Paul Mattick: Il marxismo e “il capitale monopolistico”

I

Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, gli autori de “Il capitale monopolistico”, cercano di superare “il ristagno della scienza sociale marxista”, spostando l'interesse principale dal capitale concorrenziale al capitale monopolistico. A loro avviso, “l'analisi marxista del capitalismo, in fondo, riposa ancora sul presupposto di un'economia concorrenziale”, la quale però avrebbe frattanto subito un mutamento qualitativo, proprio nell'essere passata nella fase del capitalismo monopolistico.

[Marx] considerò i monopoli non come elementi fondamentali del capitalismo, ma come residui del passato feudale e mercantile da cui bisognava prescindere allo scopo di ottenere il quadro più chiaro possibile della struttura e delle tendenze fondamentali del capitalismo. (1)

pp. 5-6

Il loro libro intende porre rimedio a questa situazione, invero ricorrendo al “potente metodo analitico” (p. 7) di Marx.

L'analisi marxiana del capitalismo poggia sulla teoria del lavoro e del plusvalore. Ora però, i rapporti di mercato, così dicono Baran e Sweezy, sono

essenzialmente rapporti di prezzo, [... per cui] lo studio del capitalismo monopolistico, come quello del capitalismo concorrenziale, [... dovrebbe] cominciare con gli ingranaggi del meccanismo dei prezzi.

p. 46

Secondo Marx i rapporti di prezzo derivano dai rapporti di valore per cui occorre iniziare l'indagine e capitalismo con i rapporti di valore. L'analisi del valore compiuta dal capitalismo trascura la concorrenza, perché nell'aggregato sociale tutti i prezzi sono uguali al valore complessivo. Contro le asserzioni di Baran e Sweezy, l'analisi marxiana non si fonda sulla presupposizione del capitalismo concorrenziale bensì, sul concetto astratto di capitale complessivo Se questo concetto ha una validità generale, allora è indipendente dalla rispettiva struttura del capitale (concorrenza o monopolio).

Marx visse in un'epoca di capitalismo concorrenziale altamente sviluppato e sapeva che sono i prezzi e non i valori a determinare l'andatura del mercato, benché gli stessi prezzi siano limitati, in qualità di rapporti di valore, dalle relazioni sociali. Le parti descrittive del Capitale si occupano della concorrenza tra capitali e dell'abolizione della concorrenza mediante la concorrenza, cioè con la centralizzazione e la concentrazione del capitale. Nell'affermare che Marx avrebbe trascurato il monopolio, Baran e Sweezy presumibilmente pensano che Marx non abbia adoperato il concetto di “monopolio” nel suo significato borghese come antitesi alla concorrenza. La sua teoria della concorrenza tra capitali è nel contempo una teoria del monopolio; in questo senso, il monopolio rimane pur sempre nella concorrenza, giacché un capitalismo senza concorrenza significherebbe la fine dei rapporti di mercato, che mantengono in vita il capitalismo privato. Certo, all'epoca di fioritura del capitalismo c'era una concorrenza più forte di quella verificatasi nelle fasi precedenti o successive.

Fin quando il capitale é debole, -- dichiara esplicitamente Marx -- esso si aggrappa alle grucce dei modi di produzione tramontati o che tramontano al suo apparire. Ma non appena si sente forte, esso getta via le grucce e si muove secondo le sue proprie leggi. Non appena comincia ad avere la sensazione e la consapevolezza di essere esso stesso un ostacolo allo sviluppo, subito cerca scampo verso forme le quali, mentre danno l'illusione di perfezionare il dominio del capitale imbrigliando la libera concorrenza, annunciano nello stesso tempo la dissoluzione sua e del modo di produzione che su di esso si fonda. (2)

In altre parole, il predominio del monopolio caratterizza le fasi premature e quelle avanzate dello sviluppo capitalistico. Contro l'apparenza, quando il monopolio elimina la concorrenza, invece di essere proprio una forma di essa, il capitalismo si trova al suo tramonto.

Secondo Baran e Sweezy, il preteso “mutamento fondamentale nella struttura” del capitalismo, dalla fase concorrenziale a quella monopolistica, esige un cambiamento delle leggi derivate dal “modello concorrenziale” marxiano, quali, ad esempio, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Tuttavia, come abbiamo già accennato, il modello marxiano della formazione del capitale non si fonda sulla concorrenza, bensì sull'applicazione della teoria del valore-lavoro al processo dell'accumulazione. Pur essendo a quel tempo l'accumulazione capitalistica un processo concorrenziale, la caduta tendenziale del saggio di profitto non si fonda sulla concorrenza, ma sui rapporti di valore differiti dell'espansione del capitale.

Questa legge mostra come il capitale investito in mezzi di produzione cresca più rapidamente di quello investito in forza-lavoro. Siccome il tempo di pluslavoro è plusvalore, la riduzione di tempo di lavoro in rapporto alla quantità crescente di capitale improduttivo comporta una caduta del saggio di profitto, perché questo saggio viene “misurato” sul capitale complessivo, cioè sia sul capitale investito nei mezzi di produzione (capitale costante) che su quello investito nella forza-lavoro (capitale variabile). La caduta tendenziale del saggio di profitto è soltanto un'altra modalità di espressione dell'accumulazione del capitale e della crescente produttività del lavoro.

Marx parla di una tendenza di saggi di profitto decrescenti per le stesse cause

che per un determinato capitale producono una diminuzione assoluta del plusvalore e quindi del profitto, e per conseguenza anche del saggio del profitto calcolato percentualmente, comportano un aumento della massa assoluta del plusvalore, e quindi del profitto, che il capitale sociale (cioè la totalità dei capitalisti) si e appropriato. (3)

Infatti:

Mentre ogni parte aliquota pari a 100 del capitale sociale, e quindi ogni capitale di composizione media sociale pari a 100, è una grandezza determinata, e la diminuzione del saggio del profitto coincide per tale grandezza con la diminuzione della grandezza assoluta del profitto, appunto perché il capitale su cui esse vengono misurate è una grandezza costante; invece la grandezza del capitale complessivo sociale e quella del capitale che si trova in mano ai singoli capitalisti è una grandezza variabile che [...] deve variare in ragione inversa alla diminuzione della sua parte variabile. (4)

Malgrado la caduta tendenziale del saggio di profitto,

il numero degli operai impiegati dal capitale, [...] quindi la massa assoluta di pluslavoro che assorbe, e perciò la massa di plusvalore e la massa assoluta del profitto che produce, possono quindi aumentare, anche progressivamente [...]. Ciò non solo può, ma deve accadere - eccettuate le oscillazioni temporanee - sulla base della produzione capitalistica. (5)

Perché questo avvenga occorre soltanto che

il capitale complessivo (cresca) in proporzione maggiore alla diminuzione irruzione della quota percentuale del capitale variabile. (6)

Lo stesso processo di accumulazione neutralizza il significato immediato del saggio di profitto decrescente.

Secondo Marx, l'accumulazione però è caratterizzata da un incremento del pluslavoro, innanzitutto nella

diminuzione del tempo di lavoro necessario, che è richiesto per la riproduzione della forza-lavoro; secondariamente nella riduzione della quantità della forza-lavoro (numero degli operai) che viene impiegata per mettere in opera un capitale determinato. (7)

Questi due movimenti si determinano reciprocamente, ma agiscono in senso opposto sul saggio del profitto. Mentre il saggio di plusvalore aumenta in una direzione, il numero degli operai diminuisce nell'altra.

In quanto lo sviluppo delle forze produttive fa diminuire la parte pagata del lavoro impiegato, esso accresce il plusvalore aumentandone il saggio; in quanto tuttavia diminuisce la massa complessiva del lavoro impiegato da un determinato capitale, esso diminuisce il coefficiente numerico con cui viene moltiplicato il saggio del plusvalore per ricavarne la massa. (8)

Perciò, pur essendo la caduta del saggio di profitto frenata dall'accumulazione, non è però possibile impedirla completamente, giacché ci sono limiti evidentissimi, al di là dei quali il tempo di lavoro assoluto non può andare e il tempo di lavoro necessario, cioè il tempo di lavoro spettante agli operai, non può essere ulteriormente accorciato in favore del tempo di pluslavoro. Per esprimerci con una formulazione estrema, diremo che il tempo di lavoro assoluto per un giorno non può superare le ventiquattro ore e che il tempo di lavoro necessario non può essere ridotto a zero. Non è possibile portare avanti all'infinito il compenso alla relativa riduzione del numero di operai continuando ad accrescere il loro sfruttamento. Per quanto grande sia la massa di forza-lavoro nel mondo capitalistico reale la sua quantità deve decrescere in rapporto alla più rapida crescita del capitale. Volendo trarne le conclusioni logiche, se ne deduce che l'espansione continuamente crescente di capitale trasformerà la caduta latente del saggio di profitto, a causa della scarsità di plusvalore ottenuto in considerazione della massa aumentata di capitale complessivo, in una caduta attuale del saggio di profitto. A questo punto la realtà concreta corrisponderebbe al modello marxiano dell'accumulazione di capitale.

L'accumulazione raggiunge un punto tale per cui il capitale variabile ridotto non può più essere compensato da una crescita del plusvalore, un plusvalore che sia grande quanto basta per rendere un profitto sufficiente per il capitale complessivo. A questo punto il saggio di profitto cade al di sotto del livello richiesto per la prosecuzione del processo di espansione. Non è prevedibile quando questo punto venga raggiunto nella realtà concreta, ma la tendenza in questa direzione spiega per Marx il continuo ripetersi di periodi di ristagno, che è sempre più difficile superare ricorrendo al cambiamento delle condizioni di produzione, così da ottenere quelle capaci di aumentare il saggio di plusvalore. Tuttavia, finché il capitale si accumula, rimane pur sempre in grado di elevare la massa del plusvalore. In queste condizioni, potendosi osservare l'incremento della massa del plusvalore, non esiste alcuna ragione di rigettare la teoria della caduta tendenziale del saggio di profitto; la teoria di Marx non ne risulta intaccata.

II

Baran e Sweezy ritengono necessario

sostituire la legge dell'aumento tendenziale del surplus alla legge della caduta tendenziale del profitto,

in quanto evidentemente essi si rendono conto che anche in Marx un plusvalore crescente sopprime de facto l’eventuale caduta del saggio del profitto. Occupandosi di questo problema con spirito quasi di sufficienza, Baran e Sweezy dichiarano di non intendere apportare

una revisione a un venerabile teorema di economia politica [... ma semplicemente tener conto] del fatto indubbio che la struttura dell'economia capitalistica ha subito un cambiamento fondamentale dal tempo in cui quel teorema è stato formulato.

p. 62

Per loro, è bastato il puro e semplice “cambiamento” dalla concorrenza al monopolio, perché risultasse abolita la legge immanente all'espansione capitalistica formulata da Marx. La “prova” che sostiene questa presupposizione è costituita dall'apparente sovrabbondanza di plusvalore negli Stati Uniti. Supponiamo che Baran e Sweezy abbiano ragione: e allora essi non farebbero altro che ripetere quanto lo stesso Marx

aveva messo in rilievo, e cioè che un sufficiente saggio di sfruttamento possa provvisoriamiente interrompere la caduta del saggio di profitto. Baran e Sweezy non si limitano a “sostituire la legge dell'aumento tendenziale del surplus alla legge della caduta tendenziale del profitto” ma sostituiscono anche il concetto di plusvalore con quello di surplus. Essi preferiscono il concetto di surplus al concetto marxista tradizionale di “plusvalore”, poiché quest'ultimo nella mente della maggior parte di coloro che si affidano alla teoria economica marxiana si identifica probabilmente con la somma del profitto, dell'interesse e della rendita.

È vero che Marx dimostra - in alcuni passi del Capitale e delle Teorie sul plusvalore - che il plusvalore comprende anche altri elementi come le entrate dello Stato e della chiesa, le spese per trasformare le merci in moneta, e i salari dei lavoratori improduttivi. In generale, tuttavia, Marx considerava questi elementi come fattori secondari e li escludeva dal suo schema teorico fondamentale.

Tale è l'opinione di Baran e di Sweezy, i quali pure ritengono che questa impostazione non sia oggi più giustificata e sperano che

un cambiamento nella terminologia -- la sostituzione di “plusvalore” con “surplus” -- contribuirà al necessario mutamento nella posizione teorica.

pp. 10-11, n. 1

Siccome per Marx

il rapporto fra capitale e lavoro salariato determina tutto il carattere del modo di produzione (9)

egli effettua tutta la sua analisi del capitale nelle categorie di valore e di plusvalore. Perfino la suddivisione del plusvalore in profitto, interesse e rendita, scompare nella sua analisi del valore. Il meglio nel Capitale, scriveva Marx ad Engels

è 1) (su di ciò riposa tutta la comprensione, dei facts) il doppio carattere del lavoro subito messo in rilievo nel primo capitolo, a seconda che esso si esprima in valore d'uso o in valore di scambio; 2) la trattazione del plusvalore indipendentemente dalle sue forme particolari quali il profitto, l’’interesse, la rendita fondiaria ecc. (10)

Prendendo in esame il rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo, a Marx riuscì di fare ciò che era stato impossibile a Ricardo, di riconoscere cioè nel saggio decrescente di profitto una legge immanente all'accumulazione del capitale, una legge che per Marx era “la legge più importante della moderna economia politica” (11). Se non è importante esaminare l'interesse e la rendita nell'analisi del valore dello sviluppo del capitale, allora lo sono ancora meno gli altri punti addotti da Baran e Sweezy e nei quali viene suddiviso il plus valore nella società capitalistica, con la sola eccezione che, qualora troppo troppo plusvalore venga consumato invece di essere capitalizzato, tale ripartizione ridurrà il saggio di accumulazione.

Nella stessa definizione di surplus, data da Baran e Sweezy, come

differenza tra ciò che la società produce e i costi necessari per produrlo

p. 10

si tratta ancora di valore e di plusvalore. Se gli autori semplicemente designano il plusvalore come “surplus”, è perché

nell'effettivo regime economico del capitalismo monopolistico soltanto una parte della differenza tra produzione e costo di produzione appare come profitto.

p. 65

Ma ciò valeva allo stesso modo per il capitalismo concorrenziale. In realtà, Baran e Sweezy hanno abbandonato l'analisi economica marxiana per passare a quella borghese, la quale però non lavora con nozioni classiste come valore e plusvalore, bensì con quella di prodotto sociale, un amalgama tra il concetto di “domanda effettiva” e l'armamentario keynesiano contro la stagnazione. Sarebbe veramente uno strano marxismo quello che si occupasse più della ripartizione del plusvalore tra i capitalisti e le persone del loro seguito che non della spartizione del prodotto sociale tra capitale e lavoro. Ma se al posto di plusvalore ci fosse soltanto reddito da una parte e “surplus” dall'altra, allora non ci sarebbe ovviamente neanche un saggio decrescente di profitto quale risultato dei rapporti di valore della produzione di capitali e neppure vi sarebbero limiti immanenti alla produzione di profitto. Ora, se ciò nonostante subentra una stagnazione, essa non si verifica - secondo Baran e Sweezy - in base ai rapporti di produzione, al rapporto cioè tra capitale e lavoro, ma in base alla struttura monopolistica del capitalismo odierno. Ne consegue che le difficoltà del capitale monopolistico sorgono non per una mancanza di profitto bensì per un surplus non assorbibile.

L'entità del surplus negli Stati Uniti -- spiegano i nostri autori sorreggendosi sull'autorità di Joseph D. Phillips -- ammontava nel 1929 al 46,9 per cento del Prodotto nazionale lordo [...], fino a raggiungere il 56,1 per cento nel 1963. [...] In secondo luogo, la porzione del surplus che viene solitamente identificata con il plusvalore (profitto + interesse + rendita corrispondente al “reddito da proprietà” di Phillips) diminuì drasticamente nello stesso periodo. Il reddito da proprietà fu il 57,5 per cento del surplus complessivo nel 1929, ma fu soltanto il 31,9 per cento nel 1963. [...Di fronte a tali fatti, si devono] analizzare non soltanto le forze che determinano l'ammontare complessivo del surplus, ma anche quelle che ne regolano la differenziazione e i saggi variabili di sviluppo delle sue componenti.

pp. 11-12

Per grande che possa essere - e per loro stessa ammissione non è molto grande - il valore di queste statistiche, esse non si riferiscono al problema marxiano della determinazione del saggio di profitto ma al problema capitalistico della distribuzione del reddito registrato (da distinguere dai salari) tra i diversi gruppi di interessi che vivono del plusprodotto. Gli autori ci comunicano semplicemente la banalità che in alcuni paesi capitalistici la produttività del lavoro si è fortemente elevata così da rendere possibile in gran parte la produzione del superfluo nonché un livello di vita più elevato anche nelle condizioni di una relativa stagnazione. Più oltre essi accennano al fatto che il governo richiede e riceve una quota maggiore del prodotto nazionale lordo. Evidentemente, per quanto riguarda il saggio di sfruttamento, tutto è in ordine per la società capitalistica. Solamente l'utilizzazione del surplus incontra degli ostacoli ed esige cose “spiacevoli” quali la pubblicità, un intervento più ampio dello Stato, gli armamenti, l'imperialismo e la guerra. Marx non seppe vedere tutto questo perché nutriva

la profonda convinzione che il dilemma centrale del capitalismo si riassumeva in quella che Marx chiamava “la caduta tendenziale del saggio di profitto”. Viste da questo angolo visuale, -- scrivono Baran e Sweezy -- le barriere allo sviluppo capitalistico sembravano consistere più in una carenza del surplus necessario per mantenere il ritmo dell'accumulazione che in una insufficienza dei modi caratteristici di utilizzazione del surplus. [Ora però, nelle condizioni del capitalismo monopolistico e ] di fronte alla legge dell'aumento tendenziale del surplus che sostituisce quella della caduta tendenziale del saggio di profitto, e di fronte ai normali modi di impiego del surplus palesemente incapaci di assorbire un surplus crescente, la questione degli altri modi di utilizzazione del surplus assume importanza decisiva.

p. 93

I modi normali di impiego del surplus sono il consumo capitalistico e l’investimento, i quali vengono integrati dagli inevitabili costi del processo di circolazione e da altre attività necessarie, seppure improduttive. Nel capitalismo monopolistico però, tali utilizzazioni normali del surplus non bastano più, perché la produzione supera la domanda effettiva. Ora, siccome il surplus che non può essere più assorbito, non viene neanche più prodotto, ne consegue che lo stato normale del capitalismo monopolistico è il ristagno.

Con un dato stock di capitale e una data struttura di costi e di prezzi, il ritmo di funzionamento del sistema non può aumentare oltre il punto in cui il surplus prodotto può trovare gli sbocchi necessari. E questo significa cronica sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali disponibili. O, per dirla in termini leggermente diversi, il sistema deve funzionare a un livello abbastanza basso della sua scheda di redditività per non generare più surplus di quello che può essere assorbito.

p. 92

Fino a questo, punto Baran e Sweezy hanno detto che al capitale monopolistico non conviene incrementare la produzione oltre il punto in cui essa cesserebbe di essere redditizia. Ciò risultava vero nella stessa misura per il capitalismo concorrenziale, come dimostrano i periodi di depressione che si ripetono ciclicamente, con la differenza che ciò che nel ciclo congiunturale era un periodo di ristagno, ora è diventato uno stato normale. Non esiste realmente il surplus non assorbito, di cui parlano Baran e Sweezy, perché la produzione cessa nel momento in cui diventa infruttuosa; esistono invece risorse umane e materiali inutilizzate. Non è quindi il surplus effettivo a creare difficoltà al capitale monopolistico, ma quello potenziale, che potrebbe essere prodotto e non viene invece prodotto.

Lasciato a se stesso - vale a dire senza che ai siano quelle forze antagonistiche che non fanno parte di ciò che si può chiamare la “logica elementare” del sistema - il capitalismo monopolistico affonderebbe sempre più nelle sabbie mobili della depressione cronica.

p. 92

Stando alla loro teoria non potrebbe essere diversamente, giacché se il capitale monopolistico non riesce più ad assorbire il surplus, significa che è incapace di far fronte ad ogni ulteriore incremento della produttività del lavoro, la quale verrebbe così ad elevare ulteriormente il surplus e a costringere quindi il capitale monopolistico a limitazioni sempre più ampie della produzione. Con l'accrescersi delle risorse inutilizzate l'accumulazione di capitale, e cioè il modo di produzione capitalistico, verrebbe a cessare.

In vista di tutti gli scopi pratici è assolutamente secondario se, per spiegare la limitazione della produzione, la mancanza stessa di domanda effettiva venga dichiarata essere la causa o soltanto indirettamente la conseguenza della scarsa redditività: nel primo caso il problema viene visto nell'ottica del mercato, nel secondo in quella della produzione, ma in entrambi i casi si ha una limitazione della produzione. Ad ogni modo solamente in condizioni di rapida accumulazione di capitale la domanda si espande quanto basta per consentire la realizzazione e a capitalizzazione del plusvalore.

Siccome la produtività aumenta perfino in assenza di accumulazione, è relativamente indipendente dal processo di produzione quale processo di espansione del capitale. Tuttavia, nel corso indisturbato dell'accumulazione la crescente produttività del lavoro cammina di pari passo con l’espansione di valore del capitale. Nella loro forma di valore il capitale costante e il capitale variabile sono uniti indissolubilmente alle condizioni materiali della produzione, cioè ai mezzi di produzione ed alla forza-lavoro Marx distinse tra la composizione del valore e la composizione materiale (tecnica) del capitale.

Fra entrambe esiste uno stretto rapporto reciproco. Per esprimere quest'ultimo, chiamerò la composizione del valore del capitale, in quanto sia determinata dalla sua composizione tecnica e in quanto rispecchi le variazioni di questa: la composizione organica del capitale. (12)

La nozione di composizione organica del capitale rinvia alla identità ed alla differenza tra produzione materiale e produzione di valore e ripropone sul piano sociale il concetto di valore come identità e differenza tra valore d'uso e valore di scambio, quale contraddizione fondamentale della produzione capitalistica. Per Marx è quella discrepanza esistente tra produzione materiale e produzione di valore a provocare delle difficoltà nel processo di accumulazione, ma anche a rendere t possibile la sua ripresa ed espansione mediante dei cambiamenti nelle condizioni materiali e tecniche di produzione, che incrementando la produttività del lavoro elevano il saggio di plusvalore e di profitto. Dove e quando ciò non fosse più possibile, gli investimenti non vengono neppure intrapresi.

Inoltre, la redditività di ogni capitale singolo si basa, secondo Marx, sulla redditività del sistema capitalistico nel suo complesso, che è una grandezza sconosciuta. L'unica indicazione su di essa, se sia in ascesa o in diminuzione, viene offerta dai meccanismi di mercato i quali quindi stabiliscono per ogni capitale singolo se deve ampliare la produzione, contenerla oppure lasciarla allo stesso livello. Per elevare la loro quota di partecipazione ad un certo mercato oppure per mantenere la loro redditività su un mercato che si va contraendo, i diversi capitali cercheranno in ogni modo di diminuire i costi della loro produzione così da conservare o migliorare la loro capacità concorrenziale. Lo fanno tutti quanti, ma nelle condizioni di un mercato in contrazione i capitali più deboli cedono prima in favore dei più forti, per cui i cambiamenti nella sfera di produzione procedono insieme ai cambiamenti nella sfera del mercato. Il capitale diventa così più produttivo, non solo, ma sarà anche più fortemente concentrato e centralizzato, in quanto un numero più piccolo di capitalisti ha per sé un mercato più grande e, benché tale svolta si ripercuota vantaggiosamente sul cambiamento delle condizioni di produzione, appare come un cambiamento delle condizioni di mercato, come il ripristino di una domanda effettiva che consente la ripresa del processo di accumulazione.

III

Per Barati e Sweezy però, i problemi capitalistici sono esclusivamente problemi di mercato: il dilemma attuale del capitalismo non è la produzione, ma la realizzazione del surplus. Una mancanza di domanda effettiva riferita al potenziale di produzione comporta delle risorse inutilizzate. In questo caso la domanda sarebbe relativamente più grande, se la produzione fosse meno effettiva. Ora, siccome l'aumentare del surplus e il venir meno della domanda sono il medesimo fenomeno, l'uno non può servire a spiegare l'altra, piuttosto è questo stesso fenomeno, avente una sola natura ma due aspetti, ad aver bisogno di una spiegazione. È evidente che se il capitale monopolistico potesse vendere più prodotti, lo farebbe senz'altro. Ora, sarebbe in tali condizioni di farlo se il capitale si accumulasse e facesse quindi crescere la domanda effettiva. Ma il capitale non si espande, perché il farlo non sarebbe redditizio; se ne deduce quindi che le lagnanze sul calo della domanda siano in realtà un dolersi della redditività... insufficiente.

Nell'esposizione di Baran e Sweezy è soltanto la capacità di produzione a imporre la restrizione della produzione. Questa teoria trascura il carattere di valore della produzione capitalistica. Il surplus non viene visto come plusvalore, bensì soltanto come surplus-produttivo. Nel capitalismo la massa crescente di merci (in qualità di valori d'uso) appare invece come valori di scambio. Siccome la massa dei valori di scambio diminuisce con la crescente produttività del lavoro, l'accumulazione di capitali richiede un più rapido aumento della massa di valori d’uso. Solo mediante la crescente capacità di produzione viene ad ingrandirsi il valore di scambio complessivo e il capitale si accumula. Di fatto la capacità di produzione aumenta proprio in situazioni di crisi, per provocare il ravvivarsi del processo di accumulazione. È appunto questa costrizione all’incremento della capacità produttiva a rimandare alla realtà concreta della caduta tendenziale del saggio di profitto; è anche l’unico mezzo disponibile per frenarla. Ecco perché, per determinare il grado di redditività è necessario porre in relazione non i prodotti stessi, ma il valore di scambio del surplus di prodotti con il valore del capitale complessivo. Siccome la capacità produttiva capitalistica non si riferisce a una quantità definita di merci, ma al valore di scambio di tale quantità, Baran e Sweezy dovrebbero dimostrare la loro posizione riferendosi non alla crescente capacità di produrre merci, bensì alla crescente capacità di produrre valori di scambio.

Nel capitalismo ogni surplus o è plusvalore oppure non è un surplus, ma un deficit. Secondo Baran e Sweezy, il “capitale monopolistico” impedisce il deficit restringendo la produzione; in realtà però, malgrado la sua struttura il capitale cerca in tutti i modi di aumentare il plusvalore, e precisamente lo fa nelle condizioni di una utilizzazione piena o parziale delle risorse produttive. Se le risorse rimangono inutilizzate è perché sono improduttive, e non viceversa. Il crescente saggio di invecchiamento dimostra il ritmo sempre più rapido con cui i mezzi di produzione perdono la loro capacità di creare profitto. Spesso solamente l'apparato produttivo col più alto grado di rendimento riesce a garantire la redditività del capitale, il quale per giunta, nella sua insaziabile fame di profitto, cerca di ricavare plusvalore da qualunque parte, per aumentare il profitto conseguito a casa sua.

Perché mai tale mostruosa avidità di plusvalore e di profitto se, stando a Baran e Sweezy, il capitale monopolistico riesce a stento a padroneggiare il surplus già disponibile? In realtà la redditività decrescente nell'ambito dell’espansione del capitale, plusvalore e profitto non possono mai essere sufficientemente alti. Il plusvalore espresso nelle merci è tempo di lavoro supplementare. Per diverso che possa sembrare nella sua forma fisica, il surplus, riferito al sistema capitalistico è unicamente e solo una determinata quantità di tempo di lavoro supplementare, una parte del tempo di lavoro complessivo. Per quanto il surplus possa aumentare nella sua forma di merce, il tempo di lavoro supplementare decresce con il diminuire del tempo di lavoro complessivo nell'ambito della crescente composizione organica del capitale. Il saggio di profitto non viene determinato dalla massa di merci quale surplus tendente a crescere, bensì dai rapporti di valore tra lavoro “vivo” e lavoro “morto”; ciò significa che il mutevole rapporto tra capitale costante e capitale variabile viene modificato dal saggio di sfruttamento. Il saggio di profitto può cadere nonostante, anzi a causa di un crescente surplus, se questo viene visto esclusivamente come una massa di merci. In tal caso lo stesso surplus esprime la caduta del saggio di profitto nelle sue manifestazioni concrete legate ad una crisi di sovrapproduzione oppure, come di recente, nella sottoccupazione quasi permanente delle risorse produttive. Entrambe le situazioni indicano che il saggio di profitto scoraggia o addirittura esclude investimenti addizionali di capitale, e precisamente su una base che è sufficientemente grande per provocare la domanda effettiva, la quale assicurerebbe la realizzazione del plusvalore in una produzione più vasta.

Volendo ancora una volta esprimerci in maniera estrema, diremo che una vasta automatizzazione della produzione riduce il capitale variabile ad essere una parte irrilevante del capitale complessivo; la produttività del lavoro allora verrebbe, per così dire, a trasformarsi in produttività del capitale. Un colossale dispendio di produzione starebbe di fronte ad una quantità insignificante di lavoro diretto, e quindi anche a una piccola quantità di pluslavoro. Siccome ci sarebbero ancora le masse di lavoratori disoccupati, esse dovrebbero ricevere sussidi dalla produzione automatizzata, sarebbe il capitale a mantenere in vita il lavoro, e non viceversa. Le condizioni della produzione capitalistica risulterebbero completamente rovesciate nel loro opposto; non sarebbero più possibili il valore e la produzione di plusvalore.

È ovvio che per questo motivo una tale situazione non possa mai inquadrarsi nei limiti del capitalismo. Finché lo scopo della produzione è il valore di scambio, le quantità di tempo di lavoro rimangono sorgente e misura della ricchezza capitalistica.

Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato “forza produttiva immediata” e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso. (13)

Il contributo particolare del capitale a tale situazione reale consiste soltanto nel fatto che

esso moltiplica il tempo di lavoro suplementare della massa con tutti i mezzi della tecnica e della scienza, perché la sua ricchezza e fatta direttamente di appropriazione di tempo di lavoro supplementare. (14)

IV

Il modello marxiano dell'accumulazione rappresenta un sistema chiuso ed omogeneo, nel quale la crescente composizione organica del capitale comporta la caduta del profitto, quando sono raggiunti i limiti di estrazione del plusvalore. Se un paese altamente industrializzato come gli USA (l'analisi del quale sta alla base delle riflessioni di Baran e Sweezy) potesse essere considerato come un sistema chiuso, allora, secondo Marx, il suo saggio di profitto dovrebbe diminuire con la sua crescente composizione organica del capitale, a meno che tale processo non venga frenato da un saggio di plusvalore crescente, espresso in un'espansione accelerata del capitale. Gli USA però non sono affatto un sistema chiuso e perciò possono non soltanto rallentare la crescente composizione organica del capitale (magari mediante l'esportazione di capitale), ma anche elevare i loro profitti sul mercato mediante l’importazione di profitti dall’estero. Tuttavia, l’esportazione di capitali non ha potuto impedire sostanzialmente la crescente composizione organica del capitale, per cui le importazioni di profitto finora non sono state sufficientemente grandi per spiegare l'apparente “saturazione di profitto” dell'America. Causa della crescente produzione è, in prima istanza, la produttività del lavoro.

Considerando però il mondo come un tutto, si tocca con mano che esso soffra non di eccedenza, bensì di penuria. Il potenziale surplus del capitale monopolistico viene più che bilanciato dalla mancanza effettiva di tutto nei paesi poveri di capitali. La sovrapproduzione di capitale in una parte del mondo si contrappone alla sottocapitalizzazione esistente nell’altra. Se consideriamo il capitalismo nel suo complesso, come un sistema di mercato mondiale, il surplus scompare e al suo posto troviamo una grande carenza di plusvalore.

Naturalmente per il capitalismo nella sua totalità la composizione organica non è sufficientemente alta per generare un saggio di profitto che escluda un'ulteriore rapida espansione del capitale; ma il processo di accumulazione è nello stesso tempo un processo di concentrazione del capitale, per cui, come avviene per il capitale di ogni singolo paese che cerca di concentrarsi nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone, così il capitale mondiale si concentra in pochi paesi. Infatti, ciò che conta è soltanto l'espansione di valore del capitale esistente, non la sua dilatazione spaziale, la quale invero si effettua solo in quanto incrementa l’espansione di valore del capitale concentrato e dominante. In tal senso la monopolizzazione divide il mondo in diversi sistemi nazionali a seconda della differente composizione organica del capitale. Se il capitalismo potesse espandersi universalmente, se il processo di accumulazione non fosse al tempo stesso un processo di accumulazione di capitale, lo stesso potenziale surplus di alcuni pochi paesi ad alto sviluppo industriale basterebbe appena come surplus attuale a soddisfare i bisogni di capitalizzazione del capitalismo mondiale. La contraddizione della produzione capitalistica erigerà certo per molto tempo delle barriere alla sua espansione, prima che i limiti astratti posti dalla teoria marxiana dello sviluppo capitalistico si approssimino in qualche modo alla realtà concreta.

Marx profetizzò che il capitalismo, dopo aver una buona volta sviluppato rapidamente le forze produttive sociali, si vedrebbe costretto a incatenarle e che la sua ulteriore esistenza richiederebbe non soltanto periodi di crisi e di ristagno, ma la stessa distruzione del capitale. L'incapacità del capitalismo a soddisfare le esigenze di capitalizzazione della produzione mondiale risulta chiaramente dal surplus potenziale esistente nei paesi altamente capitalizzati e dalla crescente miseria del resto del mondo. Nell'ottica del mercato questa incapacità appare come problema di realizzazione del profitto. Mentre il capitale monopolistico non può vendere ciò che potrebbe produrre, il resto del mondo non può comprare, a causa della carenza di plusvalore, essendo le sue forze produttive assai poco sviluppate. Ciò che in una parte del mondo appare come problema di realizzazione del profitto, nell'altra è il problema della produzione di profitto. Se tuttavia consideriamo il sistema come un tutto, la responsabilità del suo lento saggio di espansione spetta ad una generale mancanza di plusvalore.

In linea di principio pare che sia così in ogni singolo paese capitalistico. La crescente sottoccupazione delle risorse produttive conseguente alla mancanza di redditività non può far altro che incrementare la carenza di profitti riguardo ai bisogni dell'accumulazione capitalistica. Per quel che le risorse inutilizzate rappresentano capitale costante, esse perdono mediante il disuso il loro carattere di capitale, cioè esse non funzionano come capitale producente plusvalore. Nella misura in cui il capitale perde il suo carattere di capitale, ne risulta pregiudicata la redditività del capitale complessivo (qualunque essa sia) e il plusvalore, per grande che sia, diventa inferiore a quanto sarebbe nel caso di un'utilizzazione piena della capacità produttiva.

Secondo Baran e Sweezy tuttavia, il capitale monopolistico ha la tendenza a generare quantità sempre maggiori di surplus, esso non riesce a creare gli sbocchi di consumo e di investimento necessari per assorbirle e quindi per assicurare il regolare funzionamento del sistema (p. 92). Che cos'è che rende il capitale monopolistico così straordinariamente redditizio? Costi più bassi e profitti più alti, rispondono Baran e Sweezy. Ovviamente, tale risposta era giusta durante tutto lo sviluppo capitalistico ed è una spiegazione di questo stesso sviluppo. Per Baran e Sweezy però esiste una differenza a proposito del capitale monopolistico, il quale non riceve i prezzi, come accadeva un tempo al capitalismo concorrenziale, ma fa i prezzi; per questo nel capitalismo monopolistico per la natura delle politiche dei prezzi e dei costi delle società per azioni giganti, il surplus complessivo ha una forte e sistematica tendenza ad aumentare (p. 68). In breve, il surplus viene ammassato soltanto mediante prezzi amministrati, cioè mantenendoli alti artificialmente, mentre nello stesso tempo i costi vengono diminuiti.

In un punto dell'esposizione di Baran e Sweezy si dice che un surplus sorge perché la capacità di produzione economica cresce troppo velocemente, facendolo adesso risalire alla concorrenza imperfetta che si verifica in condizioni di monopolio. Grazie alla crescente produttività e al potere di fissare i propri prezzi il capitale monopolistico riesce ad assicurarsi e ad ingrandire i propri profitti anche in condizioni di relativo ristagno. Infatti, essendo nel complesso l'apparato produttivo esistente fin troppo idoneo soltanto a provvedere ad una data domanda effettiva, non occorre fare nuovi sostanziali investimenti di capitale. I tassi di ammortamento sono ampiamente sufficienti a finanziare le innovazioni tecniche e le integrazioni dell'apparato produttivo, che con un saggio lento di espansione effettiva basta a garantire un prodotto sociale crescente e perfino un incremento ancora più rapido dei profitti. Mentre aumentano produzione, produttività e profitti, diminuisce il saggio di investimento. In breve, la capacità di produrre un crescente surplus riduce l'accumulazione di capitale. Tuttavia, nel sistema capitalistico la crescita della produzione e della produttività ha un “senso” solo quando essa ingrandisce il capitale esistente. In quanto il plusvalore non viene consumato, esso deve diventare capitale addizionale. La crescita della produzione non avrebbe senso, se diminuisse saggio di accumulazione. Rispetto alla produzione, il saggio di accumulazione è il fattore determinante non quello determinato. La ragione più profonda che motiva l'espansione o contrazione del sistema economico risiede nel rapporto tra capitale e lavoro ovvero tra profitto e salario, non nella capacità tecnica di produzione. Avendo in dispregio questo fondamentale rapporto sociale, Baran e Sweezy rendono possibile ciò che nel capitalismo è l’impossibile: congiungono un crescente surplus con un saggio decrescente di accumulazione.

Ciò riesce loro tuttavia solamente in quanto hanno fatto propria l'illusione predominante che i trasferimenti di reddito e le spese possano essere considerate come reddito fin quando vengano attivati dallo Stato. Essi fanno persino un passo ancora oltre, estendendo quest'idea singolare al capitale privato; essi non soltanto assicurano che i profitti monopolistici abbiano elevato il surplus sociale, ma svelano anche un metodo per accumulare capitale mediante la pubblicità. Per quanto riguarda i profitti monopolistici messi al coperto mediante manipolazioni di prezzo, dovrebbe essere chiaro che essi possono essere ottenuti soltanto perché una corrispondente perdita di profitto viene subita da parte del capitale non monopolistico. Indipendentemente dalla struttura del capitalismo c'è sempre un determinato ammontare di reddito nazionale e internazionale, dal quale scaturisce il plusvalore. Se il capitale monopolistico può attraverso le vendite ampliare la sua quota di partecipazione a questo ammontare complessivo molto al di sopra del profitto medio, ebbene può farlo solo a spese del capitale che non si trova nelle sue stesse condizioni; ne consegue che questo debba ripartire fra sé una quota proporzionalmente più bassa del reddito complessivo spettante al capitale complessivo.

I profitti monopolistici ribassano i saggi medi di profitto formatisi attraverso la concorrenza e portano quindi al progressivo calo della quantità di profitto trasferibile al capitale monopolistico. A lunga scadenza l'estrazione di profitti monopolistici si rivela essere un processo autodistruttivo, che deve per forza produrre degli effetti negativi sul saggio di profitto nel capitalismo concorrenziale e in quello monopolistico. Soltanto in condizioni di una espansione rapida del capitale sarebbe possibile mantenere intatti i profitti monopolistici senza nel contempo abbassare i saggi assoluti di profitto del capitale concorrenziale. Le condizioni di ristagno, nelle quali lavora il capitale monopolistico di Baran e Sweezy, escludono questa possibilità.

V

Se il capitale monopolistico, stando a Baran e Sweezy, ha la tendenza a generare quantità sempre maggiori di surplus, allora perché mai dovrebbe attenersi ancora a una politica dei prezzi tesa a ridurre i profitti del capitale concorrenziale? Ma, certo, gli autori dicono altresì che il capitale monopolistico non genera realmente un surplus, perché prima di ottenere un surplus sospende la produzione, come appare chiaramente dalle crescenti risorse inutilizzate. Ora, pur non essendoci affatto alcun surplus, si scatena una concorrenza accanita per la realizzazione del surplus che in questo caso, in base al carattere monopolistico del capitale, viene condotta più ricorrendo a metodi di promozione delle vendite che mediante il taglio dei prezzi. Benché non ci sia un surplus reale, ma soltanto potenziale, tuttavia il fondamento razionale del capitale si lascia derivare

dal semplice fatto che l'opposto del "troppo" dal lato dell'offerta è il "troppo poco" dal lato della domanda; invece di ridurre l'offerta, esse mirano a stimolare la domanda.

p. 93

Secondo Baran e Sweezy, la promozione delle vendite è concettualmente identica “alle spese di circolazione di Marx”, solo che

nell'epoca del capitalismo monopolistico essa è venuta a svolgere una funzione quantitativa e qualitativa di gran lunga più importante di quanto Marx avesse mai sognato.

p.98

La promozione delle vendite -- continuano i nostri autori -- risulta un potente antidoto contro la tendenza a sprofondare in uno stato di cronica depressione propria del capitalismo monopolistico,

p. 112

[... giacché tale promozione] assorbe, direttamente o indirettamente, un grande volume di surplus che altrimenti non sarebbe prodotto.

p. 121

Mediante l'incremento della domanda effettiva la pubblicità innalza il livello di reddito e di occupazione, per cui

l'effetto diretto della promozione delle vendite sulla struttura del reddito e della produzione del sistema è analogo a quello della spesa statale finanziata con le entrate fiscali.

p. 107

[In definitiva] quanto alle occasioni di investimento, la pubblicità esplica una funzione analoga a quella tradizionalmente assegnata alle innovazioni. Permettendo di creare la domanda di un prodotto, la pubblicità incoraggia l'investimento in impianti e attrezzature che altrimenti non si farebbero.

p. 108

Secondo questa teoria la pubblicità assolve una serie di compiti contraddittori: mentre è una spesa di circolazione, crea anche reddito, come pure, mentre assorbe una parte del surplus, va poi ad ampliare questo surplus con lo stimolare nuovi investimenti Che tutta una serie di persone viva delle vendite e della pubblicità, è un fatto ben palese a tutti, come lo è pure il fatto che altri perdano una parte del loro reddito in quanto costretti a pagare prezzi più alti, i quali includono le spese di pubblicità. È sempre stato così, ma secondo Baran e Sweezy l'allargamento quantitativo avutosi sotto il capitale monopolistico comporta una differenza qualitativa, vale a dire che quando la spesa è abbastanza grande, diventa una forma di reddito aggiuntivo. Siccome le esortazioni incrementano il consumo, il consumo elevato sfocia nella crescita della produzione e degli investimenti. S'intende da sé come ciò non sia nient'altro se non la crescente “propensione al consumo” di Keynes quale possibile strumento a disposizione di una produzione che si espande nelle condizioni di un calo degli investimenti. Mentre però la proposta di Keynes irrealizzabile nel capitalismo si riferisce al prodotto sociale complessivo, Baran e Sweezy la pongono in relazione soltanto con il surplus, cioè con una parte, della produzione sociale che spetta ai capitalisti.

La pubblicità compenetra l'intero mercato e non soltanto quella parte che sta a cuore al consumo capitalistico. Benché, stando a Baran e Sweezy, vada eliminato soltanto il surplus, la pubblicità impone a tutti maggiori, spese. Per grande che , sia, il surplús esiste perché i costi di produzione, e cioè il redditto degli operai, rimangono bassi in rapporto al surplus. Per avere questo “surplus” occorrono costi di produzione proporzionalmente bassi e quindi non sarebbe sufficiente elevare la “propensione al consumo” mediante salari più alti. Finché non viene spremuto dagli operai, non si dà nessun surplus, ma per diventare surplus in generale, deve prima essere realizzato sul mercato. Qualora non venga realizzato, ne deriva soltanto una perdita. I capitalisti non intensificano i loro sforzi di vendita per sbarazzarsi del surplus, ma per evitare dei deficit. Quando non tutte le merci prodotte riescono a trasformarsi in denaro, non è possibile realizzare quei profitti che dipendono dalla parte di produzione spettante ai capitalisti. Non è un surplus crescente a porre con tale forza in evidenza lo sforzo di vendere, bensì la situazione del mercato nel suo complesso, che è determinata dal saggio decrescente di accumulazione.

La pubblicità può “creare” soltanto pubblicità. Per quanto possano essere stati reclamizzati in tal senso, i nuovi prodotti che cercano di imporre nuovi bisogni non sono affatto pubblicità. Il fatto di suscitare incessantemente nuovi desideri è un segno che caratterizza l'economia di mercato e insieme una ragione che motiva la sua espansione e il suo allargamento. La pubblicità come tale non può incrementare la « domandi effettiva » né elevare, attraverso questa domanda, la produzione. Per rimanere competitivo, il capitale deve non soltanto accumulare, ma anche conservare il suo valore di capitale. I capitalisti non possono divorare tutti i profitti, perché in tal caso subito non sarebbero più capitalisti. La pubblicità non può influire su questo impellente bisogno di accumulare e l'accumulazione determina la domanda effettiva relativa ai beni di consumo. Nessuna pubblicità potrebbe elevare la domanda effettiva oggettivamente determinata, benché questa possa essere influenzata da quella e lasciarsi convogliare su un prodotto piuttosto che su un altro oppure lasciarsi dirigere verso l'uno o l'altro venditore di beni identici. La pubblicità può influire sulla ripartizione del plusvalore disponibile, ma non contribuire alla sua grandezza, giacché essa stessa è soltanto parte del plusvalore complessivo disponibile.

La singolare argomentazione Baran e Sweezy per quanto riguarda la pubblicità sí basa sull'illusione che la produzione fuori dagli stessi limiti posti al capitale monopolistico, cioè una produzione che non si effettuerebbe senza, pubblicità e acquisti pubblici, potrebbe veramente trar vantaggio dal capitale monopolistico con la creazione di redditi e di occupazione per tutta la società. C'è quindi un surplus crescente che non termina necessariamente in una stagnazione prolungata e la piena occupazione si congiunge, tramite le agenzie pubblicitarie e gli organi governativi, con un assorbimento del surplus.

Baran e Sweezy trovano deplorevole solamente l'impiego irrazionale che spreca la maggior parte di questo surplus in quelle due istanze.

Il surplus chiaramente evidente nella “società opulenta” non è quindi prodotto dal capitale monopolistico, ma è sorto nonostante quello, in quanto, secondo Baran e Sweezy, viene creato dagli acquisti pubblici, che incrementando la domanda effettiva impediscono le crisi. Il pericolo della crisi viene eliminato dall' “enorme capacità di generare sprechi pubblici e privati” (p. 5). Ora però sperperare il surplus è una possibilità di assorbirlo e siccome la produzione di sprechi non conosce limiti, non c'è neanche bisogno che sorga un surplus e quindi un problema di utilizzazione del surplus. Anzitutto perché, stando a Baran e Sweezy, lo sperpero non riduce í profitti del capitale monopolistico, giacché rappresenta la parte del surplus eccedente quella realizzata come profitto. Come la promozione delle vendite assorbe un grande volume di surplus “che altrimenti non sarebbe prodotto”, così “lo Stato esplica una funzione analoga ma su scala maggiore” (p. 121). Se le risorse inutilizzate fossero messe in opera, produrrebbero

non soltanto mezzi di sussistenza necessari per i produttori, ma anche quantità addizionali di surplus. Pertanto lo Stato, creando ulteriore domanda effettiva, può accrescere la sua disponibilità di beni e servizi senza toccare i redditi dei suoi cittadini.

p. 122

Trattando il plusvalore come forse surplus, Baran e Sweezy riescono a considerare il capitalismo come se non fosse capitalismo:

L'ammontare del surplus è un indice della produttività e della ricchezza di una società, della libertà di cui dispone per conseguire quegli obiettivi che essa voglia proporsi.

p. 10

Ciò significa esaminare una società in astratto, non come società particolare, e comunque essa non viene analizzata come società capitalistica, giacché, in quest'ultima, i mezzi di produzione appartengono ad una classe particolare, non allo Stato o ai cittadini. Anche nella loro inutilizzabilità le risorse inutilizzate permangono un possesso capitalistico. Se non fossero confiscate, esse potrebbero essere acquistate dal governo soltanto mediante atti di compravendita; ma il denaro utilizzato per queste transazioni non può che essere sottratto al capitale privato tramite tasse o prestiti. Una produzione stimolata dallo Stato e finanziata i tal modo non incrementa la quantità di beni commerciabili, per cui non può trasformarsi in valore di scambio e quindi neanche in plusvalore. Per quanta occupazione e reddito possa creare la produzione stimolata dallo Stato, il suo prodotto finale - espresso magari in cose di pubblica utilità o no - non è un prodotto commerciabile, mentre invece nella società capitalistica il reddito reale deve essere realizzato attraverso la circolazione delle merci. Elevando la quantità complessiva di lavoro e di prodotti l'ammontare del plusvalore non ne risulta accresciuto, per cui la produzione statale rappresenta una perdita piuttosto che un guadagno. Questa perdita è analoga a quella che compare in casi di sovrapproduzione, quando una parte delle merci prodotte non può essere trasformata in denaro.

Baran e Sweezy sono dell'avviso che

le rilevanti e crescenti quantità di surplus assorbite dallo Stato negli ultimi decenni (...) non rappresentano deduzioni da ciò che sarebbe altrimenti disponibile alle imprese e alle persone per i loro scopi privati.

p. 125

Tuttavia, gli stessi autori hanno mostrato come la porzione del surplus normalmente designata come plusvalore sia rapidamente diminuita dal 1929 al 1963. Mentre nel 1929 il reddito da proprietà ammontava al 57,5 per cento del surplus complessivo, nell'anno 1963 era soltanto 31,9 per cento. Secondo queste statistiche il surplus assorbito dallo stato crebbe più velocemente di quello toccato al reddito da proprietà. Ciò significa che la riduzione del plusvalore ha qualcosa a che fare con la crescita delle spese statali ovvero, per usare la terminologia cara a Baran e Sweezy, con l'assorbimento del surplus ad opera dello Stato.

Onde evitare malintesi: Baran e Sweezy sono dell'opinione che questo reddito da proprietà non sarebbe stato in nessun modo più grande senza la produzione incentivata dallo Stato. Con tutta probabilità questo è vero, giacché la produzione incentivata dallo Stato arriva a compensare il calo della produzione privata, al fine di attenuare le conseguenze sociali connesse a crisi di lunga durata. Questo però non cambia minimamente il dato di fatto che l'impiego di risorse produttive operato dallo Stato è l'impiego di risorse produttive private. Siccome lo Stato può dare in cambia solamente il denaro sottratto all'economia pubblica, l'impiego di risorse produttive private operato dallo stato corrisponde - per quanto riguarda il capitale privato - alla loro non-valorizzazione nella loro condizione precedente di inutilizzabilità. È vero che gli acquisti pubblici incrementano di fatto la produzione in generale, giacché i prodotti finali non commerciabili richiedono settori di produzione intermedi, come ad esempio la produzione di materiale grezzo, i bisogni di consumo dell'accresciuta occupazione nonché i necessari completamenti e cambiamenti della macchina produttiva; però tutti questi prodotti appartengono ai costi di produzione, che non coincidono con i prezzi di vendita sul mercato, giacché, tranne poche eccezioni, i beni prodotti per lo stato esorbitano dal sistema di mercato. Una parte della produzione complessiva quindi non è più produzione capitalistica e con la crescita relativamente più rapida di questa parte non redditizia della produzione complessiva la parte remunerativa, a sua volta in progressiva diminuzione, può soltanto aumentare le difficoltà che opprimono il processo dell'accumulazione capitalistica.

VI

Tuttavia, Baran e Sweezy sono fermamente convinti che l'assorbimento statale del surplus viene aggiunto e non detratto ai surplus privato.

Inoltre, poiché la spesa pubblica su larga scala consente all'economia di funzionare a un livello molto più prossimo alla piena capacità, l'effetto netto sul volume del surplus privato è ampio e positivo.

pp. 126-127

Tutto lascia credere che sia così; ciò però non appare nel saggio di espansione del capitale, ma solo nell'ampiezza del prodotto nazionale lordo, una parte sempre più grande del quale non è più redditizia. Questo fatto viene occultato dal velo monetario che copre la produzione capitalistica e il suo scambio e bisogna dire che tale velo riesce benissimo nel suo intento se perfino i critici del capitale monopolistico si lasciano abbindolare dalla sua trappola.

Se la parte che lo Stato preleva non sarebbe altrimenti prodotta, non si può dire che sia tolta a qualcuno. La spesa e l'imposizione pubblica, che una volta erano soprattutto meccanismi che 'trasferivano reddito, sono in larga misura diventati meccanismi che creano reddito riportando nella produzione il capitale e il lavoro che sono inutilizzati. [... Attraverso questi “nuovi meccanismi” si arriva al punto che] il prelievo da parte dello Stato sotto forma di imposte si aggiunge, non si toglie al surplus privato.

pp. 127-128; p. 126

Lo Stato però non è riuscito a persuadere i capitalisti che sia veramente così, tanto è vero che il capitale rimane pur contrario all'aumento delle imposte e alla crescita del debito pubblico, perché questo nuoce ai propri bisogni di redditività e di accumulazione.

Che cosa fa realmente lo stato quando congiunge il lavoro e le risorse inutilizzate per produrre beni non commerciabili? Le imposte sono una parte del reddito realizzato nelle transazioni di mercato; quando esse vengono sottratte al capitale, ne diminuiscono il profitto, se questi profitti fossero stati allora consumati oppure reinvestiti in capitale addizionale. Se ciò non fosse avvenuto, esisterebbe capitale inutilizzato nella sua forma monetaria come tesoro; in questa proprietà non può però lavorare in maniera capitalistica e tanto meno lo può fare quando viene utilizzato dallo Stato a finanziare una produzione non remunerativa di servizi pubblici e di spreco statale. Al posto di un tesoro capitalisticamente insignificante subentra poi una produzione, capitalisticamente insignificante, di beni e di prestazioni di servizi: Si dà tuttavia una differenza: mentre il capitale senza tassazione possiederebbe un tesoro monetario, con la tassazione a scopo di spesa pubblica è di fatto espropriato di tale tesoro altrimenti possibile.

Se le imposte vengono adoperate per acquisti statali rifluiscono ancora una volta nelle mani dei capitalisti in forme di commesse governative. La produzione risultante da questi contratti viene pagata dai capitalisti con le loro imposte; ma i capitalisti recuperano il loro denaro tramite le commesse governative e forniscono il governo di una corrispondente quantità di prodotti. Lo stato espropria il capitale di questa quantità di prodotti, la cui grandezza determina la misura in cui la produzione non è più produzione di capitale; l'accrescersi della produzione mediante tassazione è un segno del regresso del sistema capitalistico quale sistema di imprenditorialità privata orientata al profitto. Non soltanto questo tipo di produzione non è redditizio ma in tanto è possibile in quanto c'è quella parte della produzione complessiva che ancora lavora con tassi di redditività sufficienti a generare imposte sufficientemente elevate da ampliare la produzione statale con l'aiuto della tassazione. Con una redditività decrescente diventa sempre più difficile estendere la produzione in questa maniera particolare.

Tuttavia lo Stato può farsi prestare mezzi supplementari, i quali pure rifluiscono nelle mani dei capitalisti come pagamento per la produzione limitata dall'intervento statale. Le spese della produzione incentivata dallo Stato si sommano in parte a formare il debito pubblico, la cui crescita viene considerata completamente inoffensiva finché il prodotto sociale aumenta più rapidamente dei debiti. Di solito, in questo caso, il crescente debito pubblico viene confrontato con il crescente reddito nazionale, per sostenere che il “deficit spendine” aumenta insieme con il crescere del prodotto sociale. Questa tesi però si basa su un singolare calcolo, giacché i crescenti debiti pubblici non possono in realtà essere riferiti al prodotto sociale complessivo, ma soltanto a quella parte dell'importo complessivo che è stata condotta nell'economia del governo. Computando una spesa come reddito, si forma l'illusione che basti l'incremento del prodotto sociale a neutralizzare la crescita del debito pubblico.

Se il debito pubblico non viene identificato col reddito aggiuntivo nel settore privato dell'economia, cioè con il “”reddito addizionale indipendente da quello dell'economia a conduzione statale””, il “reddito” scaturito da quest'ultima procedura rimane, rispetto al capitale, solamente una spesa pubblica. Questa “spesa” consiste nella utilizzazione statale di risorse produttive private per scopi non remunerativi: si tratta di una parziale “espropriazione” del capitale, benché il capitale “espropriato” con le proprie forze non potesse più lavorare in maniera capitalistica. Questo però non impedisce ai capitalisti di esigere dallo Stato il risarcimento per l'usufrutto delle loro risorse produttive. La possibilità di estinzione del debito pubblico dipende dalla redditività futura del capitale privato, se questa redditività non si materializza realmente il debito non può essere riscattato, per cui il reddito addizionale di oggi diventa la perdita di reddito di domani. Si tratta, per così dire, di contare i pulcini prima che vengano covati e, data la caduta tendenziale del saggio di profitto nel quadro dell'espansione difficilmente ci saranno pulcini.

È ovvio che attualmente la produzione incentivata dallo Stato faccia crescere redditi e occupazione con maggior intensità di quanto non sarebbe se un tale intervento non ci fosse stato. C'è più produzione quand'anche sia per la massima parte produzione di sperperi, una porzione della quale viene considerata come surplus da Baran e Sweezy. Ma questo surplus non contiene alcun plusvalore, consistendo esso anzi una spesa inevitabile della produzione di plusvalore.

Data l'incapacità del capitalismo monopolistico di trovare impieghi privati al surplus che esso può facilmente creare, è senza dubbio nell'interesse di tutte le classi - anche se non di tutti i loro singoli componenti - che lo Stato aumenti continuamente la propria spesa e la propria imposizione.

p. 128

Se questo fosse vero, non soltanto ne risulterebbe ovviamente intensificata la produzione di sprechi, ma verrebbe altresì, lentamente ma sicuramente, distrutto il sistema dell'imprenditorialità privata. È necessario anzitutto limitare le spese pubbliche alla produzione e prestazione di servizi che non stiano in concorrenza con quelli del capitale privato, poiché altrimenti essi farebbero diminuire la domanda effettiva nel settore privato dell'economia nella stessa misura in cui la produzione incentivata dallo Stato incrementi la domanda effettiva. Per non distruggere il capitale privato, bisogna limitare la produzione incentivata dallo Stato alla produzione non redditizia. In secondo luogo occorre mantenere bassa la proporzione tra la produzione incentivata dallo Stato e la produzione complessiva, per non spogliare troppe risorse di capitale del loro carattere di capitale e lasciargli essere quindi il mezzo di produzione che crea profitto. In sintesi il mantenimento del sistema imprenditoriale privato pone dei limiti chiari allo sviluppo della produzione statale.

Baran e Sweezy però nutrono a questo proposito un diverso avviso: anche la classe dominante americana avrebbe fatto subire “un cambiamento di fondo” al “suo atteggiamento verso le imposte e la spesa pubblica”. Per il grande imprenditore moderno

la spesa pubblica significa maggiore domanda effettiva, ed egli comprende di poter scaricare la maggior parte delle imposte relative o in avanti sui consumatori o all'indietro sui lavoratori.

p. 127

Egli non si limita a “comprendere”, ma lo fa realmente Ciò può significare soltanto che egli fa abbassare la domanda effettiva elevando i prezzi, mentre mette al sicuro i propri profitti. Mediante questo modo di fare però, una parte della spesa pubblica viene ripartita su tutta quanta la società. Mentre una parte delle spese della produzione statale si ammassa in qualità di debito pubblico, l'altra parte viene continuamente distribuita su tutta l'economia che con l'inflazione la paga a prezzi più elevati.

Qualora l'uomo d'affari manifesti un atteggiamento positivo verso la spesa pubblica, a spingerlo in tal senso sono i bisogni di profitto della sua particolare zona di affari. Perché egli dovrebbe comprendere l'economia capitalistica meglio di Baran e Sweezy, i quali - pur indagando l'economia nel suo complesso e non un suo ambito specifico - arrivano alla conclusione che la Spesa pubblica risolverebbe i problemi economici del capitalismo e di tutte le sue classi? Mentre però l'uomo d'affari può addurre a sua giustificazione almeno una branca di attività florida, non altrettanto possono fare Baran e Sweezy, giacché la “prosperità” creata dalla spesa pubblica è una falsa prosperità che potrà si dilazionare le crisi ma non sopprimerle.

Il singolo uomo d'affari non ha niente a che fare con la natura effettiva, per la quale egli produce; per lui è indifferente se essa sia finanziata dalla parte privata o da quella statale. Allo stesso modo per i finanzieri non ha alcuna importanza se i crediti vengano dati ad un'impresa privata oppure allo Stato, purché siano “sicuri” e fruttino il tasso cli interesse desiderato. Inoltre per il singolo conta poco l'essere occupato per produrre sprechi oppure per produrre beni commerciabili; nella pratica non si fa nessuna differenza tra il settore dell'economia pubblica e quello dell'economia privata: in entrambi tutte le transazioni sono transazioni monetarie. Dal punto di vista monetario, la produzione di sprechi è altrettanto lucrosa, se non addirittura più lucrosa della produzione di merci, e l'accumulazione del debito pubblico appare, fino alla sua abrogazione definitiva come accumulazione di capitale. Tuttavia, se consideriamo la società nella sua totalità, soltanto il settore privato genera plusvalore e profitto. Tutti gli strati sociali che vivono del plusvalore come pure l'espansione del capitale come capitale dipendono da questo plusvalore, il quale può essere sì incrementato dalla crescente produttività del lavoro, ma nello stesso tempo diminuisce perché il settore non remunerativo dell'economia cresce ad un ritmo proporzionalmente più veloce di quello redditizio.

Naturalmente è impossibile non ammettere che in alcuni paesi e per un tempo considerevole il capitale abbia potuto impedire la genesi di depressioni come quelle che funestarono il mondo prima del secondo conflitto mondiale e che ovviamente, ciò è stato possibile grazie agli interventi statali nell'economia. Per questo è importante esaminare se questi interventi abbiano in realtà tolto vigore alle leggi dello sviluppo capitalistico spiegate da Marx. Imprese simili a quella di Baran e Sweezy sono pienamente giustificate, solo che navigano sotto una bandiera falsa quando accampano la pretesa di avvalersi dello stesso “potente metodo analitico” di Marx: è appunto questo ciò che non fanno. Il metodo marxiano potrà forse aver perso il suo significato in base ai mutamenti che il capitale monopolistico e le intromissioni statali nell'economia hanno provocato, ma qui le pure e semplici apparenze fuorviano e non basterebbero in nessun caso a confutare la teoria marxiana delle leggi immanenti all'accumulazione del capitale.

I mutamenti del sistema capitalistico potrebbero egualmente bene essere interpretati come reazioni politiche a processi economici incontrollabili, che come altre “controtendenze” possono opporsi alla tendenza generale dominante dell'espansione del capitale e mantenere quindi per un certo tempo l'equilibrio sociale mediante una pseudo-prosperità basata sulla produzione di sprechi.

Se le spese militari fossero nuovamente riportate alle proporzioni che avevano anteriormente alla seconda guerra mondiale l'economia nazionale ritornerebbe nelle condizioni di profonda depressione...

p. 130

constatano giustamente Baran e Sweey in altre parole: l'economia si trova ancora in uno stato di depressione che viene combattuta a colpi di spese, le quali neanche con la migliore volontà di questo mondo possono essere qualificate come accumulazione di capitale. Ora però, senza l'accumulazione di capitale il sistema capitalistico può soltanto contrarsi, e questo tanto più rapidamente quanto più cresce la parte non redditizia della produzione.

Finché tutto il capitale non verrà statalizzato e assoggettato a scopi diversi da quelli del capitalismo privato, gli interventi statali nell'economia saranno fatalmente limitati dalla necessità di garantire la redditività del capitale privato dominante e, una volta che tali fossero raggiunti, quegli interventi non potranno più contrastare una crisi del capitalismo.

1967

(1) Tutti i numeri delle pagine posti tra parentesi nel testo si riferiscono all'edizione italiana del libro di P. BARAN - P.A. SWEEZY, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana, Torino, Einaudi, 1968.

(2) K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1968, v. II, p. 334.

(3) K. MARX, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 1970, libro III, sez. 3, cap. 13, v. I, p. 273.

(4) Ibidem.

(5) Ivi, p. 269.

(6) Ivi, p. 274.

(7) Ivi, sez. 3, cap. 15, p. 303.

(8) Ibidem.

(9) Ivi, sez. 7, cap. 51, v. III, p. 297.

(10) K. MARx-F. ENGELS, Lettere sul Capitale, Bari, Laterza, 1971, a cura di Giuseppe Bedeschi, p. 80.

(11) K. MARX, Lineamenti fondamentali..., cit., v. M p. 460.

(12) K. MARx, Il capitale, cit., lib. I, cap. 23, v. III, p. 60.

(13) K. MARX, Lineamenti fondamentali..., cit., v. II, p. 403.

(14) Ivi, P. 405.

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Testi di autori che, pur non appartenendo alla nostra corrente e mostrando rispetto ad essa divergenze politiche anche marcate, tuttavia riteniamo abbiano dato un contributo significativo alla critica classista di questa società.