Forza, violenza, dittatura nella lotta di classe - 2a parte

Poiché sarebbe troppo lungo applicare a tutti i tipi sociali che hanno preceduto la rivoluzione borghese la ricerca che ci siamo proposta circa il dosaggio della violenza tra uomini, applicata allo stato attuale, con percossa e lesione fisica, e la violenza che rimane invece allo stato potenziale piegando i dominati al volere dei dominatori col gioco complesso di tutte le sanzioni comminate ma non consumate, prenderemo in esame la cosa partendo dal confronto tra il mondo sociale dell'"ancien régime" che precedette la grande rivoluzione e quello capitalistico in cui abbiamo la particolare soddisfazione di vivere.

Secondo un primo e ben noto schema, la rivoluzione che attuò i principi della libertà, uguaglianza e fraternità, espressi soprattutto negli istituti elettivi, fu una conquista tanto universale quanto definitiva, ovvero in primo luogo migliorò radicalmente le condizioni di tutti i membri della società liberandoli dalle antiche op-pressioni e schiudendo loro le gioie di un mondo nuovo; ed in secondo luogo eliminò l'eventualità storica di ogni ulteriore grande conflitto sociale avente un carattere di infrangimento violento delle istituzioni e dei rapporti sociali.

Un secondo schema meno ingenuo e meno sfacciatamente apologetico delle delizie del sistema borghese ammette che in questo sussistano forti disparità di condizione sociale e un grave sfruttamento economico ai danni delle classi lavoratrici, e che ulteriori trasformazioni della società dovranno determinarsi per vie più o meno brusche o più o meno graduali, ma afferma con ostinata assolutezza che le conquiste della rivoluzione che condusse al potere la classe capitalistica costituirono tuttavia un sostanziale vantaggio anche per tutte le altre classi le quali conseguirono grazie ad essa l'inestimabile bene delle libertà legali e civili. Non si tratterebbe dunque che di continuare una via già aperta, di eliminare, dopo talune forme più severe e atroci di dispotismo e di sfruttamento, altre forme superstiti, tenendo però ben salde quelle prime fondamentali conquiste. Questo schema abusato viene servito in tutte le fogge o dai vertici della piramide del potere, quando qualche Roosevelt si degna di elencare dopo le ben note libertà della vecchia letteratura le nuove libertà dal bisogno e dalla paura (nell'atto stesso in cui un cataclisma bellico di centuplicata violenza aumenta a dismisura il numero di creature umane sterminate e affamate) o dalla base, quando qualche ingenuo esponente del basso politicantismo popolare formula in nuove parole l'antico intruglio di democrazia e socialismo cianciando delle libertà sociali che dovremmo aggiungere a quelle civili già assicurate.

Non dovrebbe essere neppur necessario rammentare che la decifrazione data dal marxismo del processo storico dell'avvento capitalistico non ha nulla a che vedere né col primo né col secondo degli schemi ora ricordati.

Marx non solo non ha mai detto che nella società capitalistica il grado di sfruttamento, di oppressione e di sopraffazione, fosse minore che in quella feudale o terriera-artigiana, ma ha esplicitamente dimostrato il contrario.

Diciamo subito, ad evitare gravi equivoci, che, se Marx proclamò storicamente la necessità che il Quarto Stato combattesse a fianco della borghesia rivoluzionaria contro la monarchia, l'aristocrazia e il clero, se condannò i sistemi di socialismo "reazionario" secondo i quali gli operai tempestivamente avvertiti del selvaggio sfruttamento che si sarebbe sfrenato nelle manifatture e nelle industrie dei capitalisti avrebbero dovuto far blocco contro costoro coi ceti dominanti feudali, e se storicamente il marxismo più ortodosso e di sinistra riconosce che nella prima fase storica borghese post-rivoluzionaria la strategia del proletariato non poteva essere diversa da quella di una risoluta alleanza con la giovane borghesia giacobina, queste chiare e classiche posizioni non derivano affatto dal presupposto che il nuovo sistema economico fosse meno esoso ed oppressivo del precedente.

Esse derivano invece da tutta la concezione dialettica della storia che spiega la successione degli eventi con le determinazioni delle forze produttive che, dilatandosi e utilizzando sempre nuove risorse, premono contro le forme istituzionali e i sistemi di potere e ne causano le crisi e le catastrofi.

Se quindi i socialisti rivoluzionari seguono da oltre un secolo le vittorie del moderno capitalismo e la sua impressionante espansione nel mondo guardando ad esse come ad utili condizioni del divenire sociale, ciò avviene perché le caratteristiche essenziali del capitalismo - come la concentrazione delle forze produttive, macchine ed uomini, in potenti unità, la trasformazione di tutti i beni d'uso in beni di scambio, il concatenamento di tutte le economie che hanno vita sul pianeta - costituiscono l'unica strada per attuare, dopo altri imponenti conflitti civili, la nuova società comunista. Il che resta vero e necessario pur sapendosi perfettamente che la società industriale e capitalistica moderna è peggiore e più feroce di quelle che l'hanno preceduta.

Naturalmente, questa conclusione è indigesta per mentalità plasmate secondo l'ideologia borghese e alle quali sono congeniti gli ideologismi pullulati nel periodo romantico delle rivoluzioni democratico-liberali. Posta quella tesi al vaglio di criteri sentimentali, letterari e retorici, essa non potrebbe provocare che la banale indignazione dei benpensanti, i quali non mancherebbero di rovesciarci sulla testa tutta la loro farraginosa erudizione sulle nequizie degli antichi dispotismi, gli auto da fé, la Santa Inquisizione, le corvées dei servi della gleba, il diritto di vita e di morte spettante al monarca come all'ultimo signorotto feudale, lo jus primae noctis e così via, per dimostrarci che le società pre-borghesi erano teatro di quotidiane e incessanti violenze e le loro istituzioni grondavano tutte di sangue.

Ma se la ricerca viene impostata scientificamente e statisticamente, e ci si chiede quanto lavoro umano venga estorto senza compenso per consentire un godimento privilegiato delle ricchezze e dei redditi, quanta miseria si determina nel bassofondo sociale, quante vite vengono sacrificate o stroncate per effetto del disagio economico e, via via, delle crisi e di scontri aventi carattere di contese private, di guerre civili o di conflitti militari fra gli stati, l'indice più pesante dovrà essere calcolato e segnato in conto proprio a questa civile democratica e parlamentare società borghese.

È fondamentale in Marx, di fronte alla scandalizzata accusa rivolta ai comunisti di mirare a distruggere la proprietà, l'affermazione che uno degli aspetti essenziali del rivolgimento sociale attuato dal capitalismo è la violenta, disumana espropriazione del lavoratore artigiano.

Prima del sorgere delle grandi manifatture e delle fabbriche meccaniche, un legame di fatto, tecnico ed economico, univa l'artefice isolato (o associato a pochi familiari e discepoli) tanto agli arnesi quanto ai prodotti dell'opera sua. Nel rapporto giuridico gli era riconosciuto illimitato il diritto di proprietà sui pochi utensili e sul limitato volume di merci allestite nella sua bottega. L'avvento del capitalismo infrange questo sistema patriarcale e quasi idilliaco, defrauda l'intelligente e operoso artigiano del suo modesto possesso e lo trascina nullatenente e affamato nella galera della moderna azienda borghese. Mentre questo rivolgimento sì compie, spesso con aperta violenza e sempre sotto la pressione di inesorabili forze economiche, il suo aspetto giuridico viene definito dagli ideologi borghesi una conquista della libertà, che svincola il cittadino lavoratore dalle pastoie delle gilde medioevali e dei regolamenti di mestiere, facendone un libero uomo in libero stato.

Se questo processo concerne la sfera di produzione dei manufatti nel suo complesso, non diversa è la presentazione in termini di marxismo degli sviluppi della produzione agraria. Il regime di servitù feudale obbligava bensì il lavoratore della terra a privarsi di larghe quote dei suoi prodotti devolvendole ai ceri dominanti religiosi e nobiliari. Ma il servo legato alla gleba conservava un legame tecnico-produttivo colla terra stessa e con una parte dei prodotti, legame che indirettamente gli offriva una garanzia di vita comoda e tranquilla, dato anche lo scarso addensamento della popolazione e i limitati scambi di derrate con grandi agglomerati urbani.

La rivoluzione capitalistica spezza questi rapporti e afferma di aver liberato il contadino servo di tutta una serie di sopraffazioni, ma o il lavoratore della terra, ridotto a puro proletario, segue il destino dell'armata negriera dei lavoratori industriali, o, trasformato in gestore o proprietario giuridicamente perfetto di piccoli lotti, viene taglieggiato dallo strozzino capitalista, dall'agente del fisco o dalla volatilizzazione della moneta.

Non è compito di questo scritto entrare nel dettaglio di tali analisi, ma le elementari considerazioni ora svolte basteranno a chi finga di sentire per la prima volta che per Marx la nuova società borghese era più infame della feudale.

Il punto essenziale da stabilire è questo: il criterio discriminante per appoggiare o combattere uno svolgimento storico non è quello, inconsistente e vanamente letterario, di ricercare se si è attuata e conseguita più eguaglianza, più giustizia, più libertà, ma l'altro totalmente diverso e molte volte opposto di chiedersi se la nuova situazione ha favorevolmente avviato e promosso lo sviluppo di più potenti e complesse forze produttive a disposizione della società, forze che sono la premessa indispensabile della futura organizzazione della società medesima nel senso del maggior rendimento del lavoro per una più larga disponibilità di beni di consumo a vantaggio di tutti.

Era indispensabile oltre che utile che la borghesia con la guerra civile abbattesse gli ostacoli istituzionali che ritardavano il sorgere delle grandi fabbriche e un più moderno sfruttamento della terra; e di fronte a questo poco importa che la prima e immediata conseguenza, transitoria in un più vasto senso storico, sia stata di rendere più pesanti e odiose le catene della disparità sociale e dello sfruttamento della forza lavoro.


La critica del socialismo scientifico ha messo chiaramente in evidenza che la grande trasformazione sociale attuata dal capitalismo (trasformazione storicamente matura e feconda a sua volta di sviluppi grandiosi) non va affatto definita né come una radicale liberazione interessante le grandi masse, né come un sensibile balzo innanzi nel loro tenore economico di vita. La trasformazione degli istituti riguarda unicamente il modo di schieramento e di organamento della piccola minoranza privilegiata e dominante.

I componenti delle classi privilegiate preborghesi erano intrecciati in un sistema basato su fitte gerarchie. I grandi prelati appartenevano all'ordinata e inquadratissima rete della chiesa; i nobili, che erano anche i più alti funzionari civili e militari, erano gerarchicamente disposti nel sistema feudale che aveva al suo vertice il monarca.

Nel nuovo tipo di società, per contro - e qui si intenda che, trascurando tutte le importantissime differenze di periodi e di nazioni, parliamo della prima e classica società economica borghese basata sulla illimitata libertà di produzione e di scambio - i componenti dello strato supremo e privilegiato sono pressoché totalmente sciolti da legami di interdipendenza, in quanto ogni padrone di azienda è libero da qualsiasi obbligo verso i suoi colleghi e concorrenti nel dirigere le proprie operazioni e iniziative. Questo trapasso tecnico e sociale prende, nel succedersi delle ideologie, l'aspetto di una svolta storica dal mondo dell'autorità a quello della libertà.

Ma è chiaro che questa conquista, questo sensazionale cambiamento di scena ha per teatro non l'insieme dell'agglomerato sociale ma la ristretta pedana sulla quale si muovono i fortunati, i componenti lo strato dei ventri pieni e dorati, integrato dalla ristretta cerchia dei loro diretti agenti e manutengoli: politicanti, pubblicisti, sacerdoti, maestri, alti funzionari e simili.

La gran massa dei ventri semivuoti rimane assente non certo da questa immane tragedia, cui anzi partecipa lottando con sacrificio di vite e di sangue, ma dalla partecipazione ai benefici del mutamento.

La conquista giuridica della libertà, proclamata in tutte le carte e costituzioni retaggio di tutti i cittadini, non riguarda dunque la maggioranza, sfruttata e affamata ancor più di prima, ma è faccenda interna di una minoranza. Ed è alla luce di questo criterio che vanno risolti tutti i quesiti storici e attuali in cui si ripropone il postulato stucchevole della libertà e della democrazia.

Ridotta a scala individuale, la tesi materialista afferma che, poiché il cervello funziona quando lo stomaco può nutrirsi, il diritto teorico a liberamente pensare ed esprimere il proprio pensiero interessa di fatto solo chi ha la possibilità di tale attività superiore, possibilità perfettamente contestabile a molti che ne menano vanto di continuo, ma comunque sicuramente preclusa alla schiera dei ventri insufficientemente riempiti.

Alla crudezza di questa tesi segue abitualmente lo scatenarsi delle rampogne contro il piatto e osceno materialismo che, conoscendo il solo fattore economico ed alimentare, ignora tutta la radiosa sfera della vita dello spirito e disconosce le soddisfazioni non riducibili a sensazioni fisiche, che l'uomo dovrebbe trarre dall'uso della ragione, dal riconoscimento delle civili libertà, dal godimento dei diritti di cittadino elettore che sceglie i suoi rappresentanti e i capi dello stato.

Ma a tal proposito conviene ancora una volta - poiché non si espongono qui davvero cose nuove, ma tutt'al più si verificano con fatti recenti teorie ben note - rettificare la portata del determinismo economico professato dai marxisti contro una corrente deformazione, più ostinata a non guarire della rogna e di simili malattie attaccaticce, che riduce il problema alla meschina scala individuale, e pretende che ogni individuo tenda ad adottare in politica, in filosofia, in religione, opinioni derivate dal rapporto economico in cui vive, e meccanicamente svolgentisi dalla molla dei suoi appetiti e dei suoi interessi. Il gran proprietario terriero sarà bacchettone forcaiolo e destro, l'affarista borghese conservatore in economia ma talvolta, almeno fino a ieri, sinistreggiante in filosofia e in politica, l'uomo dei ceti medi più o meno democratico, il lavoratore infine materialista, socialista, rivoluzionario.

Un simile marxismo ad uso del delfino demo-borghese fa molto comodo per stabilire ottimisticamente che costituendo i lavoratori, economicamente oppressi, la gran maggioranza dei popoli, essi non tarderanno ad avere nelle mani gli organismi rappresentativi ed esecutivi e, via via proseguendo, la ricchezza e il capitale. Naturalmente, sarà gran vantaggio per il rapido moto di questa giostra da fiera far pencolare a sinistra opinioni, credenze e schieramenti politici, combinando blocchi e pasticci con tutta la melma dei ceti intermedi, che andrebbero progressivamente evolvendosi, e pronunziandosi contro la politica e il privilegio delle alte classi.

Al posto di questa sciocca caricatura, il marxismo traccia linee totalmente diverse, e stabilisce invece, quando parla di sovrastrutture ideologiche, politiche, mistiche che trovano la loro spiegazione nelle sottostanti condizioni e rapporti economici, una legge e un metodo di portata generale e sociale. Per spiegare il significato delle ideologie prevalenti in una data epoca storica presso un popolo governato con un dato regime, noi dobbiamo fondare l'analisi sui dati della tecnica produttiva e dei rapporti di ripartizione dei beni e dei prodotti, sui rapporti di classe tra gruppi privilegiati e collettività produttrici.

In breve, e in parole povere, la legge del determinismo economico dice che in ciascuna epoca l'opinione generalmente prevalente, il pensiero politico filosofico e religioso più accreditato e seguito è quello che corrisponde agli interessi della minoranza dominante che detiene nelle sue mani il privilegio e il potere. Così i sacerdoti e dottori degli antichi popoli orientali giustificheranno il dispotismo e l'immolazione di vite umane, quelli pagani dimostreranno benefica e giusta la schiavitù, quelli cristiani la proprietà e la monarchia, quelli dell'epoca democratica e illuministica gli schemi economici e giuridici che convengono al capitalismo.

Allorché un tipo di società e di produzione entra in crisi e nel campo della tecnica e della produzione si destano forze che tendono ad infrangerne i limiti, i conflitti di classe scoppiano più acuti ed hanno il loro riflesso anche nel sorgere di nuove dottrine di opposizione e sovversione, che vengono condannate e combattute dalle istituzioni dominanti. Quando una società è in crisi, una delle caratteristiche della fase che allora si apre è il numero relativamente sempre più ristretto di persone che beneficiano del regime in vigore; tuttavia, l'ideologia rivoluzionaria non prevale nella massa ma in una sua minoranza di avanguardia in cui confluiscono persino elementi della classe dirigente. Per inerzia, e per effetto dei formidabili mezzi di fabbricazione delle opinioni di cui dispone ogni classe dominante, la massa muterà ideologie, filosofie e religioni solo in un lungo periodo successivo al crollo delle antiche impalcature di dominio. Si deve anzi affermare che una rivoluzione è veramente matura quando, benché le opinioni dominanti con la loro spaventosa inerzia reazionaria continuino a rimasticare i vecchi dettami tradizionali, tanto nel seno della massa che ne è vittima, quanto fra i ceti superiori depositari del regime, il fatto reale e fisico dell'inadeguatezza dei sistemi di produzione li pone contro gli stessi interessi materiali della classe privilegiata in larghi suoi strati.

Così, lo schiavismo cadde definitivamente, malgrado le ostinate resistenze sul piano delle idee e su quello delle forze, quando si rivelò un sistema poco redditizio di sfruttamento del lavoro e poco vantaggioso per i padroni.

La liberazione di una classe oppressa non procede quindi, per dirla in modo spiccio, prima negli spiriti e poi nei corpi, ma deve redimere il ventre molto prima del cervello.

Ora, le forze di ingannatrice mobilitazione delle opinioni della massa nel senso che interessa il ceto privilegiato sono, nella società capitalistica, molto più potenti che in quelle pre-borghesi. Scuola, stampa, oratoria pubblica, radio, cinema, associazioni di ogni specie, rappresentano mezzi di un potenziale centinaia di volte più forte di quelli a disposizione delle società dei secoli passati. In regime capitalistico il pensiero è una merce, e lo si produce su misura impiegando sufficienti impianti e mezzi economici alla sua fabbricazione in serie. Se Germania ed Italia ebbero i Ministeri della Propaganda e della Cultura Popolare, la Gran Bretagna istituì all'inizio della guerra il Ministero delle Informazioni per monopolizzare ed inquadrare tutta la circolazione delle notizie. Questa era già nell'inter-guerra monopolio della potente rete delle agenzie giornalistiche inglesi: oggi, ovviamente, tale monopolio ha varcato l'Atlantico. Finché gli eventi militari furono favorevoli ai tedeschi, la produzione giornaliera di frottole e di menzogne dell'officina inglese raggiunse volumi che le organizzazioni fasciste hanno potuto soltanto invidiate. Per dirne una, al tempo delle incredibili operazioni militari tedesche per la conquista della Norvegia in 48 ore, le radio britanniche propinarono i particolari di una disastrosa sconfitta riportata dalla flotta germanica nello Skager-rak!

Questo fattore sociale della manipolazione dall'alto delle idee, che va dalla falsa notizia (nell'attuale organizzazione giornalistica le versioni di un fatto sono già tutte compilate prima che il fatto accada, e quando sembra che uno degli informatori abbia ragione si tratta pur sempre di un bugiardo; era il povero fatto che doveva accadere secondo uno degli schemi comodo a questo o a quello stato, a questo o a quel partito) fino alla critica e all'opinione bell'e fatta, non deve sembrare di poco peso. Esso si inquadra nella massa delle violenze virtuali, che cioè non prendono l'aspetto di una imposizione brutale con mezzi coercitivi, ma sono tuttavia risultato ed esplicazione di forze reali, che deformano e spostano situazioni effettive.

Il moderno tipo di società borghese democratica, pur non scherzando nella consumazione di effettive violenze "cinetiche" di polizia e di guerra, e battendo anche per questo coefficiente i diffamati vecchi regimi, porta a massimi sconosciuti (e comparabili ai suoi massimi di produzione e di concentrazione della ricchezza) anche il volume di questa applicazione di violenze virtuali, per cui gruppi di massa si presentano, per apparente libera scelta di confessioni, di opinioni e di credenze, come agenti contro i propri interessi obiettivi, e accettano le giustificazioni teoriche di legami ed atti sociali che in realtà li affamano o li distruggono addirittura.

Il trapasso dalle forme pre-borghesi alla società attuale ha dunque aumentato e non diminuito l'intensità e la frequenza del fattore della sopraffazione e dell'imposizione.

E quando, dal punto di vista marxista, si esige per le dette ragioni che quel fondamentale trapasso storico sia pieno e compiuto, non si vuole certo dimenticare o contraddire questa posizione fondamentale.

Solo con criteri coerenti a quelli qui stabiliti deve giudicarsi e decifrarsi il problema oggi attuale e scottante di una trasformazione nei modi di amministrare e governare della borghesia, che corrisponde al sorgere dei regimi totalitari dittatoriali e fascisti.

Tale trapasso non costituisce un mutamento di classe dominante, e tanto meno una rottura rivoluzionaria dei modi di produzione. Nel farne la critica, bisogna però evitare i banali errori che, in conformità alle notissime deviazioni dal marxismo qui confutate, condurrebbero ad accreditare alla forma e alla fase democratico-parlamentare una minore intensità e densità della violenza di classe.

Questo criterio, anche se rispondesse ai fatti, non sarebbe comunque sufficiente a farci propugnare e difendere tale fase, per le ragioni dialettiche applicate alla valutazione dei trapassi precedenti. Ma l'analisi di questo punto potrà anche dimostrare che chi sfugge alla suggestione di considerare la sola violenza in atto e misura invece tutto il volume di quella potenziale insita nella vita e nella dinamica della società, eviterà di cadere nell'inganno di preferire, sia pure in via subordinata e relativa, il metodo ipocrita e il mefitico ambiente della democrazia liberale.

A. Orso

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.