Una riedizione del Gramsci nazionale

Cultura e rivoluzione

Buona parte del libro è quindi dedicata all'infanzia, all'adolescenza, agli studi, ecc. di Gramsci, e non mancano particolari interessanti, in quanto possono essere utilizzati alla comprensione della sua formazione culturale e politica - e cioè vengono, per noi, a confermare con documenti incontestabili tutta una serie di impressioni che si ricevono dalla lettura dei suoi scritti: ed essenzialmente, la sua scarsa conoscenza del marxismo (e con ciò non poniamo certo in discussione quanto di Marx, Engels e Lenin avesse Gramsci letto, ma piuttosto quanto avesse compreso), la formazione crociana - importante in modo particolare il rapporto di Croce con Labriola ed il tentativo del primo di riduzione del materialismo dialettico a “somma di nuovi dati, di nuove esperienze, da entrare nella coscienza dello storico”, per cui egli quindi nega al marxismo ogni carattere di scientificità, e, così ridotto, lo “ingloba” come elemento della sua filosofia.

Si tenga poi conto che Croce sottolineò e diffuse le deviazioni dei leaders della seconda Internazionale, ponendo in luce l'elemento volontaristico-pratico sorelliano contro Labriola, e quindi introducendo per primo in Italia la revisione del marxismo, decretandone anzi la morte come “concezione del mondo” e la relativa sopravvivenza come provvisorio-operativo “canone” tecnico, poi, sempre più involvendosi, sostituendovi - ormai nel campo del puro idealismo, - una filosofia che si pone come sintesi della cultura del proprio tempo. E Gramsci lo prese tanto seriamente, da pensare, parodiando Marx e Engels e ritraducendo il tutto in un linguaggio "nostrano", alla necessità di scrivere ed operare un Anticroce, decretando contemporaneamente il proletariato italiano erede della filosofia crociana.

E Gramsci nazionalista lo è sempre stato (prendendo naturalmente l'espressione con le dovute pinze), attaccato alla realtà italiana, o piuttosto vedendo praticamente essa sola, e quindi trascurando l'importanza della visione necessariamente internazionalista dell'esistenza sia del capitale che del proletariato, e la conseguente non-risolvibilità della rivoluzione se non sul piano dell'internazionalismo. Sardista prima, nazionalista poi, non valicò mai le Alpi con la mente, anche se lo fece coi piedi.

Il Gramsci regionalista, della parola d'ordine a mare i continentali”, avverso al socialismo misuratore di crani (ma che, diciamolo una buona volta, non era solo questo, ed i suoi limiti di positivismo andavano criticati in nome del materialismo dialettico e non in nome dello spirito, della cultura, della volontà), attento lettore e simpatizzante del “socialismo contadino” salveminiano, non dimenticherà mai la sua formazione. Quando parlerà di folklore, di feudalesimo o medioevalismo - permanente nelle masse a livello ideologico - ritornerà, nella stessa maturità, da un lato il suo elemento di aristocraticismo intellettuale, dall'altro l'aver presente una realtà ed un retaggio di miseria e sottosviluppo economico (quindi necessariamente anche di cultura e di coscienza) che non verranno legati dialetticamente alla realtà industriale e proletaria (caso mai mitologizzata) come risolvibili solo sul piano dell'organizzazione e della lotta di classe.

Nel 1916 scriverà sul Grido:

“L'uomo è soprattutto spirito, cioè creazione storica, e non natura. Non si spiegherebbe altrimenti il perché, essendo sempre esistiti sfruttati e sfruttatori, creatori di ricchezza e consumatori egoistici di essa, non si sia ancora realizzato il socialismo. Gli è che solo a grado a grado, a strato a strato, l'umanità ha acquistato coscienza del proprio valore... E questa coscienza si è formata non sotto il pungolo brutale delle necessità fisiologiche, ma per la riflessione intelligente, prima di alcuni e poi di tutta una classe, sulle ragioni di certi fatti e sui mezzi migliori per convertirli da occasione di vassallaggio in segnacolo di ribellione e di ricostruzione sociale. Ciò vuol dire che ogni rivoluzione è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale.”

Ecco il mirabile commento di Fiore:

“Il fine che ora il giovane redattore de Il Grido e dell'Avanti! si poneva era di irradiare la cultura senza la quale mai [il proletariato] avrebbe potuto prendere coscienza della sua funzione storica.” (pag. 121)

Ancora nel 1917, su La città futura Gramsci dichiarava Croce “il più grande pensatore d'Europa in questo momento” (pag. 124), e che “i socialisti non devono sostituire ordine ad ordine. Devono restaurare l'ordine in sé” (pag. 125). Forse l'ordine che il socialista Noske fece regnare due anni dopo a Berlino?

Prescindendo dall'interventismo della para-mussoliniana “neutralità attiva ed operante”, su cui il Fiore si esime disinvoltamente dal fornire una seria interpretazione, riportando solo qualche testo già ben noto, riteniamo importante mettere in rilievo le frasi succitate della Città futura da un lato per la loro data - l'anno della rivoluzione sovietica - e dall'altro per meglio evidenziare l'elemento fondamentalmente idealistico di un Gramsci già attivo nella vita politica. La sua tensione alla lotta è apertamente proclamata come tensione volontaristica, affermazione di sé: “vivere vuol dire essere partigiani” (pag. 125), e la sua formazione marxista nulla, se poteva scrivere il 24 novembre 1917 sull'Avanti! un editoriale col titolo La rivoluzione contro il “Capitale” (riportato or è poco sullo stesso giornale dai nenniani, quasi a conferma della “eterodossia” leninista, a norma della classica diagnosi menscevica) dove si sostiene che “il Capitale” di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari [monopolio, insomma, di Struve & C.]. Era la dimostrazione critica della fatale [per “marxisti legali”, menscevichi e sim.] necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'èra capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua stessa riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così ferrei come si potrebbe pensare e si è pensato... Se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del “Capitale”, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono marxisti,

“ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore, di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche.” (pag. 131)

Già qui è delineata la posteriore interpretazione di Lenin come “edificatore paolino” che, con demiurgico atto volontaristico, erige la nuova egemonia statale, la nuova “filosofia”, inverando appunto quel nucleo attivistico cui per Gramsci il pensiero di Marx (e non solo per la censura, ci sembra di poter dire) si riduce. Gramsci chiamò il materialismo dialettico “filosofia della prassi”, come fondatrice imprescindibile dell'ambiente storico e della realtà oggettiva medesima. Donde tuttora i neo-gramsciani si prodigano in conati cd atletismi virtuosistici per ridurre il materialismo dialettico a metodo nel cui filone si può inserire non solo il giovane Marx, ma anche Dewey, come appare dalle questioni e polemiche sorte con Preti (Praxis ed Empirismo, 1957), che arriva a parlare di metafisica per il materialismo dialettico, sostituendovi appunto la filosofia della prassi che tende alla costruzione della cultura democratica - per fermarci solo ad una forma raffinata di “reinterpretazione del marxismo”.

Nel 1919 Gramsci, con Tasca, Terracini e Togliatti fonda l'Ordine Nuovo, di cui egli stesso ammette: “fu un'antologia... rassegna di cultura astratta” (pag. 139). Ma quel che più importa, di Gramsci, e l'intenzione ed il fallimento, che si rivela nella critica a Tasca per avere respinto “la proposta di consacrare le comuni energie a scoprire una tradizione soviettistica nella classe operaia italiana” (ibidem). Questione di fondo, perché si concreta in questi anni l'atteggiamento politico del tutto particolare di Gramsci. La proposta dei Consigli è infatti estremamente chiarificatrice della sua posizione, perché in essi egli vede la prefigurazione della società socialista. È questo il modo in cui ritraduce l'esperienza della rivoluzione sovietica, e così interpreta le annotazioni di Marx e Lenin sulla Comune:

“Esiste un germe, una velleità, una timidezza [?!] di governo dei Soviet in Italia, a Torino?... Sì, esiste in Italia, a Torino, un germe di governo operaio, un germe di Soviet, è la commissione interna.”

E continua Fiore:

“l'idea centrale di Gramsci era che tutti gli operai, tutti gli impiegati, tutti i tecnici e poi tutti i contadini e in breve tutti gli elementi attivi della società dovessero diventare, fossero o no iscritti al sindacato e a qualunque partito appartenessero o anche non militassero in un partito, ma per il solo fatto di essere operai, contadini, ecc., da semplici esecutori, dirigenti del processo produttivo; da rotelle di un meccanismo regolato dal capitalismo, a soggetti; in sostanza, che gli organi democraticamente eletti dai lavoratori (i consigli di fabbrica, di fattoria, di rione) fossero investiti dal basso del potere tradizionalmente esercitato nella fabbrica e nella campagna dalla classe proprietaria e nelle pubbliche amministrazioni dal delegato del capitalista.” (pag. 140)

E cioè: il consiglio di fabbrica deve sostituirsi al capitalista nella direzione della fabbrica - dove è evidente la confusione del soviet post-rivoluzionario con le organizzazioni sindacali e para-sindacali, la cui esistenza in uno stato borghese ne rende impossibile - per non parlare dell' “egemonia”, - l'autonomia stessa se presa in sé, economica anzitutto e perciò stesso politica (il salariato non viene abolito se non si spezza la dittatura borghese e lo stato che ne è strumento; di qui l'esigenza del partito che trasformi le rivendicazioni salariali ecc. - rientranti nel quadro del sistema - in lotta di classe cosciente e tendente a far esplodere le contraddizioni del sistema stesso, al di là della contrattazione inerente al mercato della forza-lavoro, che è lo specifico campo dell'azione sindacale, votata al corporativismo tradunionistico se non diviene “cinghia di trasmissione” del Partito rivoluzionario). Commentando appunto la visione gramsciana dei Consigli gerenti di una produzione "non-capitalistica" in seno alla società capitalistica e producenti per il suo medesimo mercato - quindi necessariamente secondo le sue stesse intrinseche leggi, visione di "repubbliche socialiste" quasi rinnovati falansteri, scriveva giustamente Amedeo Bordiga, dal 1918 direttore del Soviet napoletano:

“si ripeteva l'errore di credere "che il proletariato possa emanciparsi guadagnando terreno nei rapporti economici, mentre ancora il capitalismo detiene, con lo Stato, il potere politico" e l'altro errore di contrapporre un organo sostanzialmente corporativo all'unico strumento di liberazione del proletariato, il partito di classe comunista.” (pag. 146)

Inutile dire da che parte sta il Fiore, gradualista ad oltranza.

La polemica Gramsci-Bordiga si fece più acuta nel 1920 con l'approfondirsi della crisi del Partito Socialista, e la sempre più pesante necessità di una scissione (già tarda, non solo per l'Italia). Bordiga, astensionista, optava per la scissione e per un partito “veramente comunista”, mentre Gramsci propendeva per una riconquista del partito dall'interno, e scriveva il 3 luglio:

“Il dovere dei nuclei comunisti esistenti nel Partito è quello di non cadere nelle allucinazioni particolaristiche (problema dell'astensionismo, problema della costruzione di un partito veramente comunista) ma di lavorare a creare le condizioni di massa in cui sia possibile risolvere tutti i problemi particolari come problemi dello sviluppo organico della rivoluzione comunista.”

E se certo Bordiga errava elevando a principio l'astensionismo, indubbiamente di portata "particolaristica", affatto irresponsabile è l'assimilazione gramsciana ai "problemi, anzi allucinazioni particolaristiche" della costruzione di un "partito veramente comunista" - unita alla postulazione di uno "Sviluppo organico della rivoluzione comunista", la costituzione del cui strumento indispensabile era dunque vista paradossalmente come "allucinazione". Atteggiamento che verrà sancito già coi compromessi livornesi, che peraltro sembreranno "troppo sinistri" a Gramsci ed ai "bolscevizzatori" della controrivoluzione staliniana incipiente, intesi a sabotare, sulle orme dei precedenti e nefasti fronti unici (dalla Baviera all'Ungheria) partiti e rivoluzioni internazionali.

Ma anche all'interno del gruppo ordinovista si apriva nel 1920 il conflitto fra Gramsci e Terracini-Togliatti, sostenitori questi dell'elezionismo, mentre il primo riteneva inutile e pericolosa la querelle astensionisti-elezionisti non tanto perché impostata su problemi secondari rispetto alla strategia di assalto rivoluzionario, ma in quanto rischiava di mettere ulteriormente in crisi il partito. Relativamente all'intervento di Lenin a favore della piattaforma pubblicata sull'Ordine Nuovo, Fiore non informa i lettori che Lenin, peraltro male informato sulla situazione specifica italiana, non intese mai, né con questo, né con altro modo, esprimere il suo appoggio al complesso delle teoriche ordinoviste. Ma la scuola staliniana di falsificazione (titolo, fra l'altro, di un saggio di Trotzky) continua a fare proseliti.

La diatriba fu comunque accantonata, almeno provvisoriamente, per soluzioni “unitarie”, quando gli eventi premettero verso la scissione che doveva operarsi con un taglio “troppo a destra” - al contrario di quanto sostenne poi il centrismo - pur non fino al punto, p. es., del PCF. Se Tasca e Graziadei rappresentavano una destra “classica”, Gramsci, nel suo empirismo pragmatico e strumentale, oscillava certo verso una contestazione sostanziale della linea tattico-strategica bolscevica, già minata profondamente dal ripiegamento internazionale della rivoluzione, riflesso sul Komintern. Tant'è vero che, se Bordiga col suo astensionismo assolutizzato a questione di principio si meritò - in quanto ipostatizzava appunto l'astensione dalle urne - la critica leniniana, Gramsci trovò modo di perpetuare la tradizione gradualistica dell'Ordine Nuovo, con una serie di stratagemmi se non altro testimonianti delle profonde radici che affondava in lui quest'esperienza più volte autocriticata, mai però da un punto di vista concretamente rivoluzionario e materialistico. Giova ricordare che la stessa parte sindacale delle Tesi di Roma, estesa da lui medesimo in collaborazione con A. Tasca, stride fortemente contro la classica posizione bolscevica, praticamente unico esempio di applicazione non meccanica né revisionista, ma scientifica, della dottrina leninista ad una situazione presentante, rispetto alla Russia, l'enorme differenza di un capitalismo moderno - con implicita maggiore difficoltà a prendere il potere, a quanto riconosceva apertamente appunto Lenin. Considerevoli elementi graduai-volontaristici, ed anche "educazionisti" permangono nella compilazione gramsciana - e se da una parte discordano nell'impostazione complessiva, richiamano le posteriori tesi lionesi, teorizzazione della bolscevizzazione” menscevica e controrivoluzionaria.

Comunque, Lenin intervenne a favore della rottura e scissione (“Falsi discorsi sulla libertà”, 4 novembre - 11 dicembre 1920) e questa doveva prodursi... avendo per risultato, secondo il Fiore, una “setta”, cioè il partito animato al vertice da Bordiga - mentre Gramsci tacque fino alla sostanziale liquidazione di Amedeo, favorita dal suo arresto (1923). Proprio di fronte a questo atteggiamento gramsciano, anche Fiore si trova in difficoltà: quell'assoluto riserbo, con ruolo subalterno e minoritario, non riceve altra spiegazione che quella assurda dell'inviolabilità del magnetico influsso bordighiano soggiogatore delle masse, cioè dell'impossibilità di fare una critica non iconoclastica e “sacrilega”, e votata al fallimento per la generale venerazione di Amedeo, ecc. - Gramsci diede ancora altre spiegazioni, ripetute dal Fiore: problemi familiari, timore di scindere il partito appena formato, ecc. Tutte giustificazioni a posteriori, alcune grottesche (Granisci che non vuole rompere l'unità del partito...), tendenti a delineare un quadro non meno spassoso: il gruppo di fanatici, dominato dal demagogo dalle “frasi scarlatte”, e il vero buon Amico del popolo che studia in disparte. La storiografia cede il passo all'agiografia o, se si vuole, alla oleografia: in cui, manco a dirlo, Bordiga e la Sinistra sono raffigurati a fosche tinte o - almeno Fiore lo vorrebbe - ridicolizzati. Bordiga - quello valido, il fondatore del P.C.d'I., il capo della Sinistra fino alla “bolscevizzazione”, è il grande sconosciuto del movimento operaio italiano (né le riedizioni programmistiche introdotte da G. Galli possono farlo davvero conoscere nei suoi aspetti intramontabili di teorico ed organizzatore negli anni 1920). Quando il tono si attenua, e non trascende ad ingiurie, l'esposizione del Fiore non cessa di essere meramente apologetica ed unitamente intesa a far giganteggiare la figura del “piccolo uomo dalla grande testa e dalla voce bassa e calma, che tratteneva su di sé l'attenzione degli ascoltatori nello sforzo di sentirlo”. E quindi neppure lo sfiora il dubbio che in Gramsci possa non riflettersi con esattezza lo svolgimento del complesso periodo di crisi nazionale ed internazionale che esplode nel dopoguerra e che avrà conseguenze così tragiche per l'Italia e per tutto il mondo, portando, nell'ondata di riflusso, la controrivoluzione in quella che è stata la Russia dei Soviet. Quindi, una buona volta gratificato Bordiga dell'appellativo "liquidatorio" di settario (nonostante il giudizio positivo di Lenin, che del resto viene fedelmente riportato, ma tralasciato come indifferente, e non, secondo ogni logica, contestato), giustificato il silenzio di Gramsci con la sua collocazione di minoranza, l'abbattimento fisico e le preoccupazioni domestiche, il Fiore conclude così: “L'uomo di cultura, ancora con originalità e concretezza, continuava l'analisi delle forze operanti nella società italiana, fino a scoprire la sostanza vera del fascismo, la vocazione reazionaria di chi lo sosteneva [vérité de M. de Lapalisse...], la pecoraggine delle forze piccolo-borghesi che lo secondavano, e la sua pericolosità, allora non valutata appieno dagli altri comunisti. Erano molti, nel 1921/22, i Don Ferrante che si ostinavano a negare la “peste” e il “contagio”, e ne morivano. Il partito aveva questa concezione ufficiale: che fosse impossibile l'avvento di un'avventura fascista-militare. Gramsci ne dissentiva, ma limitandosi a esprimere il dissenso esclusivamente in conversazioni private. Il suo limite fu l'acquiescenza, perlomeno formale [sia], a tesi non condivise, la mancata critica (aperta) del bordighismo e dei suoi atteggiamenti “sguaiati e triviali” (pag. 176)”. Ma, osserva poi, nonostante ciò Gramsci esprime già alcune delle sue esigenze di fondo: “l'apertura ai lavoratori non comunisti, anche cattolici, ed agli intellettuali d'opposizione... Andò in primavera... per parlare con D'Annunzio [intellettuale di opposizione?] (poi l'incontro non ci fu). Seguiva... le iniziative dei cattolici di sinistra... l'anticlericalismo radicato in larghe frange del proletariato piemontese era da lui combattuto” (pag. 176). II bello è che alcuni trotzkysti hanno voluto criticare Fiore mostrando che tale atteggiamento altro non era che “fronte unico” a prospettiva “rivoluzionaria”.

La deformazione è evidente, e lo è ancor di più quella sulla questione delle “fratture tra l'Internazionale e la direzione bordighiana del P.C. d'I.”. Anche qui Fiore omette semplicemente qualsivoglia analisi sul carattere dell'Internazionale dopo il '21, 'sotto la direzione di Grigori Zinoviev (cui Gramsci era assai legato, anche personalmente, e vicinissimo per prospettive politiche). Inizia allora l'involuzione del Komintern e in genere il processo controrivoluzionario nell'URSS, derivato dal blocco della rivoluzione europea. La borghesia che ha lanciato con successo un'offensiva preventiva nei passi più ricchi e sviluppati (es. U.S.A., Inghilterra), dove le sue difese precedenti hanno invece manifestato falle, dà "un giro di vite" controffensiva con una accentuazione terroristica “a posteriori” della sua perpetua dittatura (ed è il caso dell'Italia, della Germania: altro che “piccoli borghesi”! Agnelli, Pirelli, Krupp... i “piccoli borghesi”, instabili, reazionari per la loro stessa collocazione ai margini del processo produttivo, residui del passato, non fanno che la truppa, la sbirraglia, e di potere non sentono neanche l'aroma - quando ci provano, anzi, v. "notte dei lunghi coltelli" i "camerati" li trattano magari da "bolscevichi„ e li liquidano). Insomma, dove la crisi borghese si è fatta più drammaticamente sentire, e si è creata una situazione rivoluzionaria, la seconda internazionale ed i partiti ad essa legati hanno consegnato il proletariato alla reazione "di riassestamento" della borghesia; non certo detronizzata, ma minacciata dall'urto spontaneo e disorganizzato delle forze di classe (es. occupazione delle fabbriche). Di più: si sono fatti strumenti diretti della controrivoluzione, hanno disarmato il proletariato esponendolo alla rappresaglia armata (fascista) della borghesia, rappresaglia “normalizzatrice”, necessitata a ricorrere a mezzi “straordinari”, inutili in quelle nazioni ove più grande e potente è il capitale, minore l'incidenza della crisi postbellica, insignificante la minaccia rappresentata dalle organizzazioni operaie, i cui pochi nuclei di classe si sono rivelati impotenti non solo a guidare una rivoluzione, ma anche a produrre sconvolgimenti episodici di rilievo (perciò nei paesi anglo-sassoni non si ebbe né dittatura militare, né fascismo in periodo di flusso e riflusso rivoluzionario: le prime reazioni bastarono, lo status quo fu ristabilito senza Noske, Horty, Pilsudsky, Mussolini etc.).

Schiacciata dalle “misure di prevenzione” in Inghilterra, assassinata prima dai socialdemocratici ed infine dai fascisti in Germania ed in Italia, stroncata dopo brevi lampi nel territorio magiaro dal terrore bianco dei generali e degli ammiragli, la rivoluzione europea (e mondiale) periva, e con essa periva quella russa: lo spettro del comunismo scompariva temporaneamente dall'Europa. E Lenin nel 1918 aveva detto:

“È assolutamente vero che senza una rivoluzione in Germania noi moriremo... Il fatto che siamo arretrati ci ha spinti in avanti e siamo destinati a perire se non potremo reggere sino al momento in cui potremo valerci del possente appoggio degli operai insorti degli altri paesi.”

E nel 1920:

“Il capitalismo, se lo si considera sul piano mondiale, continua ad essere più forte del potere dei Soviet, non solo militarmente, ma anche dal punto di vista economico. È da questa considerazione fondamentale che si deve partire senza mai dimenticarla”.

Ed al III Congresso della Internazionale:

“Si è creato un equilibrio estremamente fragile, estremamente instabile... in virtù del quale la Repubblica Socialista può esistere, certo non a lungo, circondata dal capitalismo... Era chiaro per noi che senza il sostegno della rivoluzione internazionale il trionfo della rivoluzione proletaria era impossibile.”

E se la rivoluzione mondiale non era venuta a breve, immediata scadenza, nondimeno,

“nonostante questa convinzione -- diceva Lenin -- abbiamo fatto il possibile per conservare in ogni circostanza e ad ogni costo il potere dei Soviet, perché sapevamo di lavorare non solo per noi stessi, ma per la rivoluzione internazionale.”

In questo clima di ritirata possibilistica - ed avanzata controrivoluzionaria anche in Russia, quasi rispettivamente personificate dalle figure dello Zinoviev e di Stalin - Gramsci diviene il “beniamino” di quella Internazionale, che cominciava a lanciare, facendo strame di tante tragiche e significative esperienze proletarie recentissime, la parola d'ordine del "fronte unico" per le "libertà democratiche". Ma nelle Tesi di Roma, a questo frontismo in prima edizione risolutamente contrarie, Gramsci tacque di temi politici, attenendosi strettamente a quelli sindacali.

“C'era, in simile posizione -- commenta il Fiore -- il tanto di riserve sulla consistenza delle tesi bordighiane che procurava a Gramsci il favore dell'Internazionale e il tanto di acquiescenza a Bordiga che valeva il non averlo nemico. Spuntò così la designazione di Gramsci a rappresentare il P.C.d'I. nell'Esecutivo dell'Internazionale a Mosca.” (pag. 180)

La sostituzione di Bordiga era già pronta.

A questo punto, il libro del Fiore mostra palesemente tutti i suoi limiti -da un lato metodologico, essendo condotto l'esame di queste storiche fondamentali vicende attraverso... l'epistolario gramsciano, dall'altro, come abbiamo già accennato, limiti dovuti ad una mancanza di ricostruzione veramente storica della personalità e dell'azione di Gramsci, che richiedeva dunque un costante intervento critico, e che è esclusa invece dal tono di registrazione passiva, quando non da aperta agiografia. Fiore si propone di far parlare “le cose stesse” - ma perché questo avvenga, bisogna saperle interrogare. Non c'è infatti fedeltà scientifica nella mera riproduzione di documenti, magari minuti (diversamente, le cronache dei nostri antichi sarebbero mirabile esempio di scientificità). Peraltro, come dimostra brillantemente L. Trotzky nella prefazione al suo capolavoro, la Storia della Rivoluzione Russa, l'imparzialità storiografica è un mito, ed ove si voglia attingerla, si ottiene unicamente acquiescenza qualuquistica (che è già una ben precisa presa di posizione, di “parte”). Il Fiore anzi, nelle sue scelte dei documenti, rivela di adeguarsi proprio ai tradizionali canoni staliniani. Così oltrettutto il lettore non capisce come il 'Gramsci, che abbiamo visto in minoranza, potesse procedere alla liquidazione della maggioranza, rinnegando Livorno. L'Autore di questa biografia salta addirittura a piè pari il Comitato d'Intesa e la sua eliminazione, non facendo naturalmente cenno quindi dell'intervento del Komintern zinovievista in persona di Humbert-Droz, l'ultra-destro buchariniano che attualmente con compiacimento testimonia nei suoi ricordi del moderatismo dell'Internazionale. Eppure questo sarebbe stato un importantissimo documento anche per la ricostruzione della personalità di Gramsci - da distaccato intellettuale a minaccioso burocrate che brandisce l'arma della sanzione amministrativa, una volta guadagnatasi, grazie alla pronta adeguazione al "nuovo corso", incipiente, la fama machiavelleggiante di “una volpe dall'astuzia infallibile” (pag. 187). Il biografo, con singolare leggerezza, si limita a ricordare, parlando del congresso di Lione (1926) che “Bordiga ricorse all'Internazionale denunziando l'irregolarità del Congresso (e l'Internazionale respinse il ricorso)” (pagg. 236-7). Gli basta la contrapposizione metastorica dell'eroe positivo (duttile, che non teme di avere “le mani sporche”) all'estremista-in-capo (dogmatico, talmudico, settario, infantile, demagogico ecc. ecc.). Non sospetta nemmeno - o nel libro mostra comunque di ignorare - che dopo la morte di Lenin (1924) la situazione era precipitata, e la controrivoluzione (ammantata anche agli occhi dei “sinistri” russi della illusoria apparenza di una pura retrocessione politica termidoriana nel quadro degli istituti proletari dello Stato Operaio, che invece stava saltando) si arroccava al Cremlino con una sorta di “marcia strisciante” e mimetizzata. Stalin (espressione in realtà del rigurgito controrivoluzionario) prepara per Fiore solo una generica “dittatura assoluta” con l'eliminazione fisica e morale degli stessi membri del partito. Illegalità enormi (occultamento del testamento di Lenin) vengono commesse. In realtà è, come si è detto, la controrivoluzione, e l'eliminazione fisica degli uomini della rivoluzione ne era la conclusione logica e necessaria. Questa controrivoluzione, che si espanderà sull'Europa e sul mondo spezzando le armi e le organizzazioni del proletariato internazionale era a sua volta, teniamolo ben presente, la conseguenza del mancato sviluppo delle rivoluzioni in Europa nella fase successiva alla rottura del più debole “anello” russo. I partiti dei vari paesi non seppero o non vollero che in slogans (“guai a chi tocca la Russia dei Soviet, contro di noi si dovrà cimentar”...) non toccanti il fondo della questione, cioè l'assalto rivoluzionario al potere borghese locale, chiamare il proletariato alla difesa della rivoluzione in URSS, centro di irradiamento e prima piazzaforte destinata a crollare se isolata, nell'unico modo possibile - impugnando cioè le armi contro la propria borghesia in uno scontro frontale e creando le premesse della rivoluzione nel proprio paese. L'isolamento della Russia portò all'illusione, scaturita dal retaggio opportunistico, di poterlo perpetuare mantenendo statici i precari rapporti di equilibrio, destinati a divenire vittoria o crollo: di questa illusione la controrivoluzione, scaturita proprio dalla passività proletaria, le cui radici affondavano nelle tare socialdemocratiche delle organizzazioni del Komintern stesso, approfittò per insinuarsi con la politica cosidetta del “socialismo in un paese solo”. Lenin invece aveva diretto la rivoluzione nonostante la seconda Internazionale, e non fu compreso se non da minoranze, schiacciate dal collaborazionismo di classe.

Di fronte all'attacco condotto dagli oscuri burocrati staliniani uniti all'ingenuo Bucharin (le cui posizioni erano precipitate nell'oltranzismo destro, e delle quali egli stesso doveva perire vittima) contro l'Opposizione, Gramsci non capì (diversamente da Togliatti, erede del suo ruolo “volpino”) ed espresse il suo dissenso in una lettera al Comitato Centrale del P.C.U.S., quella stessa cui Togliatti rispose nel modo noto, interpretando la linea stalinista ufficiale. Gramsci è additato come zinovievista proprio quando Zinoviev sta per essere liquidato (provvisoriamente, solo in politica). Era già pronta la sua sostituzione al vertice del P.C. d'I., e l'uomo che doveva subentrargli - quello (stesso che rinnegherà tutti i suoi idoli, da Trotzky, ammirato nei primi armi di contatto con Mosca, a Bucharin stesso, con cui Togliatti aveva innegabili affinità ideologiche (a parte la statura morale) nel periodo del “destrismo” dell'ex-leader dei “comunisti di sinistra”.

Ecco come racconta il Fiore questa vicenda:

“Nel merito Gramsci condivideva le tesi della maggioranza. Era stato con i contraddittori di Trotzky anche nella disputa “costruzione del socialismo in un solo paese” o “rivoluzione permanente” [veramente, la “rivoluzione internazionale” era solo un aspetto della rivoluzione permanente, anzi la sua specifica trattazione riguardava l'impossibilità di “rivoluzione democratica fino in fondo”, di “governi operaio-contadini” se non sotto la dittatura proletaria] (scriverà una nota in carcere respingendo le tesi del napoleonismo rivoluzionario, della rivoluzione esportata) [veramente, le note sono diverse, e tutte erronee e lontane dal cogliere il centro della questione, a parte le sciocche accuse convenzionali di "bonapartismo": rivelano molto bene la mentalità gradualistica di Gramsci]. Ora, nella controversia nuova, non poteva non rifiutare data la sua concezione di fondo (elemento necessario, per la stabilità delle conquiste proletarie, l'alleanza permanente degli operai e dei contadini), la reviviscenza di corporativismo operaio [nelle tesi dell'Opposizione? Caso mai in quelle della “Opposizione Operaia” da cui però tutti i sinistri si erano dissociati; bello poi quel Gramsci che condanna il “corporativismo operaio”!] che gli sembrava di intravvedere nelle tesi del blocco di sinistra. Ma a parte la sostanza del dibattito, a dargli inquietudine erano i modi del dibattito, il furore, l'asprezza; erano i riflessi che la scissione in seno di gruppo dirigente del PCUS avrebbe avuto sul movimento internazionale, allora impegnato, specialmente in Italia, in una battaglia per non morire. Potevano i rivoluzionari russi non tenerne conto? Potevano dimenticare i loro doveri nei confronti del proletariato d'altri paesi? Il 14 ottobre 1926, per incarico dell'ufficio politico del partito italiano, si risolse a scrivere una lettera senza veli al comitato centrale del PCUS. L'indipendenza di giudizio era stata sempre la sua forza. Non aveva feticci e scrisse quel che sentiva... La lettera non piacque a Togliatti, che rappresentava allora a Mosca il partito italiano nell'Internazionale. Il difetto essenziale di quell'impostazione era, a suo giudizio, d'aver messo in primo piano il fatto della scissione e solo in un secondo piano il problema della giustezza o meno della linea seguita dalla maggioranza del comitato centrale; bisognava invece, e lo disse esplicitamente in una lettera a Gramsci del 18 ottobre, esprimere la propria adesione alla linea della maggioranza “senza porre nessuna limitazione”. Che senso aveva, del resto, l'appello all'unità?” (pagg. 248-250 passim)

Le due lettere riportate dal Fiore rivelano molto di più di quanto egli stesso non dica. Gramsci esprimeva un dissenso politico vero e proprio, né poteva vedere senza sconcerto la liquidazione di uno Zinoviev, che, nelle sue molteplici oscillazioni, incarnava ai suoi occhi il tatticismo-tipo caratteristico dell'attività “rivoluzionaria”. Togliatti, rispondendo, sottolinea la gravità delle posizioni gramsciane e, più che contestare una critica politica, esprime un'indignazione burocratica per l'atteggiamento critico dello scrivente, richiedendo l'allineamento perinde ac cadaver coi liquidatori della Sinistra russa. Gramsci mantenne le sue posizioni: il 6 novembre veniva arrestato - era la sua eliminazione fisica e politica.

Stalin non muoverà un dito per salvarlo - non si gioverà neppure delle relazioni economiche con lo stato fascista e delle relative possibilità di trattazione, altre volte sperimentate, in occasioni anche più recenti. Stalin ha protetto, difeso, favorito ed agevolato in ogni modo, e quindi pensionato a vita tramite i suoi successori un sicario di infimo rango come il sedicente Mercader, da lui spedito ad assassinare Trotzky: non poteva, è logico, avere tanta comprensione per un uomo legato (anche in circostanze difficili) a quello Zinoviev che, sotto accusa di complicità con Trotzky, sarà da lui abbandonato ai sofismi omicidi del menscevico Viscinsky. Gramsci muore l'anno successivo all'esecuzione di Zinoviev.

Qui Fiore cessa una trattazione organica, e si limita a narrare traversie carcerarie di Gramsci, sintetizzando ed apologizzando macchinalmente alcuni Quaderni (manco a dirlo, specialmente quello contro Bucharin ed il materialismo dialettico). Ma, non trattandosi di una ricostruzione storico-critica, bensì di un mero exposé con plauso immotivato, non val la pena di soffermarvicisi.

Nel complesso questa biografia mostra la paradossale caratteristica di offrire acriticamente un materiale esplosivo, anche se, in molte parti, estremamente carente. L'Autore stesso non si rende conto dei documenti esposti (il materiale utilizzato non è poi scarso), e l'agiografia finisce a prendergli la mano in opposizione a quanto registra per meccanico scrupolo scientifico. Il lavoro è quindi squilibrato nell'esposizione, ma comunque ispirato ad un'esaltazione del capo, del fondatore del partito, del rivoluzionario ed umanista, visto, e ciò è importante - negativamente importante - come patrimonio comune della "democrazia antifascista". Ciò è notevole, perché Gramsci, per le sue multiple oscillazioni ed incertezze, approssimazioni teoriche, sintesi eclettiche si presta a varie interpretazioni, dalla socialdemocratica alla staliniana post-resistenziale (alter ego di Togliatti) a quella kruscioviana e ingraiana-paratrotzkysta (Gramsci ed i “tre”, ecc.). Resta comunque al di fuori del marxismo come dottrina e prassi rivoluzionaria, e la sua contemporanea rivendicazione da quasi tutto il fronte democratico-borghese ne è conferma significativa. In particolare, l'accento nazionale gramsciano ed il suo gradualismo sono denominatore comune di ogni frontismo “antifascista” e dei suoi singoli componenti. Un Gramsci neo-risorgimentale, il cui pensiero si invera nella costituzione (da applicare o vigente, secondo i pulpiti), diffuso nelle scuole, consacrato per la "mano tesa" all'unità demo-nazionale aventiniana (v. articolo di O. Damen in questo numero della rivista) e per il “dialogo”. Un Gramsci apologeta del frontismo (da quello prima edizione a quello posteriore pre e post-bellico). Un Gramsci, infine, nazionalpopolare che pensa all'intellettuale organico ed all'egemonia culturale proletaria abbracciante “tutti i produttori”, in seno alla società capitalistica. E ci sarebbe altro.

Oggi Gramsci è praticamente dovunque e da chiunque partecipi al campo democratico-borghese impugnato, nella gnoseologia come nella strategia politica, contro Lenin. Fiore non lo riconosce specificamente, ma possiamo ben riconoscere dalle sue pagine che egli aderisce integralmente a questa visione di Gramsci, paradossalmente sostenuta proprio dalle forze di cui in ultima analisi fu vittima dopo esserne stato complice - sorte comune a tanti capi della III Internazionale.

Eleonora Fiorani

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.