Appunti su "Marxismo e filosofia" di K. Korsch

Premessa

Riportiamo qui appresso alcuni appunti (originariamente stilati in forma epistolare) di un nostro simpatizzante, sul libro di Karl Korsch Marxismo e filosofia, pubblicato nel 1923 e corredato nel 1930 da una “Anticritica”. Korsch (Lüneburg 1886 - Cambridge, Mass. 1961) cominciò come semi-fabiano, per poi aderire agli Indipendenti (USPD) e dopo la scissione di questi, nel '20, al P.C. tedesco (V.K.P.D.) unificato. Partecipe del governo ibrido (comunista-socialdemocratico) della Turingia, durato dall'ott. al nov. '23, nello stesso anno pubblica il suo saggio principale, contemporaneo a Storia e coscienza di classe di Lukàcs, e condannato con esso e coi testi di Fogarasi e Revai (futuro accusatore di Lukàcs) l'anno successivo dal Komintern per bocca di Zinoviev - giusta condanna per deviazioni idealistiche. Fino al '26, anno della sua espulsione, Korsch dirige un piccolo gruppo estremistico a tendenze libertarie, poi precisatesi nella collaborazione con gli ex-tribunisti Gorter-Pannekoek all'elaborazione del cosiddetto “socialismo dei consigli”. Esule negli USA, raggiunge sostanzialmente lo schieramento “democratico” ed anticomunista degli “angeli caduti” ravvisanti nel bolscevismo la “matrice” dello stalinismo, in quanto il bolscevismo sarebbe (tramite Blanqui, vecchia tesi socialdemocratica e revisionistica “classica”) erede del giacobinismo borghese, estraneo quindi ed avverso al movimento proletario, da concepirsi come spontaneo per eccellenza.

A prescindere dalla generale “eterodossia” korschiana (il radicalismo piccolo-borghese più o meno anarchisant e la metafisica democratica caratterizzarono sempre la sua attività), lo spirito dello scritto del '23 va rintracciato in un tentativo di “rifondare” il marxismo sulla scoperta di un “nuovo” Marx (che poi, paradossalmente, sarà anche da altri riconosciuto in quello “giovane”, quindi... più remoto!) si da superare le antinomie dualistiche tra materia e spirito, natura e storia, coscienza ed azione, la cui soluzione Korsch è incapace di vedere già chiaramente delineata da Marx ed Engels, con la dialettica evoluzionista-rivoluzionaria contemplante anzitutto il salto dalla quantità in qualità - e sviluppata particolarmente da Lenin (“riflesso attivo” e “contraddittorio”, dialettica relativo-assoluto in gnoseologia). Korsch, polemizzando contro ciò che idealisticamente vede come fattore eziologico determinante di corruzione socialdemocratica (p. es. in Kautsky), cioè contro lo scientismo positivistico ed il materialismo volgare ad esso più o meno legato, così come contro la scolastica para-hegeliana, tendente a riproporre una dialettica ipostatica, “formale”, metafisica e metastorica, giunge - analogamente ad alcuni empiriocriticisti, al giovane Lukàcs, a Gramsci, ecc. - ad elaborare una sorta di monismo attuai-Operazionistico ante litteram, un “pragmatismo” immediato ed antidialettico, ove l'assimilazione di soggetto ed oggetto, di conoscenza e trasformazione del mondo, di teoria ed azione, di condizione sociale e di ideologia, assolutizzata, sdialettizzata, travalica inesorabilmente in formulazioni e più generali indirizzi di stampo idealistico deteriore.

Nella Anticritica posteriore di sette anni, analogamente al Pannekoek (Harper) del Lenin Filosofo, rinnega parzialmente, ma “sostanzialmente” il primitivo fermento di restaurazione hegeliana (sia pure, già nel '23, a spese della dialettica come recuperata, concreto e reale, storico e naturale) per identificare quasi i due bersagli della prima concreto e reale, teorico e naturale) per identificare quasi i due bersagli della prima fase polemica, unificandoli appunto in Lenin, “materialista rozzo” ed insieme hegeliano nel senso peggiorativo di cultore di una dialettica in sé fungente: la lotta al “realismo riflessologico” visto come statico, dicotomico, metafisico postulatore di un in sé naturalistico, si conclude con la condanna parallela del “dialettismo”, il che apre un precedente fondamentale. Pur sbandierando contro il “kantismo” del realismo gnoseologico di Lenin la bandiera dialettica (dialettica come inscindibilità di soggetto ed oggetto non nel senso dell'uomo parte della natura che la conosce trasformandola nei limiti storicamente consentitigli, quindi consentiti dalle sue relazioni con la natura esteriore da conquistare, bensì come assimilazione della “materia” alla “azione” detta, non si sa allora perché, “materiale” ed indifferentismo sull'indipendenza e la priorità dell'essere sulla coscienza, della natura sull'uomo e la storia umana), Korsch finisce ad indicare il materialismo dialettico leniniano, insieme realistico e storico (l'in-sé che diviene per-noi) come fomite di degenerazione staliniana, doppio stimolo anzi: naturalistico (abbiamo visto che per lui uomo e natura coincidono nella prassi, et de hoc satis) e dialettico-astratto (perché una gnoseologia per lui è vana, fondendosi sostanzialmente oggetto e soggetto in un unum che non è scientifico-naturalistico, ma attualistico-esistenziale). Temi che anticipano gramscismo e “dellavolpismo” nostrano: tant'è vero che Mario Spinella, lo staliniano, già ultra-zhdanovista, commentatore del testo in questione (Milano, Sugar ; aprile '66) nella sua prefazione e nelle glosse pur tacendo l'attività “ereticale” di Korsch e il suo finale pervertimento made in USA, loda il suo ripudio del “materialismo dialettico” scaturigine dello “zhdanovismo”, ed il suo riassorbimento in un “materialismo storico” ove peraltro prassi ed ideologia sono così acriticamente e... giovane-hegelianamente identificate, da fargli smarrire ogni carattere tanto materialistico che storico appunto. Si veda la relazione concreta fra struttura e sovrastruttura, perduta come si è notato in una specie di “attualismo pragmatistico” a contenuto per lo meno agnostico, con punte idealistiche dichiarata (oltretutto, richiamante certi sviluppi fenomenologici contemporanei specie in Italia, uso Enzo Paci). Sintomatica del resto, da parte di Korsch come del suo chiosatore, la trascuranza di Materialismo ed Empiriocriticismo, saltato a piè pari o quasi (gli accenni sono mere insolenze non documentate) mediante un antropocentrismo a-storico ed a-scientifico che non per niente richiama appunto il “soggetto trascendentale” husserliano, ultima e peggiorata edizione dell'Io di Fichte, “solipsismo collettivo” che malamente parafrasa quello originale, dissolvente magari l'Io medesimo in una soggettività puntuale, nichilistica, brahmanica. Trascurando il saggio del 1908, si vuole coprire il fatto elementare che non è scusante per Korsch, né per i suoi affini, aver affrontato deviazioni che già Lenin aveva demolito senza concedere un millimetro all'idealismo (magari polemizzando con Plechanov). l tentativi korschiani di pararsi nella pelle di leone della dialettica o del “monismo” marxisti falliscono clamorosamente, per la fondazione idealistica e non materialistica ch'egli dà p. es. all'unità in ultima istanza di materia e conoscenza (quest'ultima ovviamente come funzione, prodotto, della materia sviluppata, ecc.)

Purtroppo, per riparare alla falsificazione della dialettica ed alla perversione della scienza nello “zhdanovismo” (obiettivo effetto del capitalismo russo e delle sue necessarie mistificazioni ideologiche), non si sa trovare di meglio che ripigliare tesi reazionarie, para-idealistiche, acremente antiscientifiche, quelle che appunto incontrano infallibilmente il non disinteressato né casuale consenso degli ideologi - più o meno eclettici e sincretistici - della borghesia, sempre pronta, nella sua mistificazione ideo-logistica, a ben accogliere le nuove reclute dell'ideologismo medesimo cioè chi spiega la storia - e magari socialdemocrazia e stalinismo - sulla base “causale” di histoires de brigands e fantasmi “positivistici e materialistici-volgari” - come Korsch che già agli esordi forniva alibi alla reazione materiale, classistica, indicando al suo posto vacue ombre platoniche di funesti “dogmatismi”.


La feroce avversione contro l'oggettivismo di Korsch lo spinge a bestemmiare contro il “buon senso” (evidentemente confuso poi con il “senso comune”).

E di che cosa sarebbe “colpevole” il “buon senso”? Di distinguere in modo netto o pre-trascendentale e pre-critico il soggetto dall'oggetto, la coscienza dalla realtà.

Lasciamo stare se la “linea di demarcazione” debba essere netta o no, che è vuota fraseologia.

Come nel caso del rapporto fra teoria e prassi, vi dovrà indubbiamente essere una stretta relazione dialettica, ma essa presuppone una distinzione e perfino in date condizioni un'antitesi!

Invece Korsch arriva a dire che

“è del tutto chiaro che la coincidenza della coscienza con la realtà caratterizza ogni dialettica e quindi anche quella materialistica marxista”

Ma se le cose stessero così, in che cosa una dialettica potrebbe essere materialista? Nel senso del materialismo storico? Neppure, perché - ed è questa una conseguenza da sottolineare in modo particolare - se la coscienza coincide con la realtà, anche la realtà sociale coinciderà con la coscienza sociale, e non vi sarà più alcun posto anche per le tesi classiche del materialismo storico! Come potrà l'essere sociale determinare la coscienza sociale, se l'uno o l'altra coincidono?

Ciò è tanto vero che, in una nota della prima Appendice, Korsch è costretto a dire, criticando il Woltmann, che

“il materialismo dialettico (o dialettica materialista) contrariamente all'idealismo dialettico (o dialettica idealistica) di Hegel, concepisce il pensiero e l'essere come momenti di un'unità in cui non è il pensiero che determina l'essere, ma l'essere che determina il pensiero.”

Questa è una frase tipicamente metafisica nel senso neopositivista del termine, cioè meaningless.

Che significa infatti “momento di un'unità”? E che cosa vuol dire che, nell'ambito di questo usum, un momento determina l'altro?

Qui veramente Korsch cade nell'errore da lui rimproverato a Lenin nell'Anticritica, di un capovolgimento puro e semplice dell'hegelismo che

“nei migliore dei casi condurrebbe a una modificazione esclusivamente terminologica”

È proprio quello che fa il Korsch, con la sua frase “metafisica”, sui... momenti dell'Uno (che sarebbe poi questo Uno se non l'Assoluto?) e sulla sua intensa determinazione!

Naturalmente non è questa l'unica contraddizione in cui cade il Korsch, anche se è la più grave ed è di fondamentale importanza. Così, da una parte egli vuole rivalutare la filosofia e le ideologie in genere, dall'altra considera probabile una futura radicale estinzione della filosofia anche come logica formale e dialettica, “dottrina del pensiero e delle sue leggi” (Engels) e perfino delle scienze positive. Per quel che riguarda Lenin, a parte le differenze del tono (encomiastico in “Marxismo e filosofia”, denigratore nell'Anticritica), nella sostanza ora lo giudica un “dialettico” che pretende di capovolgere Hegel senza “superarlo”, ora un materialisma volgare, ora un illuminista prekantiano, talvolta infine un esponente del “partito politico pratico che si illude di poter sopprimere (praticamente) la filosofia senza realizzarla (teoricamente)” (dove risalta fuori, fra l'altro, quel minimo di necessaria distinzione fra teoria e prassi).

Ma clamorosa è pure la cantonata che Korsch finisce col prendere a proposito degli stessi Marx e Engels.

Così il nostro Autore si lascia scappare una preziosa citazione di Marx che basterebbe a far cadere tutti i suoi conati per provare la... ortodossia marxista della negazione del realismo. Marx infatti - citato da Korsch! - afferma che l'oggetto compreso dal pensiero, in quanto reale “rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua indipendenza fuori della mente”. Che si vuole di più? (Né ci si venga a dire che Marx, rivendicando l'indipendenza dell'oggetto “fuori della mente” faceva riferimento al solo pensiero teoretico, e non anche, come il passo lascia intendere chiaramente, alla mente umana in tutte le sue manifestazioni tecniche e pratiche). Così Korsch, dopo aver ricordato in nota che Engels

“al di sotto del condizionamento “ultimo” di tutti i fenomeni storico-sociali (...) da parte dell'economia individua in ultima istanza ancora un “condizionamento naturale” (L'ultimo di tutti!)”

(ancora una volta: che si vuole di più?) afferma che ciò non è in contrasto con le sue tesi sul rapporto tra coscienza e realtà, giacche Engels, nello stesso “Anti-Düring”, ha respinto ogni concezione che ponga la coscienza, il pensiero come “qualche cosa di dato, di contrapposto a priori all'essere, alla natura”. Qui mi sembra proprio che Korsch capisca Esgels alla rovescia.

Qualche tempo fa ci è capitato di leggere un passo di uno scrittore di parte cattolica il quale affermava che secondo il pragmatismo (più genuino) “la coscienza e lo spirito non esauriscono la natura e il reale, ma ne diventano, se mai, un aspetto, una funzione”.

Ora Engels - e più a proposito essendo il suo “genuino materialismo” - non dice in fondo nulla di diverso (anche se naturalmente lo dice meglio): iI pensiero non esaurisce la realtà, né ad essa si contrappone frontalmente (il passo capito alla rovescia da Korsch), perché il pensiero stesso è una funzione della realtà, più esattamente di quella particolare realtà che è il cervello dell'uomo.

Ahimè, Korsch non si limita a travisare le pur chiarissime proposizioni dell'Anti-Dühring, ma le nega esplicitamente nella sua prima Appendice, nella quale anche egli contraddice due volte se stesso!

Egli infatti dapprima nega l'identità tra coscienza ed essere affermata in “Marxismo e filosofia”, ma pur ribadendo la sua fede un po'... plotiniana nell'Uno, con linguaggio privo di senso (ed egli stesso parla, come si può vedere, con scarsa convinzione), afferma la priorità (nell'Uno) del momento essere sul momento coscienza.

Senonché a un certo punto egli trascorre senza avvedersene nel punto di vista opposto, cioè nella tesi della priorità della coscienza sull'essere, e capovolge clamorosamente la tesi engelsiana dl condizionamento naturale come condizionamento “ultimo”. Infatti, dopo aver detto - ed è sintomatico - che il marxismo è una forma di immanentismo assoluto o radicale, per cui l'espressione “immanentismo” sarebbe meno equivoca (sic) di quella “materialismo”, Korsch afferma testualmente:

“In questa prospettiva di immanentismo assoluto, dopo l'al di là religioso e metafisico, bisogna arrivare al superamento dell'ultimo “al di là” che nel materialismo puramente “naturalistico” e “contemplante” continua a sussistere come un residuo non ancora superato dell'epoca dualistica borghese (...). Il passo decisivo con cui il nuovo materialismo marxista raggiunge quest'ultimo e più importante (sottolineatura nostra) completamento della sua immanenza, consiste nel suo contrapporre la realtà del “processo di vita storico-sociale praticato dell'uomo” alla realtà considerata come pura “natura” nel senso stretto (sic!) scientifico del termine.”

E commenta il gramsciano Spinella

“Certo Marx non contesta l'esistenza di un mondo naturale; ma anche a tale riguardo la sua posizione è nettamente definita da tutta una serie di formulazioni (...), ove egli contrappone ad ogni gnoseologia dualistica la funzione conoscitiva della prassi e della produzione. È nel rapporto uomo-natura, nel processo che modifica la natura secondo le esigenze e i bisogni degli uomini, che la natura stessa trova la sua unica possibile “verità”, verità anch'essa storico-sociale, in quanto condizionata al processo storico sociale della produzione.”

A proposito di Korsch, ci limitiamo per ora ad osservare che egli capovolge anche nelle parole l'impostazione di Engels. Ciò che per Engels era l'“ultimo condizionamento” diventa in Korsch “ultimo al di là” da negare per raggiungere l'“ultimo completamento” dell'immanenza. In quanto a Spinella, ci sembra che egli non tenga conto della peregrina... “verità” che, se Marx ammetteva l'esistenza del mondo naturale, ammetteva anche quella p. es. del pianeta Sirio, il quale - fin'ora almeno - non può essere affatto “modificato nel processo produttivo secondo le esigenze e i bisogni degli uomini”. Dai cultori di analisi del linguaggio, Spinella poi potrebbe apprendere che la “verità” (o la “falsità”) è una qualità che inserisce alle proposizioni del nostro discorso se esse corrispondono (o non) alla realtà cui il discorso si riferisce; in ogni caso, poi, in una stessa proposizione non si può porre una parola tra virgolette, laciando intendere che ha un significato diverso dallo usuale, e poi ripeterla subito dopo senza virgolette!

Ma torniamo a Korsch: purtroppo Spinella non fa che portare alle estreme conseguenze tesi- che sono anche del filosofo tedesco.

Che cosa significa, infatti, contrapporre “la realtà del processo di vita storico-sociale pratico dell'uomo” (quale ridondanza di termini!) alla realtà naturale?

Certo, come ha fatto giustamente osservare Lenin in “Materialismo e empiriocriticismo” polemizzando con Bogdanov su questo tema (dunque non è vero che, come dice Korsch nella Anticritica, Lenin nel suo libro si è occupato solo del problema gnoseologico), è un fatto che l'essere sociale non è identico con la coscienza sociale.

Ma Lenin ammette con Bogdanov che

“una società di esseri coscienti, di uomini (non può) esistere e svilupparsi indipendentemente dall'esistenza di esseri coscienti.”

Questa è una verità banale, lapalissiana (una sciocchezza - dice Lenin), ma acquista grande importanza alla luce delle impostazioni alla Korsch (che in Italia vengono solitamente ricondotte all'interpretazione data da Granisci del materialismo storico): la realtà del processo. Ergo, se questo processo è il primo dato e la natura è il secondo, si avrà che l'uomo, - cioè un essere cosciente - è prima della natura e quindi demiurgo di questa.

In quanto alle modalità di questa attività demiurgica si potrà pervicacemente sostenere che è l'homo faber il quale... produce le Galassie, oppure si dovrà concludere gentilianamente che le produce conoscendole, perché anche conoscere è fare, nel qual caso è addirittura la sovrastrutturale esperienza dell'homo sapiens a porre in essere la natura.

In entrambi i casi il materialismo storico finirebbe a poter essere sinteticamente esposto in questi termini (naturalmente una volta negato il realismo gnoseologico):

“con i limiti che si riconnettono alle possibilità di rovesciamento della prassi, il singolo essere umano è strettamente determinato, in termini esistenzialistici “gettato” in una situazione sociale indipendente dalla sua coscienza e volontà, mentre l'uomo universale, con il suo processo di vita, rende possibile cioè la condizione e “fondazione” trascendentale di tutta la realtà, ivi compresa la natura inorganica”

In questa formulazione mettiamo al posto di “singolo essere umano”, “io empirico” e al posto di “uomo universale”, (secondo il “raxismo critico” dei “neo-fenomenologi” identificato con la “soggettività trascendentale” quindi con l'“io trascendentale”) “io trascendentale” appunto, e avremo una proposizione che Giovanni Gentile in persona si sentirebbe di sottoscrivere senza esitazioni. Gli idealisti non sono mai stati teneri con il cosiddetto “io empirico”, e volentieri riconoscono la sua limitatezza, finitezza, determinazione ab extraneis rebus, ciò mediante cose estranee o contrarie, limitative dal di fuori ecc. di qui - da Kierkegaard in poi - le polemiche di tutti gli “ontologisti” e “spiritualisti”, più o meno fedeli alla religione tradizionale, contro l'incomprensione idealistica - ed hegeliana in ispecie - per le necessità del “singolo”.

Il fatto che i marxisti - ma in direzione contraria all'ontologismo-spiritualismo - si preoccupino del destino del singolo e insomma vogliano “trasformare il mondo” per la liberazione di tutti gli uomini concretamente viventi, mentre gli idealisti, da Hegel a Gentile, intonano inni alla conservazione o alla reazione sociale, tutto ciò non fa differenza dal punto di vista teoretico, una volta accettata l'impostazione alla Korsch - Gramsci (e, possiamo anche dire alla Lukacs - del Lukacs migliore!).

Si tratterà di due opzioni pratiche - una “rivoluzionaria” e liberatrice del singolo, l'altra conservatrice ed esaltatrice dell'Uomo trascendentale - entrambe fondamentalmente compatibili con la comune impostazione idealistica sul piano teoretico.

Ma a questo punto qualcuno potrebbe sollevare un problema molto serio, e cioè chiederci: come “filosofi” voi avete certo il diritto - e anzi il dovere di difendere il realismo e il materialismo se credete che tali teorie siano “vere” e false le dottrine opposte, ma in quanto socialisti quale obbligo avete di sostenere determinate tesi di “filosofia generale”?

A me sembra che oltre la generale fondazione scientifica altrimenti inesistente, il legame peculiare tra materialismo (idest realismo+ dialettica +materialismo storico+ negazione della metafisica) e socialismo vada ricercato - a parte dunque motivi più generali, colla impossibilità di comprendere altrimenti la storia medesima, o minori - nella necessità, in cui si trova chiunque voglia coerentemente lavorare per il socialismo di negare che la pienezza della dignità umana e della umanità stessa nella sua realizzazione ed esplicazione permanente sia un valore già dato, già realizzato metastoricamente, nell'al di là oppure in interiore homine, e non invece un obbiettivo da perseguire nel lavoro e nella lotta - che è il punto di partenza della stessa battaglia di Marx, fin dagli scritti giovanili e sottende appunto già così il carattere materialistico e storico-dialettico della sua dottrina. Korsch non capisce che l'al di là della natura - a parte il fatto che la cosa in sé può essere trasformata in cosa per noi - in ogni caso, anche se fosse del tutto trascendente, dal punto di vista del Valore costituirebbe pur sempre un semplice limite inferiore sul quale l'uomo non potrebbe edificare alcun mito consolatorio per rifarsi a parole della reale situazione di alienazione in cui si trova a vivere. Prendiamo invece il seguace dell'ontologista indiano Shankara. Egli dirà al paria affamato:

“Consolati, anche tu sei Brahma che sogna di essere un paria.”

Così i cristiani primitivi (lo sostiene persino il teologo protestante Culmann) attendevano l'avvento concreto, reale del Regno (e in ciò erano spiritualisti incoerenti come... Mignoli), e tuttavia lo aspettavano non dall'opera loro, ma come gratuito dono di Dio... Presto però s'impose la tesi della salvezza nell'al di là, e nel contempo la convinzione che chiunque in questo mondo, operando il bene (nelle condizioni date) e onorando il Padre, possa raggiungere la piena dignità di “figlio di Dio”, sia egli povero o ricco, schiavo o re.

Korsch, col suo “immanentismo”, non capisce neppure che miti consolatori possono sorgere anche da una “religione dell'al di qua” (basti pensare ai miti e feticci valli del liberalismo), se essa è tale da poter dire anche al più derelitto degli esseri umani che egli stesso, in quanto partecipe della soggettività trascendentale, partecipa del divino immanente, e quindi può ben consolarsi delle sue sventure di... “io empirico”!

Korsch o Gramsci, e anche lo Spinella inorridirebbero dinnanzi a una tale prospettiva, eppure non è assurdo immaginare che (come peraltro a suo tempo Gramsci esaltava la fabbrica-galera) possa farsi avanti un filosofo attualista... “ad usum proletari” il quale sostenga una teoria sballata più o meno di questo genere:

“Dato che la natura conquista la sua “verità” solo nella produzione e poiché l'operaio e il bracciante sono più di ogni altro uomo impegnati nella concreta opera produttiva, ringrazi lo sfruttatore il proletario, perché è per opera sua che egli può essere più di ogni altro homo faber, e consideri il suo duro lavoro quotidiano come lo strumento mediante il quale egli partecipa in modo precipuo a quell'attività demiurgica dell' “homo faber”, creatore della stessa natura.”

Una balordaggine - dirà qualcuno? Certamente, ma non più balorda delle teorie sul Brahma dormiente, sull'uomo che è “figlio di Dio” anche nell'abiezione della schiavitù, sull'Io Trascendentale Assoluto, e così via... non dimenticando, come si è accennato, proprio Gramsci e la sua esaltazione della fabbrica come “modello” nazionale, come “repubblica socialista” se sottoposta ad un “controllo operaio” che va dalla occupazione transitoria alla cogestione corporativa, ecc.

Se qui la scempiaggine emerge in modo chiaro è perché la tesi della produzione che crea i suoi stessi presupposti naturali è palesemente falsa, e anche perchè l'operaio - il quale è naturaliter materialista come lo scienziato - prenderebbe a legnate (almeno si spera) l'ipotizzato “attualista di officina”.

Dunque ogni forma di idealismo e spiritualismo va combattuta perché, falsa sul terreno teoretico, su quello della prassi incoraggia ogni genere di viltà e di abbandono della lotta concreta per il progresso umano, cioè per dirla con Trotsky, per “l'accrescimento del potere dell'uomo sulla natura e (per la) soppressione del potere dell'uomo sull'uomo”.

E veniamo a un ultimo punto che mi sembra particolarmente importante. Nella sua Anticritica, Korsch, immemore di aver escogitato una metafisica “Unità Identica” di Coscienza e Realtà, accusa Lenin di avere restaurato l'assoluto, ritornando a quei

“contrasti assoluti, già superati dialetticamente da Hegel, tra il “pensiero” e l'“essere”, tra lo “spirito” e la “materia”, che erano stati oggetto della disputa, in parte religiosa, degli illuministi del XVII (?) e XVIII secolo.”

Da Hegel, secondo Korsch, l'assoluto viene bandito “dall'essere, sia dello “spirito” sia della “materia” per venire trasposto nel movimento dialettico dell'“idea”“. Che passo in avanti sia questo - a parte la dialettica - rispetto alla posizione della metafisica dell'Assoluto come Spirito, francamente non lo si vede (Hegel è volgarmente falsificato, ipostatizzando la sua illusione di superamento sia del materialismo che dello spiritualismo, che finisce nello “Spirito Assoluto”).

Ma secondo il nostro Autore, il marxismo ha fatto un altro passo avanti proclamando il “movimento storico rivoluzionario come l'unico e ultimo “assoluto”.” Siamo ancora in pieno idealismo e spiritualismo, lo si voglia o no... (e ciò dovrebbero considerare anche gli umanisti neohegeliani degli USA, come il gruppo di News & Letters e particolarmente la Dunayevskaya, che riecheggia tesi simili in Marxismo e Libertà). Ma Korsch si corregge in nota, e dice che

“il termine “assoluto”, sia nel testo di Engels, sia nel [suo], ha ormai soltanto un significato, figurato [e che ciò non avrebbe bisogno di essere sottolineato] se proprio Lenin e i suoi non avessero ripreso a parlare tranquillamente e in senso tutt'altro che figurato di un essere assoluto e di una verità assoluta!”

Ora in verità non ci è facile comprendere che cosa significhi parlare di “assoluto” in senso figurato; senza contare che in un testo scientifico il massimo di metafora consentito è il paragone rigorosamente determinato (e gli eventuali squarci letterari o retorici sono dichiaratamente privi di contenuto teoretico).

D'altra parte è chiaro che quando Engels discuteva del rapporto e della dialettica tra verità assoluta e verità relativa, ovviamente non usava il termine “assoluto” con un significato figurato, bensì in uni senso particolare che rinvia a “Materialismo ed Empiriocriticismo” per direttissima, trattandosi di un assoluto che ha sempre in sé il relativo (e viceversa).

Il fatto è che Korsch nel 1923 vuol essere leninista (mentre non lo è), mentre nel 1930 vuol buttare a mare Lenin, ancorandosi a un Engels plasmato a sua immagine e somiglianza.

Poi verranno i Fergnani, eredi di generazioni “marxiste-critiche”, a cercare di liberarsi definitivamente anche del pensiero di Engels, ancorandosi invece a un... trasfigurato Marx. L'ultimo passo che si può compiere su questa via è intuitivo.

Ma il punto veramente centrale - e che Korsch, non ha capito, e di ciò possiamo perdonarlo perché è filosoficamente piuttosto difficile - è che il misticismo non comincia dal riconoscimento dell'esistenza di qualche affermazione che abbia carattere “assoluto”, ma dal culto del contenuto di tale affermazione elevato a Valore. Ora, se il contenuto dell'unica affermazione assoluta (con l'a minuscola), non banale, è la materia, intesa come l'essere nel suo mero esserci di fatto, è impossibile che su questo assoluto si impianti un qualche culto mistico, una forma qualsiasi di mito consolatorio.

...L'essere invece del nulla, la vita invece della morte, sono valori solo nella misura in cui sono tali i valori umani, di cui vengono a costituire un fonda mento necessario, ma ai quali vanno subordinati appunto per il valore, se è vero che valore è prodotto umano e sociale, presupposto ma non esaurito dalla Natura donde l'uomo si è sviluppato.

In altre parole: senza l'essere invece del nulla (essere materiale, s'intende), la vita invece della morte, non vi sarebbero i valori esistenti della vita umana come caso particolare della vita, della dialettica naturale ed insieme sua massima (almeno sulla Terra) espressione evolutiva. Ma senza i valori umani, né l'essere né la vita potrebbero essere detti valori, di grado inferiore o meno - la questione non si potrebbe porre nemmeno, perché valore è per definizione relativo appunto come prodotto storico, relazionato all'uomo che si sviluppa trasformando la natura da cui è nato. La vita umana ha senso e valore specifico conferito esclusivamente dagli uomini cioè “per noi”: in sè - se non diviene davvero per noi, dominata da noi - rappresenta sì uno stadio superiore della natura, dal punto di vista evoluzionistico, ma parlare di una finalità teleologica e di un'intrinseca valenza che non rientri nella sua stessa esistenza e materialità, al di fuori del suo “orientamento” storico cosciente da parte umana, è fare della metafisica, di tipo antropocentrico. A chi chiede: qual'è il suo senso? non: quale senso le va dato da noi? (come possiamo condurla all'esplicazione delle sue possibilità su un piano di autocoscienza collettiva?) si può solo rispondere: il senso a priori della vita umana è di essere tale, cioè, tautologicamente, un alto grado di sviluppo della materia in movimento. Né possiamo infatti estendere il darwinismo alla storia, vedendo prefigurato nelle leggi della dialettica naturale il perfezionamento della società umana (implicante appunto le nostre storiche scale di valori), laddove sussiste un vero salto ulteriore in qualità.

Invece, come per un condizionamento mentale le cui prime espressioni teoriche troviamo forse nei Veda, e comunque nel duo Parmenide-Shankara, è un procedimento naturale per il filosofo identificare Essere, Assoluto e Valore (tutti con le iniziali maiuscole), così, per un condizionamento non meno

millenario, la “materia” viene naturalmente qualificata come dis-valore, non-valore, e comunque non certo come... valore Assoluto (tanto meno etico, v. l'accezione volgare di “materialismo” come edonismo interessato e analoghi). Se dunque la materia “filosoficamente intesa” come la realtà oggettiva è, in un certo senso, lo assoluto (dialetticamente comprendente, v. Lenin, il relativo) essa non potrà in alcun modo essere lAssoluto con l'A maiuscola, il Valore. Distinzione particolarmente chiara: non si vede come si possa ravvisare la metafisica tradizionale dell'Essere allo sbocco della concezione Engels-Lenin: evidentemente costoro fanno confusione proprio sul concetto di “materia filosoficamente intesa”, come essere nel suo mero esserci di fatto, in sé, indipendentemente da noi, ben distinto perciò dall'Essere-Valore che l'ontologia e metafisica tradizionale vede in sé, mentre è sempre uno storico per noi appunto.

Tornando ora a Korsch - e per concludere - pensiamo sia il caso di porre alcuni quesiti sulle cause che determinarono il suo atteggiamento filosofico. E cioè: uomini come Korsch, Lukacs “prima maniera” e Gramsci furono indotti a sostenere tesi cripto-idealistiche o idealistiche aperte, ed anche volontaristiche, per reazione al determinismo meccanicistico col quale i socialdemocratici ed i menscevichi di tutti i paesi mascheravano la loro capitolazione alla borghesia, cioè vanno prese per buone le motivazioni da loro stessi fornite? Oppure era la formazione filosofica hegeliana o neo-hegeliana a spingere Korsch, come Gramsci e Lukàcs, a sopravvalutare un fenomeno - l'interpretazione meccanicistica del marxismo - che in realtà non rappresentava altro, nella maggior parte dei casi, se non un mero tentativo di copertura ideologica del fallimento politico della socialdemocrazia? Posto che, sul piano filosofico, tale determinismo fatalistico (“non importa che facciamo la rivoluzione, tanto... questa scoppierà da sola, prima o poi - o addirittura il capitalismo si trasformerà automaticamente in socialismo”), fustigato dal leninismo, si rivelava alla critica in tutta la sua grossolanità, di stampo, diciamo, zhdanoviano ante litteram (si ricordino al riguardo le osservazioni anti-fatalistiche di Trotzky nel 1921, contro la fatalità dell'evoluzione rivoluzionaria, l'irreversibilità del flusso ascensionale, ecc.).

Oppure ancora, come è forse più probabile, a determinare prese di posizione del tipo di quelle di Korsch, concorsero entrambi i fattori appena menzionati? Non sarà una perdita di tempo, pensiamo, soffermare un poco l'attenzione su tali quesiti, che ci sembrano presentare un certo interesse per la storia del movimento rivoluzionario internazionale.

Andrea Radez

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.