Zone precapitaliste e imperialismo

Capitolo terzo

I termini del dissenso sulla questione coloniale sono rimasti tali quali sono apparsi al momento della rottura della organizzazione internazionalista. Si potrebbe dire che le rispettive posizioni si sono ulteriormente allontanate; da una parte si continua ad affermare che compito dell'avanguardia rivoluzionaria è di aiutare le popolazioni di colore a superare lo stadio dell'economia feudale dove il capitalismo è allo stato iniziale, che è riscontrabile nella quasi totalità delle colonie soggette al dominio e allo sfruttamento imperialista dei paesi europei, aiutarli a portare a compimento questa fase ascensiva del loro sviluppo, dall'altra la posizione tradizionale della sinistra italiana che noi difendiamo respinge tale tematica come revisionista e inficiata di intellettualismo in nulla dissimile dalla formulazione che ne diede il pur grande Labriola posto di fronte alla prima avvisaglia colonialista del nascente imperialismo italiano, ritiene chiusa la fase. storica delle guerre coloniali e considera le rivoluzioni nazionali di questi paesi non nel giro di una fase storica a se stante ma come elemento marginale, non indipendente nel quadro della strategia mondiale dell'imperialismo.

Soggiacciono agli impulsi di una stessa dialettica tanto il capitalismo che, obbedendo alla dinamica che gli è propria, tende alla eliminazione delle zone extracapitalistiche, quanto il proletariato di queste stesse zone che va autoformandosi nella lotta per la sua esistenza fino alla sua caratterizzazione in classe con tutti i riflessi politici che salgono da questo fondo dei nuovi rapporti economici che tendono a varcare i limiti della stessa esperienza nazionale incapaci a lungo andare a contenerne la carica espansiva propria d'ogni economia giovane.

Sotto questo profilo gli uni sono inevitabilmente spinti ad auspicare la vittoriosa affermazione della rivoluzione nazionale contro i paesi colonialisti, quando non pongono, conclusione logica alla loro teoria, l'imperativo storico del loro aggancio ai capitalismi non ancora pervenuti alla fase parassitarla, la Tunisia stalinizzata, la Cina di Mao e cosi via, mentre por noi l'interesse per le lotte coloniali è commisurato alla possibilità concreta di spostarne l'asse dal piano nazionalista a quello della lotta del proletariato internazionale sotto la guida della sua avanguardia rivoluzionaria.

Quando i compagni “programmisti” formularono il loro pensiero in termini di augurio perché le truppe coreane del nord “cinesi e russi” riuscissero a buttare a mare le truppe avversarie “cinesi-americani”, non esprimevano tanto una indicazione teorica, quanto una soluzione politica di estrema chiarezza ma anche di estrema gravità per degli internazionalisti consapevolmente conseguenti. L'ipotesi di una sconfitta cino-americana avrebbe significato la vittoria in quel settore dei “cino-russi”; ma porsi sul terreno della scelta significava esprimere una simpatia intellettuale per amore alla propria tesi che avrebbe spinto questi compagni inevitabilmente nel baratro dell'idealismo; oppure se la simpatia si fosse tradotta in termini di solidarietà politica, essa avrebbe aperto la strada alla solidarietà verso uno dei contendenti imperialisti. In altre parole o si pensa e si opera in termini di dialettica di classe e si rimane fedeli alla piattaforma critica della sinistra italiana, oppure si passa inevitabilmente dall'altra parte, chi al seguito dell'iniziativa americana e chi al seguito dell'iniziativa russa, con l'identico risultato di silurare in ogni caso l'iniziativa rivoluzionaria del proletariato diretta e contro l'uno e contro l'altro, blocco, imperialista.

Lo schema tracciato dai “programmisti” sul problema nazionale non soltanto è in chiave acriticamente deterministica, ma colpisce per la più assoluta assenza di senso storico.

Se si considera che in non pochi Stati di Occidente la rivoluzione antifeudale si accompagnò alla lotta per l'indipendenza nazionale, ci si avvede che nella rivoluzione anti-coloniale agiscono le stesse cause che furono all'opera nella rivoluzione borghese europea. Saranno identici i risultati? Il nostro fermo determinismo risponde nettamente di sì. La rivoluzione in atto “occidentalizzerà” l'Oriente, liquidando il feudalesimo, gonfiando l'industrialismo capitalista, trasformando in senso borghese la società, e ponendo con ciò le premesse della lotta tra capitalismo e socialismo.

da Programma Comunista n. 15

Ecco la geniale scoperta: “nella rivoluzione anticoloniale agiscono le stesse cause che furono all'opera nella rivoluzione borghese europea”, e saranno identici i risultati. Ancora una volta, come si vede, data la causa, inevitabile l'effetto; al lampo segue il tuono e cosi sia; visione fenomenica sempre vera per questi compagni quali che sia il clima politico e le forze sociali messe in movimento in queste due diversissime fasi della storia. Errore imperdonabile, diremo con Lenin, consistente nel non aver capito fino a che punto i due periodi storici dello sviluppo dei paesi che si mettono a paragone, sono paragonabili. E non lo sono che formalmente. Le rivoluzioni nazionali nell'Europa occidentale abbracciano un. intervallo di tempo che va dal 1789 al 1871 ed è il clima storico dell'apparizione del capitalismo col conseguente moto delle nazionalità che caratterizza fondamentalmente le ideologie e l'espansionismo economico-politico scaturiti dalla rivoluzione giacobina, tendenti a creare degli stati nazionali indipendenti ed omogenei. Questa fase storica dei paesi europei che si chiude con l'apparire del proletariato come classe antagonistica alla borghesia nazionale può essere definita pre-imperialista in confronto a quella che seguirà fortemente caratterizzata come fase del capitalismo imperialista nel cui clima si aprirà l'altra, storicamente marginale, delle rivoluzioni democratiche borghesi dell'Europa orientale e delle zone afro asiatiche (Indocina, Egitto, Algeria, Siria).

Quale valore può avere la lotta per una indipendenza in un paese che non trova la sua spinta iniziale ed essenziale nei motivi della propria storia, ma deve attribuire le sue fortune o sfortune alla posizione geografica che le costringe a vivere in un blocco piuttosto che in un altro e a subirne la nuova forma di dominio con la necessaria penetrazione economica attraverso il canale del capitale finanziario, con una rete di prestiti in denaro, prestiti in armi, prestiti in complessi industriali, prestiti in aziende agricole ecc. ecc. assai più fitta ed oppressiva d'ogni altra politica colonialista vecchio stile?

Gli stati che sorgono in queste condizioni non sono né indipendenti né omogenei e in essi la lotta si accende o si spegne, si esaspera nel sangue o si costituzionalizza secondo una logica che si sviluppa al di là e al di sopra dei modesti limiti nazionali; è la logica delle nuove egemonie che non hanno bisogno per dominare dell'occupazione militare e del possesso territoriale, e possono permettersi il lusso di solidarizzare con le forze progressiste e con le rivoluzioni... nazionali.