La questione algerina e l'opportunismo colonialista della sinistra francese

Libri e vicende

Nella storia dell'imperialismo mai una crisi coloniale aveva assunto una ampiezza ed una drammaticità pari all'odierna guerra d'Algeria.

È questo il dato più interessante che emerge da una prima analisi della questione coloniale nell'attuale fase dell'imperialismo ed è questo dato che ci può aiutare a comprendere la natura profondamente reazionaria dei superstiti rapporti colonialisti.

Tutto il corso del moderno colonialismo è contrassegnato dall'uso della violenza e della sopraffazione delle grandi potenze imperialistiche, e l'introduzione di settori d'economia mercantile capitalista nelle zone arretrate marcia di pari passo con la distruzione spietata degli antichi vincoli indigeni, sì da far discutere gli stessi storici marxisti sulla portata storica della conquista coloniale.

Anche alla luce della documentazione più aggiornata, spesso opera dei nuovi studiosi dei paesi ex-coloniali, va formandosi un quadro gigantesco della distruzione operata dai colonialisti: civiltà feudali scomparse senza che fossero soppiantate da nuove istituzioni e costumi culturali, popolazioni decimate dai negrieri, dall'oppio, da malattie importate, dalla miseria accresciuta, dalla disoccupazione creata dallo spopolamento agricolo e dalle monoculture mercantilizzate nella rete del commercio internazionale.

Certamente, nella denuncia di molti studiosi africani ed asiatici operano oltre al legittimo risentimento anticolonialistico, sopravalutazioni delle autoctone civiltà feudali.

Resta però il fatto che l'introduzione, peraltro parziale, di rapporti di produzione capitalistici ha rappresentato un prezzo economico ed umano rilevantissimo non paragonabile allo sviluppo, per quanto dolorosissimo, del capitalismo nei Paesi occidentali e lascia il livello economico dei paesi ex-coloniali ad un grado bassissimo.

Ciò, per il marxismo, è spiegato da due ragioni fondamentali:

  1. La “diffusione” del capitalismo nei Paesi coloniali è avvenuta non sulla base di una accumulazione allargata di capitale ma sulla introduzione forzata di rapporti di scambio capitalistici soprattutto nell'acquisto ed esportazione di materie prime e nella importazione di beni di consunto e beni strumentali industriali. Nel quadro del commercio internazionale imperialistico è avvenuta, come bene ha descritto il Kautsky, l'introduzione dei rapporti capitalistici nell'agricoltura indigena con il risultato di creare una eccedenza agricola di beni di consumo esportabili e a basso prezzo ed una penuria di beni di consumo precedentemente disponibili con la produzione feudale. Lo squilibrio sociale determinato dalla rottura dei rapporti feudali di produzione, a bassa produttività ma a pieno impiego di manodopera contadina in una capillare produzione di consumo, e dalla conseguente formazione di una larga manodopera disponibile (ex-contadini, ex-artigiani), non è stato compensato, quasi mai e a differenza dello sviluppo storico del capitalismo occidentale. dal sorgere dell'industria manifatturiera. Anche quando un certo settore di industria leggera è sorto (tipico esempio l'India) quantitativamente esso ha avuto poco peso nell'economia generale del Paese.
  2. L'accumulazione del capitale è stata drenata, perciò, nel rapporto imperialistico verso i Paesi industriali, sia che il drenaggio avvenisse nel commercio inequivalente di materie prime e prodotti industriali, sia che avvenisse, invece nello sfruttamento diretto di fonti di materie prime ecc. La quota di profitto che rimaneva nei Paesi coloniali era assorbita dagli investimenti e dalle spese improduttive locali e dalla borghesia commerciale.

L'imperialismo creando il mercato mondiale sulla base dei rapporti di scambio capitalistici ha immesso forzatamente le economie dei Paesi sottosviluppati nel mercato capitalistico, le ha strappate dal loro isolamento feudale, le ha legate al commercio internazionale in condizioni di vitale interdipendenza, ha promosso in esse l'accumulazione del capitale che ha però loro tolto col “sovrapprofitto”.

La fase colonialistica dell'imperialismo è stata caratterizzata da questa rapina diretta, ma tale fase è andata disgregandosi in un mare di contrasti e di conflitti violenti. Subentra l'attuale fase dell'imperialismo per cui il “sovrapprofitto”, cioè la quota ricavata dalla accumulazione di capitale nel paese arretrato, è formato soprattutto dallo scambio commerciale mentre i mutati rapporti di dipendenza politica permettono al paese arretrato un maggiore utilizzo della propria accumulazione capitalistica ai fini dell'investimento industriale e delle formazioni delle basi materiali dello sviluppo economico. Tutto ciò in teoria, poiché in pratica l'accumulazione capitalistica del paese arretrato viene a dipendere sempre più dal commercio internazionale, ha un ritmo molto lento, incontra enormi difficoltà di varia natura e richiede una importazione di capitali imperialistici. La tendenza, anche se ostacolata, anche se sfruttata, anche se passibile di arresti, è però cambiata perchè è la tendenza alla industrializzazione.

Se si considerano queste linee generali di sviluppo imperialistico si comprendono pure le componenti del nodo algerino e l'estrema violenza con cui si è manifestato. Il caso algerino è situato a cavallo tra la prima e la seconda fase dell'imperialismo, tra lo sfruttamento di tipo colonialistico e lo sfruttamento neocolonialistico. In Algeria, con la dominazione francese, si è avuta:

  1. la rottura dei rapporti feudali nell'agricoltura e l'instaurazione dei rapporti di scambio capitalistici, con la conseguente formazione della impresa agricola capitalista, la manodopera salariata, la disoccupazione di massa, la pauperizzazione rurale ed urbana;
  2. la formazione di una industria leggera e di una borghesia commerciale attorniata da strati intermedi commerciali, rurali e burocratici;
  3. l'inizio di una grande industria;
  4. l'unilateralismo commerciale che convogliava verso la Francia il sovraprofitto imperialistico.

Ma data la massiccia immigrazione di coloni francesi, la popolazione algerina, in grandissima maggioranza, è rimasta subordinata nella nuova gerarchia sociale di modo che la borghesia agraria e commerciale, la media e la piccola borghesia rurale ed urbana sono composte quasi esclusivamente da francesi. Questo è il primo aspetto importante della situazione sociale algerina. Il secondo aspetto è costituito dal fatto che la presenza di una numerosa borghesia e piccola borghesia francese, per molti versi parassitaria, ha frenato l'esodo del profitto verso la madre patria ed ostacolato, nello stesso tempo, la formazione della grande industria in loco. A differenza di una borghesia nazionale - che forzatamente è costretta ad operare sulle risorse del proprio paese - la borghesia agraria francese d'Algeria in generale e particolarmente in certe contingenze (congiuntura internazionale di ribasso dei prezzi delle materie prime e dei prodotti agricoli) pesa negativamente sul capitalismo industriale della madrepatria, attraverso una politica protezionistica statale sulla quale ha molte ragioni politiche per influire. Se ieri aspetti positivi e negativi dello sfruttamento coloniale venivano mediati dalla politica dell'imperialismo francese in una bilancia favorevole, oggi anche questa contraddizione è esplosa violentemente ad opera della rivolta contadina, nazionalista, del passivo rappresentato dalle spese di guerra, della necessità del capitalismo monopolistico francese di esportare capitali in investimenti produttivi (petrolio del Sahara ed industria siderurgica tracciata col Piano di Costantine) e non più in sovvenzionamenti e sostegno dei prezzi agricoli per i numerosissimi e parassitari coloni francesi.

Il nodo delle contraddizioni è intricatissimo e, dati i fattori in gioco, non offre soluzioni facili. La questione coloniale in Algeria assume, perciò, un aspetto estremamente caotico che non trova riscontro in altre zone ed anche da ciò ne deriva la sua virulenza. Anche le possibili soluzioni teoriche sono frantumate dalla realtà. La migliore soluzione per il capitalismo francese sarebbe quella di adeguarsi alla politica coloniale di tutte le potenze imperialistiche: indipendenza politica all'Algeria, e forte dipendenza economica provocata dagli investimenti industriali e dai legami commerciali. Tale soluzione “marocchina” è imposta, tra l'altro, dalla forte infiltrazione americana in tale direzione, infiltrazione di cui il Marocco è, appunto, un chiaro esempio. Ma questa soluzione è ostacolata non tanto dal nazionalismo algerino quanto dai coloni francesi.

L'altra soluzione è quella rappresentata dalla vittoria nazionalista. A prescindere dalla fortissima resistenza francese, la vittoria nazionalista è ostacolata dalle sue stesse condizioni intrinseche. Abbiamo già visto come non esista una forte borghesia algerina che abbia realizzato una discreta accumulazione di capitale; praticamente non esiste, neppure, una forte media e piccola borghesia algerina, dato che i ruoli sociali svolti da questi strati sono stati ricoperti da personale francese. La rivolta algerina assume un carattere particolare di rivoluzione democratico-borghese. suscettibile di interessanti evoluzioni sociali ed ideologiche, in quanto ha una base di massa contadina e bracciantile ed in cui i quadri dirigenti sono stati forniti da intellettuali e da proletari algerini emigrati in Francia. Sotto molti aspetti, la rivoluzione algerina ha i caratteri della rivoluzione cinese, mentre le prospettive economiche che ha la prima la differenziano dalla seconda che a sua conclusione ha potuto disporre di tutte le attrezzature e risorse nazionali (possibilità, invece, ipotecate nel futuro algerino). I caratteri sociali della Resistenza algerina ne hanno, perciò, accentuato la compattezza e la combattività sino a farne un esempio grandissimo di lotta antimperialista, senza quartiere nè tregua. A questi caratteri originari vanno aggiunti altri elementi: cioè, il fatto che la Resistenza algerina è un episodio della lotta e della solidarietà di tutta la comunità araba nordafricana e solo in quanto prima linea di questa lotta ha potuto realizzarsi e continuare.

Malgrado ciò, malgrado l'aspetto di lotta campale antifrancese, anche la vittoria nazionalista a breve scadenza non è probabile.

Rimane una terza soluzione che ci richiama alle linee maestre della concezione leninista delle lotte coloniali: cioè l'intervento anticolonialista del proletariato francese.

Questa soluzione - che sarebbe la soluzione più rivoluzionaria - è anche la soluzione attualmente più improbabile e più lontana. E qui sorge la domanda che prima balza alla mente di chi studia la questione algerina: “Perchè il proletariato francese non si muove, perchè il proletariato francese sta fermo proprio nel momento in cui il suo capitalismo è scosso violentemente dalla più grossa rivolta che abbia affrontato nella sua storia coloniale? Perchè difende il capitalismo?”.

A ben guardare la storia del movimento operaio francese la domanda si traduce in un quesito inspiegabile. Il proletariato francese attuava la Comune di Parigi quando era isolato e quando non vi erano probabilità di successo ed oggi che ha un alleato formidabile nella Resistenza algerina, da cinque anni in lotta, non solo non attua alcuna Comune di Parigi ma aiuta i “versagliesi” a massacrare la Comune contadina algerina.

Si può comprendere questo fatto solo analizzando la natura controrivoluzionaria dei partiti della sinistra francese, poiché sarebbe un grave errore che non darebbe alcuna spiegazione analizzare solo la natura dei tradizionali partiti borghesi. La guerra d'Algeria ha contribuito - e ciò è un altro grande merito dei guerriglieri algerini - a farci comprendere che l'imperialismo francese non potrebbe esistere. Anche per l'imperialismo francese vale il proverbio “i veri amici si vedono nel momento del bisogno”: infatti li ha trovati puntualmente. Ed è in questa direzione che si deve trovare la chiave interpretativa della guerra algerina. In fondo si tratta di trarre un grande e chiara esempio storico del ruolo controrivoluzionario del riformismo moderno.

Qui sta un altro elemento della drammaticità della questione algerina e nella misura in cui si aggrava, più massiccia diventa l'azione controrivoluzionaria dei partiti di sinistra per legare il proletariato al carro imperialista e per impedire che la classe operaia realizzi una unità rivoluzionaria con i contadini colonizzati. Questi riformisti sempre pronti a realizzare le più sporche politiche di alleanza, sempre pronti ad allearsi con chicchessia, sono, nello stesso tempo pronti ad impedire la vera ed unica grande alleanza indicata da Lenin al proletariato: quella con i popoli colonizzati. E quando questi popoli, malgrado loro, si rivoltano, essi scoprono il loro vero volto di riformisti, la loro funzione reale che li fa pericolosissimi in simili frangenti, e passano direttamente al servizio della borghesia minacciata.

Se noi ci abituiamo a fare della critica al riformismo non una critica moralistica ma una analisi scientifica scopriremo che il comportamento dei partiti francesi di sinistra non potrebbe essere diverso. Di fronte alla grave crisi del colonialismo francese si pongono dei problemi di azione che pongono in ballo una posta troppo importante. Non si tratta di riforme o di avvicendamento di partiti al potere; si tratta dell'esistenza stessa del sistema. Se il proletariato francese fosse sceso in una azione decisa contro la guerra, se si fosse rifiutato di mandare i suoi figli a farsi uccidere in Algeria, se si fosse alleato con i partigiani algerini ed assieme a questi avesse cooperato a sabotare i centri di rifornimento bellico, non solo la guerra d'Algeria sarebbe cessata ma lo stesso sistema politico e sociale francese sarebbe entrato in una fase disgregativa provocando uno squilibrio irreparabile in tutto lo schieramento europeo. Ed è appunto ciò che nessuna potenza imperialistica, Russia compresa, oggi vuole.

Questo è un altro elemento, meno apparente ma non meno importante, che contribuisce ad esasperare la crisi algerina.


La presenza di un conflitto così tragico e delle sue cause, chiare ed oscure, doveva smuovere per forza le acque della cultura ufficiale e spingerne gli elementi più sensibili ad affrontare una prima sistemazione cronachistica. In questi anni molte sono le opere apparse sul tema della guerra d'Algeria e in alcune di queste si nota un certo sforzo di obiettività e di informazione. Ma quello che più è interessante è il notare in parecchie di esse la ricerca delle responsabilità colonialiste nella sinistra francese, quasi a voler documentare storiograficamente parecchi degli argomenti della polemica svolta quotidianamente dalle correnti rivoluzionarie. Recentemente anche un libro uscito in Italia (Romain Rainero, Storia dell'Algeria, Sansoni, Firenze 1959) affrontava il problema della responsabilità della sinistra francese in termini molto interessanti.

Il libro è una diligente cronistoria, spesso obiettiva e favorevole ai nazionalisti algerini, dell'occupazione francese dell'Algeria, della cui storia traccia nei capitoli iniziali un lineare disegno. Salvo il capitolo VIII, in cui tratta l'aspetto sociale ed economico (suddivisione della terra, coloni, disoccupazione ecc.), l'analisi della struttura è debolissima, in quanto che l'A, mancando di una chiara visione dell'imperialismo, si ferma al fenomeno colonialista.

Molto interessante è, invece, l'introduzione metodologica e bibliografica in cui si sostiene la impossibilità di conoscere la storia dell'Algeria dati i “vuoti” storici, la mancanza di fonti, la distruzione francese.

Molti studiosi di storia algerina appaiono legati ad uno schema colonialista che fa apparire loro il paese solo nella proiezione trans-mediterranea della storia di Francia... La storia sotto questa prospettiva è diventata insufficiente anzi deformante... [cioè] una visione che del colono francese e della Francia fa il centro attorno a cui tutto ruota. Da questo universo tolemaico è urgente passare ad una visione copernicana a costo di doversi rassegnare a vedere degli eventi solo l'aspetto negativo, quello della rottura di un ordine precedente e non l'aspetto positivo che consiste nell'aver saputo immettere nuovamente nel ciclo della storia forze antiche e nuove che erano sopite.

Il Rainera, in generale, cerca di ispirarsi a questa visione “copernicana” della storia coloniale, richiamandosi alla risoluzione sulla storia approvata dal 2o Congresso mondiale degli scrittori e artisti negri in cui si condanna la storiografia occidentale come erronea concezione della partecipazione degli africani alla storia dell'umanità.

In particolare l'A. si riallaccia, anche con citazioni dirette, agli storici algerini Kateb Yacine, Sahli, Malek Bernabi, Mostefa Lacheraf che:

hanno iniziato una revisione della storia dell'Algeria partendo dallo studio di Abd el Kader o di situazioni controverse e oscure al fine di rivalutare l'intero fenomeno della Resistenza algerina...

ed allo storico Allal al Fassi la cui opera, “The indipendence Movements in Arab North Africa”, costituisce:

una interessante visione maghrebina sulla teoria della continuità del Nord Africa da Cartagine ad oggi.

Forse la visione copernicana degli storici arabi e sua ha aiutato l'A. a mettere il dito sul punto giusto parecchie volte.

Sulla scorta di Allal al Fassi, l'A. ci riferisce sulla prima reazione alla guerra imperialistica. Dal settembre 1914 la Francia procede alla coscrizione obbligatoria degli algerini. La reazione popolare fu vivissima, con disordini nella zona di Costantina e di Setif che la propaganda degli agenti degli imperi centrali e della Turchia tentò di usare ai propri fini. La diserzione fu in massa con un esodo di 120 mila persone verso le montagne, ma la Francia - aiutata dal clima di Union Sacrée - riuscì ad arruolare circa 200 mila algerini e a requisirne, come lavoratori, altri 121 mila.

La prima occasione di una alleanza antimperialista era sfumata ed ancora nei congressi del Comintern - come ricostruisce Demetrio Boersner in “The bolsheviks and the national and colonial question (1917-1928)” - riecheggia la critica allo stesso Partito Comunista francese per il mancato appoggio alle lotte coloniali. Alle critiche di M. N. Roy e di altri delegati arabi e asiatici i francesi rispondevano con la tesi pseudo-rivoluzionaria ed opportunista secondo la quale non si dovevano aiutare i nazionalisti algerini a portare avanti una rivoluzione essenzialmente borghese e che si doveva invece, concentrare tutti gli sforzi per la rivoluzione proletaria in Francia.

A confronto della politica adottata in seguito dai partiti di sinistra, questa tesi così tenacemente combattuta da Lenin è un timido peccato di gioventù!

Primo esempio classico: il Fronte Popolare. Scrive il Rainero:

Malgrado la passata collaborazione e le promesse, il Fronte Popolare non si mostrò più incline dei precedenti governi francesi a sopportare senza reagire la critica e l'azione di Messali e della stella. Accusata di “essere chiaramente antinazionale” l'ENA venne sciolta con un decreto del 26 gennaio 1937 con grande sorpresa dello stesso Messali che riteneva di poter contare sulla benevolenza del governo Blum.

pag. 140

E ancora:

Un posto a parte occupa in questo quadro il partito comunista algerino che fu dal 1920 fino al 1936 solo una federazione algerina del PCF che non può certamente essere ritenuto un partito nazionalista. Anche dopo la sua creazione il P.C.A. perseguirà obiettivi diversi da quelli dei partiti nazionalisti: se certe volte potrà verificarsi una identità di azione tra di loro i motivi ne saranno del tutto occasionali. Ben lo dimostra la politica del PCA nel periodo del Fronte popolare in Francia. Dopo un primo accordo con i nazionalisti il partito comunista algerino si allineò sempre più con quello dei precedenti governi francesi: l'assimilazione e non l'indipendenza della Algeria. Sotto la sua diretta ispirazione si riunì infatti nel luglio 1937 ad Algeri il Secondo Congresso Mussulmano, congresso dei “traditori” scrive al-Fassi, che sotto la direzione di funzionari francesi degli affari indigeni, rinnegò i principi autonomisti presentati a Blum rivendicando solo la realizzazione dei progetti di totale e automatica assimilazione dei musulmani di Algeria.

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Con simili precedenti si comprende anche il seguito, a cominciare dalla politica colonialista svolta dai governi della Resistenza di cui il PCF era parte integrante e responsabile. Nel dicembre 1942 l'Ammiraglio Darlan invita i musulmani a partecipare attivamente alla guerra contro la Germania, ma pochi giorni dopo Ferhat Abbas rifiuta l'appello a nome del nazionalismo algerino con un messaggio in cui è detto:

Questa guerra non è una guerra di liberazione dei popoli senza distinzione di razza o di religione. Malgrado le promesse che sono state loro fatte ed i sacrifici sostenuti, le popolazioni autoctone dell'Algeria sono prive di libertà e dei diritti essenziali di cui godono le altre.

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A questa decisa presa di posizione fa seguito, il 10 febbraio 1943, la costituzione del Manifesto del Popolo Algerino, firmato da Abbas e da 56 esponenti nazionalisti,

che denunciava la politica coloniale perseguita in Algeria dalla Francia ed elencava le rivendicazioni nazionaliste.

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Per tutta risposta, il 3 giugno 1943, il Comitato Francese di Liberazione Nazionale nominava il generale Catroux governatore dell'Algeria.

Fautore della maniera forte il generale Catroux era in politica indigena un convinto assimilazionista, e un assertore della “missione della Francia” nel Nord Africa. Pochi giorni dopo la sua nomina Catroux toglieva ai nazionalisti ogni illusione sulle possibilità di pacifica revisione dello status politico dell'Algeria.

pag. 153

Il 23 giugno 1943 egli dichiarava:

Mai la Francia consentirà all'indipendenza dell'Algeria che ne è parte integrante.

pag. 153

E tanto per dare un esempio pratico di una Resistenza a senso unico che si richiama agli ideali di libertà e di patria contro i nazisti ma che questi ideali nega agli algerini, nazisticamente incolpa di “disubbidienza in tempo di guerra” Sayah Abd el Kader e Ferhat Abbas, li fa arrestare ed internare. Il CFLN approva unanimamente; almeno è da ritenere così data la mancanza di proteste di comunisti od altri “progressisti”. I quali comunisti - per non parlare degli ultrasciovinisti socialdemocratici - non hanno neppure il pudore di uscire dal governo quando l'8 maggio 1945, a festeggiamento della vittoria contro la Germania nazista, ed in nome della solenne bandiera “morte al fascismo, libertà ai popoli”, le truppe francesi iniziano il massacro di Setif radendo al suolo 44 villaggi ed uccidendo 45 mila algerini.

“A Setif nacque la scintilla” dell'insurrezione, commenta il Rainero.

A Setif, aggiungiamo noi, si concludeva un vergognoso capitolo dell'opportunismo della sinistra francese, corresponsabile cosciente della politica colonialista del CF LN e del primo Governo De Gaulle. Setif non fu una improvvisa “bomba atomica”, anche se per il risultato, per la criminalità e per la contemporaneità ha un tragico “gemellaggio” con Nagasaki ed Hiroschima; il Los Alamos di Setif risale al Fronte Popolare ed al CFLN! E dopo Setif si apre il secondo capitolo dell'appoggio al colonialismo, capitolo che stiamo scorrendo ancora ai giorni nostri e che speriamo venga concluso dalla formidabile critica delle armi della insurrezione algerina.


Accertare dei fatti e delle responsabilità non significa ancora aver accertato tutte le cause. Da cosa fu spinto il PCF a rendersi corresponsabile di Setif, della repressione malgascia e della politica colonialista? Perché il proletariato francese non comprese l'essenza di una politica sciovinistica che, ben presto, si sarebbe rivolta contro esso stesso? Perché non abbandonò i partiti opportunisti e non riprese la tradizione rivoluzionaria ed internazionalista?

Sono domande che ci siamo già poste e che, in termini forse non analoghi, si pone un acuto giornalista e storico, Alexander Werth, nella sua “Storia della Quarta Repubblica” (Edizioni Einaudi, 1958).

Anche questo autore tratta della politica coloniale della Resistenza francese e cita la “Charte de la Résistance” dove il paragrafo C del 5o punto prevedeva solamente e laconicamente una generica riforma coloniale, cioè “Estensione dei diritti politici, sociali ed economici alle popolazioni coloniali”. Nient'altro, in questa Charte che l'A. Definisce:

un programma minimo per i comunisti... una sorta di New Deal, o ciò che Bidault... aveva chiamato “la révolution par la loi”.

pag. 321

Che anche in una Carta costituzionale, tradizionalmente ricca di belle promesse, fosse riflessa una posizione così conservatrice sulla questione coloniale (erano previste generiche riforme ma non l'indipendenza) lo si capisce soprattutto dal clima politico francese.

Thorez, rientrato nel novembre 1944 da Mosca, aveva stupito lo stesso PCF approvando, al C.C. del 21 gennaio 1945, lo scioglimento decretato da De Gaulle delle Gardes patriotiques e dichiarando:

I Comitati di liberazione non devono amministrare, ma soltanto aiutare coloro che amministrano. Devono soprattutto mobilitare, addestrare e organizzare le masse affinchè possano produrre il massimo sforzo bellico.

pag. 350

L'A. così commenta la mossa di Thorez:

una mossa in favore del massimo sforzo bellico da parte della Francia (con tutto quello che ciò implicava nel campo internazionale)... Da parte sua De Gaulle, come aveva già mostrato il suo discorso del 14 gennaio a Nantes, era anche troppo lieto di servirsi dei comunisti... È certo, a ogni modo, che gli ordini antirivoluzionari di Thorez provocarono un grande malessere in seno al PCF.

pag. 351

Mano a mano che la collaborazione De Gaulle-PCF si fa più stretta, nel gioco della suddivisione imperialistica delle zone d'influenza tra Russia ed Alleati, ancora più colonialista diventa la politica del PCF.

Al Congresso del giugno 1945, nel suo rapporto:

Thorez proclamò “La grandeur de la France est à refaire”. Con altrettanto dolore che se fosse stato De Gaulle, Thorez deplorò l'umiliazione che la Francia aveva subito proprio allora in Siria, soltanto perché non aveva un grande esercito.

pag. 382

Nello stesso rapporto:

Sostenne nuovamente l'opportunità d'impiegare i prigionieri di guerra tedeschi per ricostruire i villaggi distrutti dall'esercito tedesco oppure nelle miniere di carbone, nonostante le molte proteste “umanitarie” provenienti dall'estero e dalla Francia stessa: discusse la necessità degli aiuti americani... chiese lo sviluppo del commercio tra Occidente e Oriente e l'ammodernamento dell'agricoltura, soprattutto in Algeria e negli altri possedimenti francesi. “Dobbiamo produrre” egli proclamò... L'impressione che Thorez cercava di dare era che il PC fosse un partito di governo pienamente qualificato... che... i comunisti al governo avrebbero potuto essere di enorme aiuto nell'edificare una Francia veramente moderna ed efficiente. In vista di questo scopo, essi erano disposti a chiedere alla classe operaia di lavorare sodo e di compiere molti sacrifici.

pag. 383

Difatti, dopo le elezioni politiche del 21 ottobre 1945, alla formazione del nuovo governo De Gaulle:

Se De Gaulle affidò quasi tutti i ministeri economici ai comunisti, non fu certo per amor loro. Egli avrebbe potuto avere una maggioranza anche senza di loro, ma i comunisti, a quel tempo, erano ancora utili; servivano ad incoraggiare la produzione e ad evitare agitazioni nel campo del lavoro.

pagina 390

Il giudizio è troppo lineare per appesantirlo con commenti, anche perchè si allaccia a tutta una serie di fatti indiscutibili che l'A. ha il merito di trattare molto bene.

I comunisti evitavano di parlare sia di marxismo sia di internazionalismo, e sembravano volersi preparare ad assumere negli anni a venire la parte di grande partito governativo.

pag. 381

-

È singolare osservare come, su un grande numero di problemi industriali [...], Thorez dicesse quasi le stesse cose, ad esempio, di un Mendes France.

pag. 384

In questo modo concreto si va delineando un quadro politico in cui l'opportunismo colonialistico del PCF acquista un significato e non appare più come un “errore” o come mera volontà opportunistica. Le formazioni politiche sono espressioni di interessi economici, agiscono sotto la pressione di questi interessi, sono condizionate da questa loro funzione organica. Sarebbe puro manicheismo giudicarle in base ad un bene od un male astratto e moralistico; un manicheismo che, in sè, nasconde sempre il proposito di voler riformare o “redimere” ciò che si critica. Cioè, praticamente, il proposito opposto a quello dell'analisi scientifica marxista che individua l'opportunismo nelle forze materiali che lo formano e non nella cattiva volontà di alcuni suoi esponenti.

Nel caso concreto, la politica del PCF ci appare come l'emanazione degli interessi imperialistici del capitalismo di stato sovietico, interessi che spingevano ad una collaborazione con la borghesia franceseed a un inserimento nel suo apparato statale al fine di permetterle una continuazione di potere all'interno verso le masse operaie e all'esterno verso i popoli coloniali. La tecnica di questa collaborazione è molto elaborata e va dalla demagogia alla corruzione di strati di aristocrazia operaia; essa può variare nei momenti - guerra fredda - in cui le alleanze del capitalismo statale sovietico si allentano.

Così da una fase di appoggio colonialistico si può passare ad una demagogia di formale critica a certi effetti del colonialismo (senza mai attaccare gli aspetti essenziali dell'imperialismo e le forme neo-colonialistiche in cui si presenta, poiché ciò significherebbe demistificare la politica estera e commerciale sovietica); ma mai un PCF potrà appoggiare a fondo una rivoluzione coloniale poiché ciò rappresenterebbe una autolimitazione di quelle basi materiali e sovrastruttura li in cui deve agire nella politica di alleanze o di conquista - nel caso limite - del potere stesso. Appoggiare una rivoluzione coloniale significa, dal punto di vista dei suoi interessi economici e politici, non solo provocare una crisi rivoluzionaria, e perciò incontrollabile e sostanzialmente anticapitalistica, nel sistema stesso in cui può operare come forza burocratica solo in quanto vi siano determinate condizioni sociali che ne permettano l'esistenza, ma anche nella più moderata delle soluzioni contribuire a creare un nuovo stato autonomo politicamente che in se stesso è già potenzialmente avversario o concorrente.

Facciamo una considerazione che è puramente teorica perchè astrae dal fatto che il PCF, anche nei momenti della guerra fredda, ha conservato una linea colonialistica e neppure formalmente ha appoggiato le rivoluzioni coloniali dell'impero francese (vedi questione algerina e appoggio alla soluzione conservatrice Mendes-France per l'Indocina quando i francesi stavano per essere buttati a mare); in ciò hanno, forse, influito fattori di sciovinismo all'interno dell'organizzazione e della massa di simpatizzanti, oltre all'esigenza sovietica di trattative separate con la Francia.

Quindi, tale considerazione deve avere una accezione generale poiché - anche come dimostrano la rivoluzione cinese ed rapporti sovietico-cinesi che la precedettero e la seguirono - riteniamo infondata la tesi secondo la quale le rivoluzioni coloniali sono sfruttate da determinate potenze e determinati partiti occidentali, particolarmente l'URSS ed i PC.

Intanto, occorre fare una distinzione tra un PC coloniale ed un PC occidentale, poiché diverso è il ruolo che assolvono e le tendenze di sviluppo che contribuiscono a promuovere. In secondo luogo, non bisogna confondere tra l'effettiva portata storica di una rivoluzione coloniale e la propaganda tratta da una alleanza momentanea con essa stabilita. Sotto questo aspetto, può verificarsi benissimo che un domani il PCF al governo stabilisca una alleanza con la Repubblica del Madagascar resasi indipendente: ciò non vuol dire che il PCF abbia promosso - per quali suoi “misteriosi fini?” - la lotta d'indipendenza dei malgasci, e che l'abbia vigorosamente sostenuta, anche se ciò vorrebbe dire che il PCF si accinge a trarre il maggior vantaggio politico e commerciale da un fatto che è avvenuto malgrado la sua volontà e con cui occorre stabilire un nuovo rapporto di forze.

Proprio i fatti che stiamo esaminando con l'opera di Werth confermano questa nostra interpretazione in quanto abbiamo in esame un modello tipico: uno dei due più forti partiti comunisti occidentali che, nello stesso tempo, è il partito comunista di una grossa potenza coloniale. La politica coloniale del PCF rappresenta, quindi, l'unico grosso esempio di politica coloniale di un Partito comunista.

Il periodo di collaborazione governativa del PCF è significativo. Nel 1946, a giudizio del Werth, De Gaulle era riuscito a mantenere l'impero dopo la prima fase critica provocata dalla guerra:

Indubbiamente, De Gaulle non aveva mai dimenticato l'impero, e particolarmente l'Africa; e, di tanto in tanto, in Francia erano giunti i lontani clamori dei vari nazionalismi indigeni, divenuti sempre più attivi, specialmente dal 1942-43. C'erano stati morti e massacri in Algeria nel maggio 1945... anche la virtuale estromissione dei francesi dalla Siria durante lo stesso anno era stato un colpo per l'orgoglio francese e per la “politique de grandeur” di De Gaulle. Nel complesso, però, si riconosceva a De Gaulle, il merito di aver fatto del suo meglio, sia militarmente sia diplomaticamente, per “tenere insieme l'impero”; all'inizio del 1946 egli espresse la sua soddisfazione per aver raggiunto questo obiettivo, nonostante l'immenso pericolo di disgregazione che aveva minacciato l'impero sin dal 1940: unica eccezione - disse - era l'Indocina, dove però il generale Leclerc era riuscito a rimettere piede.

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Superata la prima fase di “immenso pericolo di disgregazione” dell'impero - ciò che indica quanto organica sia stata la funzione controrivoluzionaria del PCF - il partito di Thorez si trova a dover affrontare nuovi problemi di politica coloniale con la questione indocinese, che vale la pena di esaminare dopo aver fatto un rapido accenno alla repressione del Madagascar.

Il 29 marzo 1947, iniziano i tumulti e i massacri nel Madagascar, dove - secondo la rivista “Esprit” - vengono uccisi 80 mila indigeni. Come già per i massacri di Setif, anche questa volta il PCF si rende corresponsabile della politica colonialista dei governi francesi partecipando persino al gabinetto del socialdemocratico Ramadier con il dicastero della Difesa. Werth giunge a commentare:

Sembra assurdo, oggi, ricordando quel tempo, che i comunisti insistessero tanto per essere inclusi nel governo.

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Dice, inoltre, che essi, nel gennaio 1947, non avevano ancora inteso a pieno la portata del problema indocinese. Infatti, anche dopo l'eccidio di Haiphong .da parte francese, il 20 novembre 1946, in cui 6 mila indocinesi vengono massacrati dal bombardamento navale, anche dopo questo eccidio che segna l'inizio della guerra d'Indocina ( il 19 dicembre 1946 il Viet-Nam insorge ad Hanoi) il PCF entra nuovamente nel governo di coalizione di sinistra, quando la guerra era avviata. Un premollettismo che durerà sino al 4 maggio 1947. dopo il fallimento della conferenza dei Ministri degli Esteri a Mosca, quando Ramadier estromette il PCF dal governo.

Solo allora, dopo che la rottura dell'alleanza imperialistica provoca la rottura della coalizione popolar-colonialista in Francia, il PCF comincia a protestare per l'Indocina.

Nel periodo gestatorio del conflitto indocinese l'atteggiamento del PCF, abbiamo già visto quanto fosse colonialistico.

Già nell'agosto 1945, il Viet-Nam, capeggiato da Ho Chi Min, sviluppa la rivoluzione nazionale nel nord indocinese. Ma il movimento è frenato,

tanto più che nessuno sembrava particolarmente ansioso di riconoscere un Viet-Nam indipendente. La Russia si manteneva indifferente; la Cina pensava in termini di una “più grande Cina”.

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Gli USA sono diffidenti, la Francia si è stabilita in Cocincina. Ho Chi Min scelse il male minore: le trattative con la Francia. Ma gli accordi del 6 marzo 1946 preparano la riconquista francese e difatti il governo di Parigi e la colonialista “cricca di Saigon” formano e riconoscono il nuovo stato della Cocincina, il 1o giugno 1946. A seguito dei primi accordi Thorez...

aveva dichiarato di non essere affatto favorevole alla “liquidazione della bandiera francese” in Indocina.

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Ha, quindi, molte ragioni l'A. per affermare che Ho Chi Min commise l'errore di illudersi sui socialcomunisti, invece di cercare l'appoggio di membri di Destra, come Sainteny e Leclerc, vicini alle sue tesi e favorevoli all'indipendenza. Difatti, il 12 giugno 1946, Ho Chi Min arriva preoccupato in Francia per svolgere quelle trattative che si concluderanno nel fallimento della Conferenza di Fontainebleau.

Sembra che Ho Chi Min abbia sopravvalutato il peso dell'opinione di sinistra in Francia e si sia aspettato un potente appoggio da parte dei socialisti e dei comunisti... I socialisti erano irresoluti... e i comunisti, ansiosi di salvare il “tripartisme” (il MRP era colonialista ad oltranza) e pensando certo che non fosse saggio proclamarsi troppo apertamente campioni di un Viet-Nam indipendente, adottarono anch'essi una posizione meno risoluta di quella prevista.

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Il fallimento di Fontainebleau apre, perciò, la strada alla provocazione di Haipong e alla guerra. Tutto ciò coincide con l'inizio della “guerra fredda”, durante la quale il PCF sfrutta il malcontento e la combattività delle masse contro la “sporca guerra” d'Indocina senza mai impegnarsi in una lotta generale anticolonialista anche per i territori del Nord Africa che sono in movimento. È una classica tattica elastica, che è tesa nei periodi più acuti del contrasto occidentale-sovietico e che si rallenta nei periodi “distensivi” (incontro di Ginevra del 1955, destalinizzazione del 1956 ecc.), sensibile alle esigenze della politica estera sovietica e indipendente dalle reali necessità e grado di sviluppo della lotta dei popoli coloniali.

Nel gennaio e nel febbraio 1950, ad esempio, i portuali di La Pollice, Marsiglia, Lorient, Brest, Dunkerque si rifiutano di caricare navi per l'Indocina, a Tolone attaccano i CRS, a Nizza buttano a mare ordigni bellici. È una bella prova di lotta operaia, che dimostra inoltre come il PCFsappia utilizzare la lotta delle masse quando torna utile alla sua politica e frenarla per le stesse ragioni.

Un esempio di ciò è dato dall'apertura della crisi nordafricana, iniziata in modo aperto al tempo della guerra d'Indocina con la nota francese del 15 dicembre 1951 in cui prevale la politica di forza verso la Tunisia. Destra, MRP e SFIO sono decisamente colonialisti.

Quanto ai comunisti, coscienti dell'impopolarità che avrebbe circondato in Francia ogni campagna per una totale “liberazione” del Marocco, dell'Algeria e della Tunisia, preferivano concentrare i loro sforzi sull'Indocina, tanto più che non nutrivano molta simpatia per il “nazionalismo borghese” del Neo-Destur in Tunisia o dell'Istiqlal nel Marocco, che continuavano a riaffermare il loro anticomunismo.

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Mentre i comunisti ed i gollisti protestavano per la concessione di basi americane in Marocco senza contropartita, la Tunisia nell'aprile 1952 ricorre contro la Francia al Consiglio di Sicurezza dell'ONU. Al Consiglio, mentre l'URSS appoggia la Tunisia gli Stati Uniti si astengono. È interessante seguire l'A. anche in questo episodio, poiché dimostra come il PCF approfittava di queste occasioni per associarsi ai colonialisti in campagne antistatunitensi (non sembrino strane tali associazioni poiché già alle elezioni del 17 giugno 1951 i gollisti ereditavano una parte di vecchi voti comunisti nella zona di Parigi, precedente significativo per comprendere il milione e più di voti comunisti che andarono a De Gaulle nel settembre 1958), piuttosto che perseguire una diretta politica di appoggio agli indipendentisti.

Il governo Truman svolgeva una certa azione favorevole all'indipendenza della Tunisia e del Marocco che provocava le ire dei “colons” francesi che:

guardavano agli S.U. come al nemico numero uno.

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Se gli Stati Uniti avessero appoggiato all'ONU un ricorso tunisino e marocchino, il lobby colonialista avrebbe lanciato una campagna antiamericana,

senza dubbio con la cooperazione dei comunisti, non sollecitata ma non per questo meno gradita.

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Solo nel maggio 1952, e per una brevissima parentesi, il PCF decide di accoppiare alla campagna anti-USA una più decisa azione contro il colonialismo, in occasione dell'arrivo di Ridgway. Ma questa prima ed unica parentesi, limitata sempre s'intende alla denuncia propagandistica, è dovuta a ragioni di lotta interna nel partito tra Duclos e Billoux. Di ritorno da Mosca, Billoux pubblica un saggio su “Cahiers du Communisme” in cui si criticano le dubbie alleanze, si sollecita una azione diretta contro le avventure belliche, si proclama l'indipendenza francese contro l'imperialismo USA e si insiste:

sulla necessità di appoggiare i popoli coloniali nella loro lotta per l'indipendenza.

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Dopo l'arresto di Duclos, il PCF, però, modera la sua linea con un articolo di Etienne Fajon. L'impennata propagandistica non fu mai tradotta in pratica.

Si giunge così alla pace d'Indocina ed alla indipendenza della Tunisia e del Marocco ad opera di Mendes-France. Anche nel periodo più grave della crisi marocco-tunisina non troviamo una azione del PCF che lo distacchi dal tradizionale opportunismo colonialistico.

Ed anche in questo caso ci pare abbastanza valida la tesi di Werth che ritiene l'indipendenza dei due paesi nordafricani dovuta alla loro lotta ed all'interesse degli Stati Uniti di risolvere la crisi in un settore in cui avevano stabilito grosse basi militari ed economiche. L'indipendenza fu quindi il frutto di contrasti dell'imperialismo, di cui Mendes France si fece mediatore, e non di certo della inesistente azione del PCF. Lo stesso si può dire per l'Indocina, salvo aggiungere un doppio nodo di contrasti il cui centro è costituito dalla Cina e dai suoi rapporti con l'URSS.


Si apre, infine, la questione algerina. L'Algeria era rimasta, nel periodo 1945-54, assai più tranquilla della Tunisia e del Marocco, ma nel novembre del 1954 il CRUA inizia l'insurrezione. Con l'avvento di Mollet. le masse lavoratrici francesi sperano sia giunta l'ora della pace in Algeria; ma ancora una volta la storia dimostra che è proprio nei momenti in cui le masse si spostano a sinistra che i partiti in cui esse hanno riposto la fiducia si dimostrano i più controrivoluzionari. E ciò vale particolarmente nei riguardi dei popoli coloniali.

Il 6 febbraio 1956 Mollet capitola ad Algeri. Lacoste, nominato governatore dell'Algeria, chiede rinforzi di truppe, che con il richiamo passano da 250 a 600-700 mila uomini, ed i pieni poteri al Governo. È chiarissimo che i pieni poteri significano una gigantesca repressione in Algeria dove sono quasi triplicati gli effettivi militari.

Nel marzo questi poteri vennero concessi al governo dall'Assemblea nazionale, con il voto favorevole degli stessi comunisti.

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La politica colonialista del PCF giunge con questo atto ad una sua logica conclusione. Il mancato appoggio e l'azione di freno al movimento di protesta, di diserzione e di ammutinamento che si verificò nella primavera-estate 1956 da parte dei richiamati e di cui anche una rapida scorsa alle notizie di cronaca di quel periodo può darcene un quadro, non sono che le naturali conseguenze dell'appoggio a Mollet.

Infilato il binario dell'opportunismo, il PCF, di giorno in giorno ha mostrato la sua vera natura controrivoluzionaria sino ad approvare, ultimamente, persino la dichiarazione di De Gaulle sull'autodeterminazione, che a giudizio del Rainero sarebbe una:

manovra tentata dal generale De Gaulle volta a mettere in serio imbarazzo gli uomini del Fronte di liberazione nazionale sul piano internazionale, chiarendo al mondo le buone intenzioni del governo francese di concedere al popolo algerino piena facoltà di libera scelta del proprio destino. A questo punto però non vanno trascurati alcuni fatti che, pur non pregiudicando del tutto l'offerta francese, ne riducono le conseguenze pratiche a ben poca cosa.

Op. cit., pag. 223

I fatti hanno convalidato questa tesi e la stessa realtà coloniale in movimento demolirà la spirale dell'opportunismo francese pseudo-comunista.

Arrigo Cervetto

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.