivoluzione sarebbe vinta, e bisognerebbe rifarla.

Ambrogio. - Ma insomma, ammetterete bene dei principii morali, superiori alla volontà, al capriccio degli uomini, ed a cui tutti siano obbligati di uniformarsi... almeno moralmente?

Giorgio. - O che cosa è mai questa morale superiore alla volontà degli uomini? Da chi è prescritta? Di dove deriva? La morale cambia secondo le epoche, i paesi, le classi, le circostanze. Essa esprime quello che gli uomini in un dato momento ed in date circostanze, reputano la condotta migliore. Insomma, per ciascun uomo è conforme alla buona morale quello che gli giova e gli piace, per ragioni materiali o sentimentali.

Per voi la morale ingiunge il rispetto della legge, cioè la sottomissione ai privilegi di cui gode la vostra classe; per noi essa domanda la rivolta contro l'oppressione e la ricerca del bene di tutti. Per noi tutte le prescrizioni morali si compendiano nell'amore fra gli uomini.

Ambrogio. - E i delinquenti ? Rispetterete la loro libertà?

Giorgio. - Per noi delinquere significa violentare la libertà degli altri. Quando i delinquenti sono molti e possenti ed hanno organizzato in modo stabile il loro dominio, come è il caso, oggi, dei proprietarii e dei governanti, occorre una rivoluzione per liberarsene.

Quando invece la delinquenza è ridotta a casi individuali di inadattamento o di malattia, noi cercheremo di scoprirne le cause e di apportarvi i rimedii opportuni.

Ambrogio. - Ma intanto? Vi ci vorrebbe una polizia, una magistratura, un codice penale, dei carcerieri, ecc.

Giorgio. - E quindi, direste voi, la ricostituzione di un governo, il ritorno allo stato di oppressione sotto cui stiamo oggi.

Infatti, il danno maggiore del delitto non è tanto il fatto singolo e transitorio della violazione del diritto di qualche individuo, quanto il pericolo ch'esso serva di occasione e di pretesto per la costituzione di un'autorità che, coll'apparenza di difendere la società la sottometta e l'opprima.

Noi sappiamo già a che cosa servono la polizia e la magistratura, e come esse siano causa anziché rimedio di innumeri delitti.

Bisogna dunque cercare di distruggere il delitto eliminandone le cause; e quando vi restasse un residuo di delinquenti, le collettività direttamente interessate dovrebbero pensare a metterli nell'impossibilità di nuocere, senza delegare a nessuno la funzione specifica di persecutore del delitto.

Sapete la favola del cavallo che domandò protezione all'uomo e se lo fece montar sul dorso?

Ambrogio. - Sta bene. Tanto ormai faccio per informarmi e non per discutere.

Un'altra cosa. Visto che nella vostra società tutti sono socialmente eguali, tutti han diritto agli stessi mezzi di educazione e di sviluppo, tutti hanno libertà piena di scegliere la propria via, come fareste a provvedere ai lavori necessari? Vi sono lavori piacevoli e lavori penosi, lavori sani e lavori insalubri. Naturalmente ognuno sceglierebbe i lavori migliori: chi farebbe gli altri, che sono spesso i più necessari?

E poi v'è la grande divisione tra il lavoro intellettuale e quello manuale. Non vi pare che tutti vorrebbero essere dottori, letterati, poeti, e nessuno vorrebbe coltivare la terra, fare le scarpe, ecc. ecc. E allora?

Giorgio. - Voi volete prevedere la società avvenire, società di eguaglianza, di libertà e soprattutto di solidarietà e libero accordo, supponendo che durino le condizioni morali e materiali dell'oggi. Naturalmente la cosa appare ed è impossibile.

Quando tutti ne avessero i mezzi, tutti raggiungerebbero il massimo sviluppo materiale ed intellettuale che le loro facoltà naturali permettono: tutti sarebbero iniziati alle gioie intellettuali ed ai lavori produttivi; la mente ed il corpo si svilupperebbero armonicamente; in gradi diversi, secondo le inclinazioni e le capacità, tutti sarebbero scienziati e letterati e tutti sarebbero operai.

Che cosa succederebbe allora?

Immaginate che alcune migliaia di medici, ingegneri, letterati, artisti fossero trasportati sopra un isola vasta e fertile, forniti di strumenti di lavoro e lasciati a loro stessi.

Credete voi che si lascerebbero morir di fame piuttosto che lavorare colle loro mani, o che si ammazzerebbero tra di loro piuttosto che accordarsi e dividersi il lavoro secondo le inclinazioni e le capacità? Se vi fossero lavori che nessuno ama di fare, li farebbero tutti per turno, e tutti cercherebbero i mezzi per rendere sani e piacevoli i lavori insalubri e duri.

Ambrogio. - Basta, basta. Io avrei mille altre domande da farvi, ma voi vagate in piena utopia e trovate modo, in immaginazione, di risolvere tutti i problemi.

Preferirei che mi parlaste un poco delle vie e dei mezzi che vi proponete per realizzare i vostri sogni.

Giorgio. - Molto volentieri, tanto più che secondo me, pur essendo l'ideale utile e necessario come faro che indica la meta ultima, la questione urgente è quella di ciò che si deve fare oggi e nel domani immediato.

Ne parleremo la prossima volta.

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