Limiti e contraddizioni dello sviluppo industriale periferico

Analizzare oggi la composizione operaia del proletariato mondiale non è sicuramente un lavoro di facile riuscita. I contributi interessati dei rappresentanti (ufficiali o meno) dell'ideologia borghese inducono infatti in continui vizi e difetti chiunque si appresti ad un simile lavoro. Capita quindi molto spesso che tali lavori partoriscano frutti assolutamente inservibili ai fini del processo di trasformazione rivoluzionaria della società capitalista, ma i tempi stringono, e la caduta irreversibile che sta interessando il sistema capitalistico mondiale impone che l'articolazione di tale analisi coincida il più possibile con l'articolazione della realtà presente.

La "difficoltà" che incontra oggi l'analisi della composizione mondiale della classe non può essere però ridotta ad un fatto di semplici (anche se pressanti) influenze "esterne". In fondo, il ruolo determinante lo gioca l'incapacità (frequente) di chi si appresta a un simile lavoro di maneggiare ed interpretare i fenomeni economici che sottendono alla determinazione della composizione di classe stessa. E siccome dentro il processo di ristrutturazione capitalistica, quale ci interessa oggi, la trasformazione dei processi economici e delle forme produttive è all'ordine del giorno, in questo clima di movimento l'incapacità di cui sopra diventa subito cecità ed errore. Non è un caso, infatti, che su tali questioni negli ultimi anni siano scivolati anche i più consumati e generosi masticatori di "cose" operaie.

Rispetto alla necessità dell'analisi della composizione del proletariato mondiale e riallacciandosi direttamente all'ultimo nostro contributo apparso su questa stessa rivista (1), il nostro intervento assume subito una connotazione precisa: come è possibile che si siano spesso sviluppate molte posizioni di sopravalutazione o di sottovalutazione del ruolo che oggi, dentro il processo mondiale della rivoluzione comunista, è assegnato alle masse operaie della periferia capitalista.

La nostra coscienza è che, in fondo, diversi fenomeni che hanno interessato negli ultimi anni l'intero complesso dell'economia capitalistica mondiale, siano stati da molti male interpretati, e che le aspettative, "sviluppiste" o pessimiste, sul futuro della periferia capitalistica, poggino in realtà solo su delle semplici aspettative, e nient'altro.

Per questo, qui di seguito, pur partendo dal bisogno di un'analisi aggiornata della composizione di classe, non faremo in realtà nessun riferimento diretto ad essa e svolgeremo essenzialmente il discorso attorno alla struttura passata e recente dell'industria della periferia capitalistica mondiale. Questo ci permetterà da un lato di rimarcare l'importanza di un metodo di analisi della composizione di classe del proletariato mondiale, e dall'altro ci permetterà di focalizzare l'attenzione su un'area del sistema capitalistico mondiale, quella periferica (2), che per il ruolo di "cuscinetto" oggi assegnatole dai bisogni dell'accumulazione del capitale centrale avrà il potere di svelare molte delle debolezze intrinseche al modo di produzione capitalistico.

Elementi vecchi e nuovi

Parte integrante del sistema capitalistico mondiale, anche l'industria periferica è oggi una realtà in continuo mutamento ed in rapida evoluzione. Va da sé che sul significato da attribuire a tale evoluzione le interpretazioni si sprechino e si accavallino confusamente; tolte però di mezzo le interpretazioni più retrive (3), restano due filoni di analisi principali.

Il primo filone interpretativo non riesce a proporre nulla di nuovo dal punto di vista della elaborazione analitica, rappresentando schemi dello sviluppo periferico corrispondenti ad una divisione internazionale del lavoro così come si presentava sicuramente agli inizi del secolo, ma non più rispondenti alla realtà dei nostri giorni. Dalle sue rappresentazioni la periferia rimane ancora "ancorata" solo alla produzione e commercializzazione sui mercati mondiali di quei prodotti di "base", minerari o agricoli, che hanno caratterizzato e distinto l'epoca coloniale dell'espansione mondiale del capitalismo.

Il secondo filone interpretativo si distacca invece nettamente dal primo, e insistendo scolasticamente su dati e tendenze recenti dell'industria di alcune aree periferiche, costruisce ipotesi di sicuro sviluppo industriale per esse. In base ai suoi schemi l'economia dei paesi del "Terzo Mondo" risulta essere sicuramente "in via di sviluppo", al punto che molti paesi costituirebbero già oggi agguerriti concorrenti sui mercati mondiali del centro "sviluppato".

La difficoltà che si incontra nell'analizzare il tipo di industria che la periferia capitalistica ha prodotto nel corso degli ultimi decenni sta proprio nel riuscire ad evitare di cadere tra queste due ipotesi, opposte ma ugualmente irreali e pericolose. Il rischio cioè è di cadere o in una ipotesi che, in nome della "continuità" con l'analisi dello sviluppo capitalistico mondiale, cade in realtà in una sorta di sterile anacronismo dogmatico, privo di capacità interpretativa degli elementi reali che non si addicono perfettamente ai propri schemi interpretativi; oppure in una sorta di piatto pragmatismo, che vive di dati e di cifre, ma che è incapace di dare un significato sostanziale agli elementi che maneggia con tanta spregiudicatezza e presunzione.

È vero comunque, che entrambe le interpretazioni prendono spunto da elementi reali che caratterizzano o che hanno caratterizzato l'economia del gruppo periferico. Per esempio è sicuramente vero che ancora oggi il "terzo mondo", all'interno della divisione del lavoro, costituisce il maggior fornitore di materie prime, agricole o minerarie. Nel 1973, ad esempio...

più di tre quarti delle esportazioni mondiali verso il mondo industrializzato erano costituiti da materie prime agricole o minerarie. (4)

Percentuale che dopo il 1973 sale all'85%. (5) Inoltre:

... i prodotti industriali non incidevano che per il 15% sul totale delle esportazioni e, come si è già visto, la quota del terzo mondo nella produzione industriale non superava il 7 o 8%. Più di tre quarti delle importazioni del terzo mondo dai paesi industrializzati sono invece costituiti da manufatti... (6)

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[mentre] le importazioni da parte dei paesi industrializzati di manufatti prodotti nel terzo mondo non superano invece il 17% del totale delle importazioni dei paesi industrializzati. (7)

D'altra parte però, è anche vero che:

la produzione industriale - e la conseguente espansione delle esportazioni industriali - siano state e continuino ad essere la componente più dinamica dell'economia di alcuni paesi in via di sviluppo... (8)

Fra il 1960 e il 1978, ad esempio, la produzione industriale nella Repubblica di Corea si è sviluppata ad un saggio del 17%, del 15% a Taiwan, del 14% in Equador, dell'11% a Singapore, del 10% in Brasile. (9) E fra il 1960 e il 1975 i paesi "in via di sviluppo" hanno goduto di tassi di incremento del prodotto nazionale lordo notevolmente superiori a quelli dei paesi industrializzati. (10)

Cercheremo dunque di dare forma analitica alle nude cifre sopra esposte, interpretando brevemente i modi essenziali attraverso cui la periferia del sistema capitalistico mondiale ha raggiunto tali livelli nella produzione industriale ed enucleando al contempo i limiti e le precise caratterizzazioni racchiuse dentro questo "sviluppo". Va da sé che lo scopo sarà raggiunto per sommi capi e che difficilmente potrà intendersi totalmente rappresentativo di una realtà che si presenta estremamente variegata e complessa. Siamo certi però che dentro tali linee potrà essere compreso il nocciolo fondamentale della attuale posizione del blocco periferico all'interno dell'ordinamento gerarchico capitalistico mondiale.

Due "modelli" di sviluppo industriale

Il primo "modello" di industrializzazione è anche il più antico ed abbraccia realtà geografiche molto vaste, paesi come il Messico, il Brasile, l'Argentina, ecc. Il suo inizio, sostanzialmente, può farsi risalire alla fase seguente la grande crisi del 1929, quando lo "scambio" materie prime-manufatti fra Sud e Nord venne fortemente ostacolato da difficoltà di ordine sia materiale che economico, e si venne a creare per questi paesi non solo la possibilità ma anche la necessità di iniziare a produrre autonomamente una parte di prodotti industriali che erano ormai divenuti di consumo corrente sui mercati locali, quelli con caratteristiche di "largo consumo". Il fenomeno naturalmente non interessò tutti i paesi coloniali che erano stati oggetto dell'invasione dei manufatti prodotti dal centro capitalista: interessò invece solo quei paesi che per le loro dimensioni geografiche e per la presenza di grosse concentrazioni produttive minerarie rivolte all'esportazione, rendevano possibile l'esistenza di una domanda locale di beni manufatti di quel tipo sufficientemente ampia e diversificata.

La periferia, tralasciando la fase mercantile dell'espansione coloniale, la fase cioè dell'accumulazione originaria di capitale del centro, era stata fino ad allora "convertita" e strutturata ai fini della produzione di tutte quelle materie prime, agricole e minerarie, che permettevano di diminuire il costo degli elementi variabili e costanti che entravano in continuazione nel processo di valorizzazione di capitale nel centro. [11[

Va da sé quindi, che questo cambiamento dentro la divisione mondiale del lavoro fu "subito" più che gestito dal centro capitalista. In tutto quel processo infatti, un grosso ruolo lo svolse l'interesse "nazionale" dei paesi periferici, che si erano ritrovati improvvisamente nella necessità di riconvertire l'asse della propria accumulazione, dato che la crisi aveva bloccato loro la possibilità di continuare ad esportare materie prime verso il centro. (12)

In parecchi paesi dell'America Latina l'industrializzazione si avviò nel quadro di un processo di sostituzione delle merci di importazione, quando gli introiti delle loro esportazioni crollarono durante la Recessione degli anni Trenta... (13)

L'immediato secondo dopo-guerra doveva naturalmente sfatare i miti di sviluppo autonomo (nonostante la particolarità, vista sopra, del contesto entro cui si sviluppa l'industrializzazione per "sostituzione delle importazioni") che avevano nel frattempo trovato piede in numerosi ambienti, periferici e non. Il rilancio dell'accumulazione di capitale del centro, la riaffermazione egemonica delle proprie merci sui mercati di tutto il mondo, l'esportazione massiccia di capitale produttivo e di partecipazioni finanziarie, "snazionalizzeranno" infatti (14) l'apparato economico e produttivo di quei paesi periferici.

L'investimento straniero del settore manifatturiero rappresenta il 6,7% del totale investimento straniero nell'America Latina alla vigilia della grande depressione. Questa percentuale passa al 17,5% nel 1950. ...Esso si moltiplica per sette in Brasile, per otto in Columbia, per cinque in Perù. A partire dal 1950 tale tendenza si accentua. Dal 1951 al 1962, l'investimento straniero nel settore manifatturiero rappresenta il 31 % in media dell'investimento straniero totale, contro il 33% nel settore petroliero e il 12% nel settore minerario. Si può considerare che a partire dal 1960 l'apporto netto dei capitali americani in America Latina si dirige pressoché esclusivamente verso le industrie manifatturiere... (15)

Sarà solo con l'inizio degli anni Sessanta, con l'avvio di una nuova ripartizione della divisione internazionale del lavoro (questa volta però mossa dal centro), che al capitale periferico saranno ritagliati nuovi spazi per una produzione industriale: ma oltre ai soliti settori marginali, dove l'economia di scala non entra di prepotenza come elemento cardine della moderna produzione industriale, tutto il resto si realizzerà o in consocietà o sotto il controllo (diretto od indiretto) del capitale straniero.

Il secondo modello di industrializzazione è invece di origine più recente (anni Sessanta), nasce completamente rivolto al mercato del centro e si dimostra subito completamente subordinato, quanto ai capitali produttivi e all'intermediazione commerciale, all'egemonia del centro multinazionale. Questo modello, che è quello a cui si riferiscono gli amanti delle cifre e delle statistiche, è in effetti quello che maggiormente ha contribuito al "miracolo" industriale del Terzo Mondo degli ultimi due decenni ed ha interessato paesi come Hong Kong, Singapore, Corea del Sud, Taiwan, Malesia, Filippine, ecc.

L'industrializzazione in questi paesi nasce completamente dentro quella nuova fase della divisione mondiale del lavoro cui facevamo riferimento sopra, esprimendosi soprattutto nelle forme della "delocalizzazione".

La documentazione in proposito è abbondante ed unanime. I motivi che spingono il capitale transnazionale a spostare o a controllare la produzione di alcuni prodotti in luoghi spesso estremamente lontani dai mercati di distribuzione sono noti: il costo di un operaio di Hong Kong, giusto per fare un esempio, costa dalle 10 alle 20 volte di meno di un operaio occidentale. (16)

Tutto questo, con una produttività per lavoratore "compresa fra l'80 e il 140% del livello USA" (17), riduce "il costo netto di assemblaggio di prodotti elettronici all'8% di quello degli Stati Uniti". (18)

Non esiste invece una seria argomentazione sui motivi che oggi spingono il capitale centrale a diventare multinazionale in maniera così massiccia, soprattutto per alcune produzioni industriali, dato che livelli salariali differenti fra il centro e la periferia dell'ordinamento capitalistico esistono ed operano in maniera rilevante da almeno un centinaio di anni a questa parte.

Settori dinamici e settori marginali

Varie scuole economiche (più o meno ufficiali) parlano spesso di "ciclo del prodotto", intendono con ciò una "naturale" tendenza del prodotto industriale a divenire obsoleto e a divenire tendenzialmente delocalizzata alla periferia la sua produzione. Trattando però le categorie economiche alla stregua di feticci, esse non si accorgono che il fenomeno non trae origine dal manufatto che "invecchia": è sufficiente in proposito osservare che la delocalizzazione periferica della attività industriale non riguarda tutti i prodotti manufatti, che ci sono prodotti di antica tradizione industriale ancora oggi realizzati solamente in Occidente oppureprodotti dell'ultima ora che nascono addirittura già delocalizzati, come esistono produzioni delocalizzate che riguardano solamente una o più fasi particolari del processo di produzione di un bene manufatto.

Il fenomeno della delocalizzazione verte in realtà non tanto sul tipo di prodotto, quanto sulla combinazione tecnica particolare raggiunta dal processo di produzione materiale di quel particolare prodotto, al punto che i settori principali che oggi vengono delocalizzati alla periferia sono i cosiddetti settori leggeri, i settori cioè dove la combinazione fra lavoro vivo e lavoro sedimentato sotto forma di mezzi di produzione pende nettamente a favore del primo. Questi...

per il 75% appartengono a settori cosiddetti tradizionali e maturi, come l'abbigliamento e il tessile, il cuoio e le scarpe, gli articoli da viaggio, i giocattoli e gli articoli sportivi... (19)

Tutto ciò però ancora non basta. Per inquadrare il fenomeno, ciò che alla fine occorre è un quadro sociale dell'attività economica particolare, in modo tale che il progresso tecnico realizzabile in quel particolare settore sia insufficiente ad ampliare remunerativamente la massa di plusvalore ottenibile dal settore stesso.

Ci spieghiamo meglio. Come noto, l'ampliamento della massa di plusvalore realizzabile da un processo produttivo, massa riferita naturalmente alla massa del capitale investito, si può ottenere attraverso l'aumento della produzione di plusvalore assoluto o relativo. L'eccezionale sviluppo che il modo di produzione capitalistico ha dato alle forze produttive, deriva direttamente dal fatto che storicamente il capitale tende a privilegiare il secondo tipo di estorsione. Raul Mauro Marini ha avuto il pregio di evidenziare come il capitalismo periferico poggi la propria valorizzazione essenzialmente sulla produzione di plusvalore assoluto. (20)

Ma ciò che oggi per la periferia è la norma, per il capitale centrale è un'anomalia. Questo non toglie che lo stesso sviluppo accelerato delle forze produttive centrali sia stato accompagnato da una continua tendenza all'aumento sfrenato dello sfruttamento operaio attraverso il prolungamento della giornata lavorativa o la compressione del salario, ma sempre e comunque in quanto manifestazioni collaterali ed accessorie all'estorsione di plusvalore relativo.

Nelle fasi di crisi dell'accumulazione capitalista, quale oggi stiamo vivendo, quando la produzione sociale di plusvalore si manifesta insufficiente rispetto alla massa del capitale sociale investito, il progresso tecnologico (e la parallela produttività del lavoro) nei vari settori produttivi si sviluppa in modo accelerato, ma con ciò tende anche a distribuirsi in modo squilibrato fra i vari settori stessi. La risultante è che a livello sociale la distribuzione del plusvalore tende a ripartirsi in modo anch'esso squilibrato. Avviene quindi che una serie di settori, impediti ad elevare adeguatamente la produttività tecnica del proprio lavoro, si marginalizzanno nei confronti di altri settori, che diventano dinamici. Giunto a questo punto il capitale "marginalizzato" non ha che una soluzione: tendere ad aumentare la massa del plusvalore assoluto prodotto: da qui i continui attacchi alle condizioni di vita e di lavoro che caratterizzano oggi tutte le economie occidentali; da qui i fenomeni di "decentramento produttivo" che hanno interessato parte del tessuto economico italiano (e non solo italiano) a partire dagli inizi degli anni Settanta; da qui il fenomeno dello sfruttamento metropolitano del lavoro di immigrazione della periferia. (21)

Tutto ciò però può anche non bastare. A questo punto la prospettiva di lavoro altamente dequalificato, massificato e soprattuttto sotto-pagato, come lo offre l'investimento delocalizzato alla periferia, diventa una occasione troppo allettante da lasciarsi sfuggire. Va da sé che solo il grosso capitale centrale sarà in grado di multinazionalizzarsi e di delocalizzarsi alla periferia e che solo chi riuscirà a fare anche questo tipo di scelta avrà tutte le potenzialità per realizzarsi vincitore nello scontro commerciale mondiale.

L'esplosione recente della produzione leggera o matura (22) in parecchi paesi del terzo mondo si lega direttamente a questo tipo di dinamica. La maggior parte dei prodotti tessili od elettronici (di largo consumo) prodotti in una delle tante Taiwan o Città del Messico, in realtà altro non sono che prodotti di succursali delocalizzate di multinazionali europee, giapponesi o statunitensi. In un paese come Singapore la quota detenuta nella produzione esportata dalle imprese multinazionali si avvicina al 70%. (23)

Se consideriamo poi la quota delle esportazioni periferiche commercializzate dalle multinazionali, questa varia mediamente fra il 75 ed il 95% per un numero altissimo di prodotti e di paesi periferici (24). Succede quindi non solo che molte delle produzioni e delle relative esportazioni del "Terzo Mondo" sono in realtà "la concorrenza che le grandi imprese di un paese sviluppato muovono ad altre imprese dello stesso paese e di altri paesi sviluppati" (25), ma che lo stesso valore "della produzione internazionale supera ora il valore del commercio internazionale". (26)

In queste condizioni...

continuare a pensare ai rapporti tra paesi industrializzati e Pvs secondo gli schemi classici dei rapporti commerciali è sempre più anacronistico e mistificante. (27)

Ecco allora che, visto con questo occhio particolare, il tanto esaltato (da alcuni) sviluppo industriale dei paesi di più recente industrializzazione, assume caratteristiche ancora una volta nettamente definibili dentro i caratteri della dominazione e della dipendenza dal centro industrializzato.

Ritagli, non sviluppo

Risulta evidentemente difficile tendere alle stesse conclusioni anche per l'altro gruppo dei paesi periferici industrialmente più avanzati, quelli che avevamo definito "di più antica industrializzazione". Qui, infatti, lunghe tradizioni di "indipendenza" nazionale si intrecciano con esperienze borghesi "autonome", ed apparentemente un tessuto economico-industriale articolato si sviluppa non solo dentro i canali del mercato mondiale ma anche all'interno di una domanda nazionale (o regionale) sostenuta e viva. L'America Latina costituisce il classico esempio di questo tipo di sviluppo industriale. E non a caso è proprio su questo continente che si sono sviluppate le maggiori scuole di pensiero o di politica economica "sviluppiste". Le strutture portanti di tali scuole "sviluppiste" poggiano su delle analogie, in realtà solo apparenti, con l'esperienza dell'accumulazione capitalistica europea o nordamericana. L'esistenza di un mercato interno (anche se ristretto) di beni di prima necessità, l'esistenza di un settore regionale produttore di questi beni, l'esistenza del conseguente mercato dei mezzi di produzione adoperati in questi settori, il continuo disgregarsi (oggi ormai solo nelle forme) di rapporti socio-produttivi verso forme sempre più "mercificate", ecc., sono tutti elementi che formalmente accomunano le due diverse esperienze storiche, ma sono anche elementi che, come abbiamo avuto modo di notare parzialmente sopra, non sono di per sé significativi di sviluppo autonomo. Due esempi ci aiuteranno a comprendere meglio il perché l'esperienza industriale latino-americana, anche se non può essere ridotta all'esperienza dei paesi di "recente industrializzazione", rientra comunque dentro l'esperienza della dipendenza e della subordinazione periferica dal centro industrializzato.

  1. L'esistenza di un settore produttivo dei beni di prima necessità è il settore nel quale, come abbiamo avuto modo di osservare, meglio si è espressa l'iniziativa imprenditoriale latino-americana. È vero, parte della produzione in questo settore è realizzata direttamente dalle filiali multinazionali, soprattutto a partire dagli inizi degli anni Sessanta, ma è indubbio che il capitale indigeno giochi comunque una relativa grossa parte nella realizzazione della produzione nazionale complessiva. Il punto però non sta qui. L'errore che generalmente si commette non risiede tanto (anche) nel sopravalutare la portata effettiva di tale produzione realmente "nazionale", quanto nel considerare l'equilibrio raggiunto nella produzione locale del capitale nazionale o del capitale straniero come un equilibrio che dipende dalla forza dei due, e che dunque può spostarsi congiunturalmente dalla parte dell'uno o dell'altro. La realtà e l'esperienza storica vogliono invece che questo equilibrio non dipenda tanto dalle quantità delle rispettive forze messe in campo, quanto dal tipo particolare di divisione mondiale del lavoro che in quella precisa fase il centro organizza e impartisce all'intero assetto capitalistico mondiale.
    La credibilità di siffatta argomentazione ce la fornisce il periodo fra le due guerre mondiali, dove per difficoltà materiali immediate e contingenti, parte dell'asse dell'accumulazione periferica si era spostata verso la produzione industriale rivolta al mercato locale. La ripresa del ciclo di espansione posteriore al secondo conflitto mondiale ed il conseguente ristabilimento di normali condizioni di lavoro del mercato mondiale delle merci e dei capitali, ha significato però l'immediata retrocessione dei livelli di sviluppo e di autonomia raggiunti in quel periodo dal capitale locale, al punto che generalmente si parla del periodo post-bellico come del periodo della "snazionalizzazione" dell'economia latino-americana. Ciò è stato inevitabile dati i livelli di produttività straordinariamente maggiori racchiusi nelle merci del capitalismo centrale e dato il nuovo modo di intervenire dell'imperialismo, teso non solo a collocare merci ma anche e soprattutto capitali produttivi all'estero. Il fatto allora che esistano oggi settori produttivi in cui il capitale periferico abbia potuto guadagnare "posizioni" acquista il solo significato di un "ritaglio" concessogli dal capitale centrale, in relazione alle specifiche istanze di valorizzazione del capitale centrale stesso. Può verificarsi infatti che al centro industrializzato risulti molto più vantaggioso importare l'acciaio per produrre le proprie centrali nucleari del Brasile, piuttosto che impegnare capitali propri in una produzione ormai oggi "matura"; oppure che risulti più redditizio far produrre in Messico abiti da commercializzare nei mercati Occidentali piuttosto che impegnare capitali nella produzione di spolverini per i "peones" di una qualsiasi bidonville latino-americana.
  2. Lo sviluppo locale di una domanda di mezzi di produzione per i settori industriali di beni di consumo di prima necessità conferma questa impostazione. Infatti, salvo rarissime eccezioni, come il caso della siderurgia o della cantieristica (e di pochi altri settori, comunque da tempo "maturi"), il predominio del capitale straniero della fornitura di questo tipo di prodotti risulta incontrastata ed incontrastabile dal capitale periferico, proprio perché si tratta di settori la cui dinamica è a tutt'oggi molto accentuata, e quindi molto remunerativi.
    La cosiddetta "dipendenza tecnologica" della periferia dal centro capitalista muove i propri passi proprio da questa situazione di elevata profittabilità delle merci "tecnologiche", soprattutto di quelle più recenti ad elevata accelerazione tecnico-scientifica.

La tecnologia non è separata ma incorporata in certi beni capitali. In un certo senso tuttavia la tecnologia è sempre stata la base del monopolio metropolitano. Le aree sottosviluppate sono state incapaci di impiantare una struttura industriale completa perché sono risultate incapaci di impiantare industrie che possedessero in ciascun momento una tecnologia più complessa e avanzata. In questo caso la base del monopolio si sposta non su di una nuova categoria, la tecnologia, bensì su un nuovo gruppo più ristretto di industrie di beni capitali. (28)

Fuori da questa impostazione possono esistere solo i "feticci tecnologici" e le illusioni della necessità per il Terzo Mondo di appropriarsi dello sviluppo tecnico e scientifico.

Dal centro alla periferia, e viceversa

Sottolineato il carattere "dominato" dell'industrializzazione periferica, rimangono da precisare i canali e gli strumenti attraverso cui si produce e si riproduce questo tipo di manifestazione imperialista. Non ci interessa qui affrontare direttamente la demagogia corrente sui "bisogni" del "Terzo Mondo", su ciò che necessiterebbe ai "paesi in via di sviluppo" per liberarsi dal "sottosviluppo" e per affermare la via del proprio "autosviluppo". La trattazione dovrebbe essere a sé stante, tante sarebbero le implicazioni e le parentesi che dovrebbero aprirsi all'interno di un simile lavoro. In relazione ad un obbligato bisogno di sintesi, presupponendo acquisiti molti degli aspetti della tematica periferica (ripresi abbondantemente da molta letteratura di settore), possiamo dunque sintetizzare qui di seguito alcuni dei principali modi attraverso cui si riproduce oggi il carattere periferico di buona parte del pianeta all'interno del sistema gerarchico capitalistico mondiale.

Vulnerabilità dell'economia periferica

È questo il meccanismo più evidente e più semplice attraverso cui si riproduce quotidianamente il rapporto di dominazione centro-periferia. La storia della periferia è sempre stata anche la storia della propria vulnerabilità a fronte della forza enorme racchiusa nell'economia del centro capitalista. Cambiano naturalmente le forme storiche di tale vulnerabilità: la produzione artigianale periferica è stata letteralmente distrutta dall'invasione dei manufatti centrali a partire già dall'espansione europea nei secoli XVI e XVII; perlomeno dalla seconda metà del XVIII secolo, l'economia periferica è divenuta produttrice di beni primari, grazie agli investimenti stranieri nelle miniere, nelle piantagioni, oltre che nelle infrastrutture e nei servizi complementari al settore rivolto all'esportazione (porti, trasporti, banche, ecc.); con la fine del secondo conflitto mondiale l'invasione manifatturiera centrale riprende piede nel tessuto periferico, questa volta però nelle forme dell'investimento industriale diretto; la superiorità centrale si propone oggi, oltre che in parecchie delle vecchie forme, soprattutto nella veste dell'abisso tecnologico, del controllo dei processi informativi e comunicativi, della padronanza della scienza, della ricerca, della sperimentazione, ecc. Ma, pur mutando le forme di questa vulnerabilità, rimane la sostanza "de-strutturante" e "disarticolante" che la penetrazione centrale sviluppa dentro il tessuto sociale ed economico della periferia.

L'estroversione economica

Essendo nata dentro le istanze di un mercato delle merci e dei capitali ormai divenuto mondiale, la periferia si caratterizza come una economia estroversa, rivolta cioè essenzialmente verso il mercato mondiale. Mentre dunque il centro rivolge le proprie produzioni verso i propri mercati interni o verso i mercati del proprio "blocco", la periferia non colloca "mai" le proprie merci sui propri mercati nazionali o regionali. Tutto questo, oltre a determinare chiari aspetti di dipendenza dai mercati esteri, struttura l'economia in compartimenti stagni, in tanti comparti isolati gli uni dagli altri, senza nessun tipo di reciproca relazione economica o produttiva: ed il tutto si risolve in un tessuto economico ipertrofico, che manca dei meccanismi integratori necessari alla propria espansione ed al proprio sviluppo. Infatti, il capitale che produce per l'esportazione tende a trasferire all'estero anche gli stimoli indotti al processo della propria accumulazione.

Un chiaro esempio delle conseguenze di questa "de-strutturazione" dell'economia periferica ce la fornisce la mole di profitti che quotidianamente fuoriesce dalla periferia. Le filiali estere con insediamenti produttivi in America Latina rimpatriano in media il 90% dei profitti, contro la media del 60% che si ha per le multinazionali collocate in Europa. (29)

E a testimonianza di un tessuto economico strutturato in compartimenti stagni, la fuoriuscita di profitti è tanto più grande quanto maggiore è stato l'insediamento produttivo multinazionale:

Dal 1961 al 1968, l'insieme dei redditi che torna negli Stati Uniti è di quattro volte superiore... al flusso dei capitali arrivati... I paesi più danneggiati dal riflusso dei redditi dei capitali netti di entrata sono, nell'ordine: Venezuela, Argentina, Messico, Brasile... (30)

... e cioè i paesi maggiormente industrializzati dell'America Latina.

Gli investimenti "improduttivi"

Il fine stesso dell'investimento capitalistico, il profitto, determina un'altra caratteristica delle locali borghesie periferiche, che attorno al capitale straniero operano e si riproducono in quanto classi, quella cioè di privilegiare spesso l'investimento "improduttivo" all'insediamento industriale sul suolo natio. Di esempi clamorosi ce ne sono stati diversi, basti ricordare l'avvenuta partecipazione del 10% del capitale libico di Stato nella Fiat, oppure l'indiscriminata partecipazione del capitale di Stato saudita alle speculazioni finanziarie occidentali. Certamente la borghesia mediorientale ora citata rappresenta uno spezzone molto particolare dell'insieme della borghesia periferica, uno spezzone quindi per certi versi non molto significativo delle tendenze complessive periferiche: ma possiamo star certi che queste grosse operazioni finanziarie che riguardano la prospera borghesia mediorientale si traducono in moltissimi altri paesi periferici in continue e quotidiane esperienze speculative di "piccolo calibro", esperienze borghesi che rimandano la memoria più ad una categoria dell'occidente precapitalistico (l'usuraio) che non alle forme produttive dell'accumulazione di capitale.

I limiti del mercato interno

Quando si affronta questo aspetto particolare del "blocco" periferico, generalmente si tende ad attribuire ad esso responsabilità che non gli corrispondono sicuramente. E vero che in nessuna zona della periferia esiste una struttura della domanda tale da generare un meccanismo autopropulsivo del tipo occidentale; ma è anche vero che tale tipo di domanda non esiste proprio perché la periferia ha percorso un tipo di sviluppo che l'ha portata a diventare la periferia dell'ordinamento capitalistico mondiale. In altre parole è il blocco della domanda interna a dipendere dal "blocco" della periferia, e non viceversa.

Un esempio di ciò ce lo fornisce il livello medio salariale degli operai periferici, livello enormemente più basso che al centro, e che costituisce sicuramente una delle componenti meno dinamiche del mercato interno dei paesi periferici. Oggi di fame nel "terzo mondo" si muore e ciò non può stimolare molto l'industria, per esempio alimentare, locale. Questo però non è un dato che storicamente caratterizza gli attuali paesi periferici. Fino alla fine del secolo scorso le remunerazioni salariali fra centro e periferia del sistema capitalistico sono viaggiate all'unisono. (31)

I differenziali di crescita che hanno caratterizzato poi tutto il corso del Novecento, si sono sviluppati con lo svilupparsi dell'accumulazione di capitale da un lato del sistema e con il relativo blocco dell'accumulazione dall'altra parte dello stesso. Da un lato, infatti, lo sviluppo dell'accumulazione di capitale ha portato con sé lo sviluppo dell'estrazione di plusvalore nella forma relativa, integrando in questo modo la remunerazione salariale nella formazione della domanda locale; dall'altro lato, il blocco dell'accumulazione di capitale e la separazione creatosi fra sfera della produzione e sfera della circolazione delle merci, hanno vincolato l'estrazione di plusvalore alla forma assoluta, sviluppando con ciò i fenomeni del supersfruttamento del lavoro e della sua bassissima remunerazione, fenomeni tipici della periferia moderna. (32)

Lo scambio ineguale

La divisione internazionale del lavoro, che ha costretto la periferia nella produzione prevalente di prodotti di "base", ha indotto erroneamente molti a vedere in essa, soprattutto in relazione all'andamento congiunturale negativo della domanda di materie prime degli ultimi anni, il motivo principale di questo continuo peggioramento dei termini dello scambio internazionale fra centro e periferia, e ad invocare quindi, in virtù di esso, nuovi termini nella divisione internazionale del lavoro. Grossi paesi produttori di materie prime come il Canada o l'Australia sono però lì a dimostrare che il problema dello scambio ineguale esula dalla particolarità delle merci prodotte. S. Amin ha stimato in un 15% del valore totale della produzione periferica il valore "invisibile" sottratto attraverso lo scambio ineguale dal centro alla periferia (33)...

cifra tutt'altro che modesta in termini relativi, e che da sola basterebbe a giustificare il blocco della crescita della periferia ed il crescente divario tra questa ed il centro del sistema. (34)

Ed anche in periodi di grossa tenuta della domanda mondiale di materie prime, come ad esempio il periodo fra gli anni dal 1954 al 1962, per i paesi periferici le ragioni di scambio peggiorarono del 38%, con una perdita secca valutata intorno agli 11 miliardi di dollari, esattamente il 30% in più di quanto questi avessero ricevuto in quegli anni come aiuti finanziari. (35)

Emmanuel (36) ha dimostrato, dati alla mano, che la formazione di prezzi ineguali rientra, su scala mondiale e non più nazionale, nel fenomeno della trasformazione del valore di una merce nel suo prezzo di produzione, fenomeno che tende a relazionare la redditività di un capitale investito non alla composizione organica specifica di quel capitale, ma alla composizione sociale, media, della struttura produttiva mondiale in quel dato momento. Il merito di Emmanuel sta nell'aver demolito, cogliendo il nocciolo del processo di formazione mondiale del prezzo delle merci, la teoria corrente della divisione internazionale del lavoro, che tende a considerare ogni aspetto di questa ripartizione delle attività produttive come massimamente proficua per i vari produttori. Il suo errore sta però nell'aver sopravvalutato in tutto il processo il ruolo giocato dalle diverse remunerazioni salariali esistenti fra centro e periferia del sistema, trascurando così la sfera della produzione come momento essenziale del processo di formazione dei prezzi di produzione. In realtà la diversa remunerazione salariale all'interno del sistema capitalistico mondiale entra nel processo dello scambio ineguale come diretta conseguenza dei diversi ritmi e modi dell'accumulazione di capitale che si hanno fra centro e periferia, e solo con queste caratteristiche partecipa alla formazione dei prezzi diseguali.

Ben diverso ruolo gioca invece la composizione organica e tecnica del capitale produttivo esistente in un dato momento in un dato paese. Se astraessimo dalla mobilità internazionale del capitale e delle merci, e considerassimo un qualsiasi paese periferico come un'isola a sé stante, è indubbio che la bassa (relativa) composizione organica di capitale qui esistente darebbe origine ad elevati saggi di profitto per i capitali investiti nella produzione. Torneremmo immediatamente indietro di 150 anni nella storia dello sviluppo capitalistico, nell'epoca dell'Europa della prima rivoluzione industriale. Ma sarebbe sicuramente un errore astrarre dall'integrazione totale che il mercato mondiale ha realizzato nel corso di tutto il Novecento. La realtà vuole invece che la periferia produca merci soprattutto per il mercato mondiale, che attinga merci soprattutto dal mercato mondiale; e la realtà vuole che il prezzo delle merci periferiche risenta delle spinte alla perequazione della profittabilità degli investimenti produttivi che inevitabilmente si sviluppano al centro del sistema. La diversa forza contrattuale esistente fra i due blocchi del sistema permette di realizzare concretamente queste spinte: non è un caso infatti che è proprio a partire dalla fine del secolo scorso, in coincidenza con lo svilupparsi dei monopoli produttivi e distributivi multinazionali, che il prezzo dei prodotti scambiati fra centro e periferia si è staccato definitivamente a ogni relazione con la produttività del lavoro per definirsi in maniera artificiale in relazione ai bisogni di redditività del capitale centrale. (37)

Un'ultima annotazione riguarda le disomogeneità e le contraddizioni di un simile processo. L'insediamento produttivo multinazionale che si colloca sul suolo periferico trova i propri motivi dentro la generale tendenza del capitale a contrastare la caduta della propria redditività, così come in questa generale tendenza si colloca il processo dello scambio ineguale esistente fra centro e periferia.

Su un ammontare complessivo delle esportazioni dei paesi 'sottosviluppati' sull'ordine dei 35 miliardi di dollari (nel 1966), almeno tre quarti, cioè 26 miliardi, attengono al settore capitalistico ultra-moderno (petrolio, industria mineraria e di prima trasformazione, piantagioni moderne... (38)

Questo significa dunque che è anche il grosso capitale multinazionale a venire penalizzato da una simile struttura dei prezzi mondiali. Va da sé che il settore "moderno", grazie alla elevatissima produttività del lavoro che lo caratterizza rispetto ai livelli sociali, avrà modo comunque di ritagliarsi ampi margini di remunerazione dall'investimento multinazionale e che, in fondo, saranno ancora i settori arretrati (locali) a sopportare il peso maggiore di questa rapina di valore quotidiana. Tutto ciò però non può che rappresentare una delle tante contraddizioni interne al sistema di produzione capitalistico, il quale mentre da una parte produce le linee di controtendenza al suo progressivo declinare storico, dall'altra parte annulla concretamente gli spazi per la realizzazione delle linee stesse.

Conclusioni

Per concludere, ci sembra utile rimarcare alcune indicazioni che è possibile estrapolare dagli elementi di analisi finora maneggiati.

La prima indicazione ci conferma che il modo di produzione capitalistico è un modo di produzione sostanzialmente dinamico, in continua evoluzione, e che dentro tale evoluzione la periferia ha "sviluppato" una struttura industriale reale, effettiva, che si colloca al di fuori della divisione internazionale di tipo coloniale, e che produce e riproduce quotidianamente in quanto classe considerevoli masse operaie urbane. (39)

La seconda indicazione ci dice che tale sviluppo non si pone però come "sostitutivo" o "concorrenziale"con quello centrale, come si ostinano a ripetere certuni, ma che nasce e si sviluppa dentro una divisione internazionale del lavoro che trova i propri motivi ispiratori all'interno delle istanze di valorizzazione del capitale centrale, dentro dunque un percorso di dominazione e di funzionalità piuttosto che di sviluppo effettivo. Da ciò deriva che pur tendendo in continuazione a divenire realmente classe mondiale, il corpo centrale operaio rimane e rimarrà pur sempre quello del centro del sistema capitalistico mondiale.

La terza indicazione ci ricorda che lo sviluppo industriale non produce attorno a sé solo figure operaie, ma se produce in continuazione proletarizzazione sociale e dunque conflittualità dentro i rapporti di produzione capitalistici stessi. È chiaro, al centro o alla periferia le forme di questa proletarizzazione saranno diverse. Al centro, da alcuni decenni ormai, il proletariato del "terziario" tende ad espandersi sempre più a discapito dell'operaio produttivo. Alla periferia il proletario del "terziario" tende a coincidere sempre più con la figura del "barbone" disinserito da qualsiasi attività economica o produttiva, se non da quelle di mera sussistenza. (40) Ma nella sostanza, la potenzialità del conflitto sociale rimane.

La quarta ed ultima indicazione ci sottolinea che tutti i termini della questione relativi allo sviluppo industriale dell'ordinamento capitalistico sono destinati ad aggravarsi e a peggiorare dentro il progredire dell'attuale crisi economica capitalistica. L'innalzamento delle barriere doganali, l'accentuarsi del peggioramento delle ragioni di scambio, l'inasprirsi della penetrazione commerciale, il parossismo raggiunto dalle manovre speculative e parassitarie, questo ed altro ancora sono solo alcuni degli aspetti in cui si manifesta il tentativo del centro agonizzante di scaricare sulla propria periferia ancor più agonizzante la lenta ma inesorabile agonia del modo di produzione capitalistico. La dimensione raggiunta dal debito pubblico periferico oggi o le recenti rivolte proletarie ed operaie manifestatesi recentemente in alcuni paesi periferici sono solo le diverse facce di una medesima medaglia. Come alla medesima medaglia sono riconducibili gli attacchi quotidiani che il padronato nostrano muove alla classe operaia nostrana.

Ecco, alla fine, al di là delle cifre e delle percentuali, la vera omogeneità di classe mondiale la ritroviamo proprio quì, negli attacchi alle condizioni di esistenza del proletariato mondiale, produttivo o no, centrale o periferico esso sia; considerando il ruolo sovversivo che i comunisti rivoluzionari hanno nei confronti del modo di produzione capitalistico, tutto questo ci appare come un ottimo motivo per andare avanti e proseguire nel nostro lavoro.

Rouge

(1) Cfr. Prometeo n. 8, settembre 1984, anno XXXVII, serie IV.

(2) Faremo spesso ricorso, nel seguente lavoro, alle categorie "periferia" e "centro", intendendo con ciò le aree "sottosviluppate" e "industrializzate" del sistema capitalistico mondiale. Privilegiare dette categorie non ha per noi un senso estetico, ma concettuale. Infatti, come abbiamo già avuto modo altrove di sottolineare, sin dal suo sorgere il sistema capitalistico si è strutturato secondo un ordine gerarchico ben preciso, un ordine gerarchico funzionale alle esigenze dell'accumulazione di capitale in un nucleo "centrale" (dinamico) di paesi. Ciò impedisce interpretazioni false dello sviluppo capitalistico mondiale. Il termine tanto usato di "paesi non-industrializzati", ad esempio, per definire i paesi appartenenti alla periferia del sistema capitalistico mondiale, è un termine che rimanda solo alle forme della divisione internazionale del lavoro, forme che, come vedremo più avanti, per molti paesi periferici si sono modificate negli ultimi decenni senza che con questo sia venuto meno il rapporto di dominazione che lega questi paesi al blocco centrale dei paesi capitalistici. L'uso dei termini di cui sopra è dunque per noi importante in quanto ci permette di cogliere l'essenza del flusso di risorse che quotidianamente scorre dal Sud verso il Nord del pianeta, senza correre il rischio di travisare le manifestazioni della dipendenza con l'essenza della dipendenza stessa.

(3) Non sempre le interpretazioni più retrive coincidono con gli ambiti più retrivi. Mesi or sono, per esempio, in Francia si è tenuto un convegno ad alta partecipazione "di sinistra", al cui vaglio vi era l'esperienza coloniale francese. È più difficile da dire che da credere, ma da quel convegno è uscita un'interpretazione dell'esperienza coloniale ed imperialista francese sostanzialmente positiva, addirittura liberatoria per i paesi che furono oggetto della potenza espansionista francese.

(4) Carlo Guelfi, Metropoli e terzo mondo nella crisi, Editori Riuniti, 1979, pag. 135.

(5) Ibidem, pag. 135.

(6) Ibidem, pag. 135.

[7[ Ibidem, pag. 135.

(8) Ibidem, pag. 136.

(9) Sylos Labini, Il sottosviluppo e l'economia contemporanea, Edizioni Laterza, 1983, pag. 123.

(10) Metropoli e terzo mondo nella crisi, cit. pag. 45.

(11) Il processo di valorizzazione del capitale produttivo è anche processo materiale di produzione, processo che abbisogna in continuazione di una larga schiera di beni materiali, dai mezzi di sostentamento della forza-lavoro (staccata cori forza da essi dallo sviluppo dei rapporti capitalistici di produzione e di scambio) ai materiali che entrano direttamente nel luogo di lavoro come materie prime o mezzi di produzione. Non bisogna dimenticare quindi, che da questo punto di vista, il ruolo affidato dal centro alla periferia (soprattutto latino-americana) è stato di enorme rilievo.

(12) Naturalmente, parlare di valorizzazione periferica ha comunque un significato relativo, dato il legame di subordinazione che essa intrattiene con il centro capitalistico. Resta però il fatto che l'interesse nazionale periferico si manifesta anche nella necessità di continuare ad alimentare in qualche modo una struttura sociale, produttiva, di mercato, ecc., che attorno a questi grossi centri per l'esportazione (in prevalenza di proprietà straniera) si era sviluppata e che condizionava oramai in maniera determinante l'intero assetto sociale del paese.

(13) Joan Robinson, Sviluppo e sottosviluppo, Edizioni Laterza, 1981, pag. 128.

(14) Cfr. Theotonio Dos Santos, La nuova dipendenza, Edizioni Jaca Book, 1971.

(15) Samir Amin. L'accumulazione su scala mondiale, Edizioni Jaca Book, 1970.

(16)

... Hong Kong non ha alcuna forma di indennità di disoccupazione e la maggior parte delle società paga il proprio personale solo nei giorni in cui si lavora... Non ci sono salari minimi e le limitazioni sul lavoro dei minori si applicano solo a chi non ha ancora 14 anni... Non esistono neppure indennità mutualistiche... Quasi la metà della popolazione vive in case popolari, l’80% delle quali non hanno acqua, bagni, né cucina. Le case private sono quasi altrettanto miserevoli...

Time, 20 dicembre 1976, citato in Sviluppo e sottosviluppo, cit., pag. 20.

(17) Alfredo Del Monte, Decentramento internazionale e decentramento produttivo, Loescher Editore, 1982, pag. 41.

(18) Ibidem, pag. 41.

(19) Metropoli e terzo mondo nella crisi, cit., pag. 136.

(20) Cfr. Ruy Mauro Marini, Il subimperialismo Brasiliano, Einaudi, 1974. I motivi sono evidenti: l'invasione delle merci e dei capitali centrali schiacciano il capitale periferico in una condizione di debolezza strutturale, costringendolo in continuazione a ricercare nel supersfruttamento del lavoro i motivi della propria valorizzazione.

(21) Cfr. Umberto Melotti in Terzo Mondo n. 37/38, 1979.

(22) Non necessariamente il settore maturo coincide con il settore leggero.

Questi settori sono tutti ormai in fase di maturità del prodotto e quindi ridotto è il progresso tecnico incorporato nei loro manufatti. Il settore delle macchine utensili, che da più parti è stato indicato come un settore a elevato progresso tecnologico, in realtà non possiede tali caratteristiche. Esso necessita di una qualità di lavoro operaio molto qualificata, ma le maggiori innovazioni che lo concernono riguardano l'utilizzo di componenti e materiali provenienti dal settore elettronico e chimico. In particolare il tipo di produzione realizzato dalle piccole imprese nazionali non è a elevato progresso tecnologico ed è proprio nelle macchine utensili universali, che è la loro principale produzione, che è enormemente aumentata la concorrenza dei paesi in via di sviluppo.

Decentramento internazionale e decentramento produttivo, cit., pag. 28.

(23) Metropoli e terzo mondo nella crisi, cit., pag. 142.

(24) Ibidem, pag. 143.

(25) Il sottosviluppo e l'economia contemporanea, cit., pag. 132.

(26) Giovanni Arrighi (a cura di), Imperialismo e sistema capitalista mondiale, Liguori Editore, 1979, pag. 126.

(27) Metropoli e terzo mondo nella crisi, cit., pag. 52.

(28) Sutcliffe, in Owen e Sutcliffe (a cura di), Studies in the theory of imperialism, citato in Sviluppo e sottosviluppo, cit., pag. 134.

(29) II processo di sottosviluppo, Edizioni Jaca Book, pag. 178.

(30) ibidem, pag. 117.

(31) L'accumulazione su scala mondiale, cit.

(32) Cfr. Il subimperialismo brasiliano, cit. Il fatto che anche nei settori ad alta produttività lo sfruttamento operaio tenda a rimanere alto sta solo ad indicare le condizioni sociali dell'accumulazione come le rsponsabili ultime dei livelli medi della remunerazione del lavoro.

(33) L'accumulazione su scala mondiale, cit., pag. 35.

(34) lbidem, pag. 81.

(35) Metropoli e terzo mondo nella crisi, cit., pag. 35.

(36) Arghiri Emmanuel, Lo scambio ineguale, Einaudi, 1969.

(37) L'accumulazione su scala mondiale, cit., pag. 163.

(38) Ibidem, pag. 81.

(39) Non abbiamo considerato, per motivi di spazio, lo sviluppo del settore agricolo periferico in senso industriale degli ultimi decenni.

(40) Cfr. L'accumulazione su scala mondiale, cit.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.