La crisi del capitale tra oggettività storica e soggettività di classe

Tutto il presente storico del capitalismo è fortemente condizionato dall'andamento irregolare e contraddittorio di una crisi di ciclo che morde ormai da circa tre lustri; una crisi che s'è vestita delle apparenze più varie e che ha fatto spesso assumere toni allarmistici e, altre volte, ha fatto urlare allo scampato pericolo.

I cultori interessati di economia, i più indefessi servi di sua maestà il capitale, l'hanno etichettata con orpelli inattendibili, che non davano il segno della sua strutturalità, del suo essere connaturata al modo di produzione capitalistico, il che faceva speranzosamente pensare ad un suo quasi sicuro superamento, ad un suo graduale ridimensionamento, sino alla totale scomparsa mediante operazioni di alta chirurgia finanziaria e con interventi che di volta in volta venivano ritenuti i più efficaci per la guarigione del grande infermo.

Poco importava, ad esempio, che una scelta venisse a contraddirne un'altra o che la politica economica di un dato paese fosse l'esatto contrario di quella di qualche altro paese operante all'interno del medesimo circuito - finanziario e commerciale - del mercato capitalistico internazionale.

Dopo l'utilizzo di ogni forma di intervento politico ed economico pensabile, la crisi non ha ceduto di un passo e dopo la sequela di alti e bassi, di crolli parziali e ripresine (a dimostrazione dell'irregolarità contradditoria del suo procedere) si è aggravata facendo segnare, oggi, nella sua globalità e dimensione planetaria, uno dei punti più bassi mai prima d'ora toccati.

Non è qui nostra intenzione fare una analisi economica di detta crisi. Abbiamo già detto a sufficienza della sua natura legata strettamente alla legge della caduta del saggio del profitto e delle sue implicazioni sui meccanismi strutturali, sui meccanismi del sistema integrato del mercato mondiale.

Cionondimeno abbiamo tentato, in altra parte di questa rivista (vedi articoli “La crisi dell'URSS e dei paesi dell'Est” e “La crisi dell'impero americano”), di ribadire i punti fermi delle nostre analisi e di apportare i dovuti aggiornamenti quanto mai necessari in una situazione storica che continuamente si muovee temporaneamente diviene.

Ci preme qui, invece, guardare la crisi dal punto di vista dei suoi svolti politici, analizzare le linee di tendenza del corso storico e indicare le prospettive verso cui siamo avviati. Ci interessa insomma il problema specifico delle manifestazioni della crisi, di ciò che ha prodotto e di quanto si avvia a produrre. In ultima istanza guarderemo al fenomeno macroscopico del ritardo della risposta di classe a fronte di una situazione che oggettivamente porrebbe il problema della sua immediata ripresa e generalizzazione. Diciamo “potrebbe” e non “pone” poiché fra oggettività e soggettività non v'è relazione meccanica. La storia delle formazioni sociali, al cui interno si muovono le classi, è intimamente informata da contraddizioni che la dialettica rivoluzionaria può spiegare al di là di meccanicistici principi di causa-effetto; e di forzature deterministiche, ovviamente.

Il mondo è una polveriera. Vi sono aree pronte ad esplodere, altre da tempo già esplose, altre ancora che, beneficiando dei problemi altrui e delle altrui disgrazie, vivono per accumulare nuove contraddizioni e per amplificare i motivi, loro malgrado e nonostante tutto, di tensioni latenti e pur ben vive.

La intima connessione fra dette aree (a livello economico, politico e strategico) mette tutti sulla stessa barca, ma solo nel senso che nella tempesta che si preannuncia ben poche fra queste avranno una qualche possibilità di restarne fuori.

La miriade di situazioni ad alto rischio sono al tempo il risultato della gravità della crisi in corso e il presupposto di un nuovo, immane conflitto mondiale.

È questa l'unica strada che si offre al capitalismo per superare la sua crisi di ciclo e porre le condizioni di un nuovo ciclo di accumulazione. Il mondo va verso un nuovo conflitto mondiale e con esso, come carne da macello, va pure il proletariato non ancora in grado di porsi come alternativa alla politica bellica della borghesia internazionale.

Fra i problemi da affrontare tenteremo di dare una occhiata a quelli che si pongono e si porranno al proletariato mondiale tanto del “centro” quanto della “periferia” del capitalismo.

Corso storico e sue prospettive

Guardando alla crisi del capitalismo emergono dati inquietanti che impongono delle considerazioni di non scarso rilievo. Una prima considerazione riguarda il complesso delle contraddizioni che si manifestano a livello planetario sotto forma di tensioni fortemente caratterizzate: guerre localizzate, conflitti più o meno aperti, difficoltà nei rapporti fra stati e potenze imperialiste, disagi generalizzati fra le masse di qualsivoglia angolo della terra.

Tutto ciò non è il frutto di quelle endemiche concorrenzialità che pervadono in maniera “salutare” il modo capitalistico di produzione fondato sulla “equilibratrice” legge della domanda e dell'offerta. È il risultato del punto di gravità toccato dalla crisi di ciclo che ha esasperato tutte le sfere di attività - economiche, politiche e diplomatiche - in ragione di una “nuova” forma di concorrenzialità fondate sui motivi dell'urgenza e delle necessità più impellenti. Necessità che contengono il diritto alla sopravvivenza del capitalismo in quanto tale, che non può guardare in faccia nessuno: né paesi tradizionalmente amici, né, tanto meno, paesi da sempre ritenuti zone di conquista, terreno di caccia in cui esercitare le più vaste e profonde attività predatorie.

Così come gli Stati Uniti (all'interno dei quali la crisi s'era prematuramente annunciata) avevano avuto buon gioco di scaricare le loro difficoltà su paesi dell'occidente capitalistico (grazie alla forza di una economia che non aveva eguali a livello mondiale), allo stesso modo questi ultimi avevano tentato di rivalersi su paesi posti più in basso in quella scala gerarchica che tocca i suoi estremi fra l'opulenza e la povertà assoluta.

Alla stessa stregua, oggi, paesi come il Giappone, quelli di “nuova industrializzazione” (Taiwan, Singapore, Corea del Sud, ecc.) e, tutto sommato anche l'Italia, possono avvalersi dei vantaggi che possono derivarne dagli spazi lasciati scoperti dal “calo di presenza” degli stessi Stati Uniti all'interno del circuito commerciale e finanziario internazionale.

Breve parentesi. Ecco perché, ad esempio, si parla in questo momento in Italia di ripresa economica, di caduta dell'inflazione e di graduale superamento della crisi. I fondamenti della crisi, i motivi su cui fonda le sue ragioni, al contrario, non sono stati assolutamente sfiorati ed essa rimane nel medesimo punto di gravità che aveva caratterizzato i momenti più neri. Ciò è dimostrato dalla lettura di dati assai importanti che vanno dal ridimensionamento costante dei livelli occupazionali, dai tagli drastici alla spesa pubblica per ottenere sgravi finanziari ad uno stato che rischia di collassare, dalle nuove imposizioni fiscali per il reperimento di fondi di copertura a deficit colossali nella bilancia dei pagamenti.

Ma anche i paesi “reggitori” dell'economia mondiale (si pensi ai casi Germania e Giappone) non navigano affatto in acque tranquille.

Basterebbe comparare i dati del periodo precedente all'aprirsi della fase critica per avere un attendibile quadro della situazione reale. Per quanto avvantaggiati rispetto ad altri, hanno subito e subiscono un processo, con modalità e tempi differenziati, assai simile a quello di tutti gli altri paesi, laddove andremmo a riscontrare cali occupazionali drastici, a processi di ristrutturazione totale in molti settori della produzione, ad incrementi dei ritmi lavorativi che sarebbero sembrati impossibili solo dieci anni addietro.

Il problema della aumentata produttività del lavoro è comunque un portato quasi automatico della crisi. L'uso privilegiato delle macchine che ha sconvolto la composizione organica del capitale ha oggi raggiunto i livelli suddetti per esasperare lo sfruttamento della forza-lavoro. La macchina, è vero, non produce valore ma consente un massimizzato utilizzo della mano d'opera impiegata. Vale a dire che consente di ottenere un plusvalore massimizzato estorto alla “residua” forza-lavoro non emarginata dal processo produttivo. Gli effetti benefici di tale utilizzo si traducono in competitività delle merci e, soprattutto, nella messa in atto di una controtendenza tesa a tamponare e frenare la caduta del saggio del profitto.

Qualche dato esemplificativo può rendere lampante lo stato di difficoltà di quei paesi che per la loro forza economica, per il loro “modo di produrre” erano ritenuti “fuori dalla mischia” della crisi. Il mitico Giappone ha una crescita della produzione che passa dal 5,1% nel 1984 al 4,8% nell'anno successivo sino al 2,5010 del 1986. La disoccupazione si assesta sul 6%; licenziamenti massicci si sono avuti e altri sono stati annunciati nei settori siderurgici, nei cantieri navali, nelle miniere di carbone (8 su 11 saranno chiuse col conseguente licenziamento di 15.000 lavoratori) e nelle ferrovie dello stato. E si potrebbe continuare...

Un altro mito che crolla è quello tedesco. La disoccupazione registra in Germania un quasi 9%; la crescita industriale è bloccata a quota 1,5 (1986). L'economia non cresce più ed è ufficialmente annunciata una ripresa dei processi inflattivi su larga scala. Le esportazioni sono in ribasso e si sono registrate grosse perdite in moltissimi settori commerciali, quali non s'erano viste in precedenza. La tenuta o il rafforzamento del marco non è che il contraltare del graduale deterioramento del dollaro all'interno di un mercato che però vede sempre la divisa americana come il mezzo di scambio per qualsivoglia operazione commerciale o finanziaria, la qualcosa non potrà ritorcersi in definitiva che in maniera negativa anche sulla stessa economia tedesca che vedrà ridurre la competitività delle sue esportazioni. Anche in questo caso si potrebbe continuare.

Non diversa ci appare la situazione in quella parte del mondo che per anni era sembrato immune al deflagrare della crisi. E quella “parte del mondo” che va sotto il nome di blocco dell'Est (dove vige e impera il “socialismo reale”) o, se si preferisce, di “area del rublo”, contrapposta a quella del dollaro da quando gli schieramenti imperialistici, da Yalta in poi, han cominciato a far riferimento al cosidetto equilibrio bipolare, ruotante intorno a due principali blocchi contrapposti.

Parliamo ovviamente dell'URSS e dei suoi satelliti nonché della vasta rete economica e commerciale chiamata Comecon.

Se per anni l'area del rublo era sembrata non interessata dalla crisi, ciò era da attribuirsi a diverse cause. Innanzitutto al tipo di società che i paesi facentene parte si erano storicamente dato. Senza dubbio il capitalismo di stato, in quanto “collettore ideale” di tutti gli interessi capitalistici, era riuscito a configurarsi come un involucro politico abbastanza funzionale per tenere lontano gli effetti del fall-out provocato dal diffondersi della crisi nelle principali cittadelle del capitale. Non in virtù di una diversa sostanza politica quanto perché la centralizzazione, sul cui modello il sistema è basato, poteva evitare le più accanite lotte intestine fra i rappresentanti dei diversi settori produttivi e fare a meno, dunque, della spietata concorrenza che sempre più andava assumendo, in quasi tutte le parti del mondo, il carattere di vera e propria “guerra civile” di tipo commerciale.

La pianificazione statale, evitando ciò, poteva al contempo evitare ingombranti turbative mediante le quali il processo di crisi si sarebbe potuto sviluppare in tempi assai brevi.

Non è da sottovalutare nemmeno la relativa autosufficienza del Comecon che aveva potuto, per un certo periodo, tenere lontane le commistioni col resto del mondo e le contaminazioni di un mercato inflazionato e produttore di inflazione per semplice contatto (si parla in termini relativi: nella realtà nell'era dell'imperialismo nessun paese può evitare commistioni con altri. Ci riferiamo qui ad un “contatto” blando e, dunque, non profondamente influente).

Inoltre il basso livello dei consumi sociali non forzava soluzioni di massima produttività del lavoro; sic-del lavoro; sicché le ristrutturazioni sono state molto parzializzate e, soprattutto, diluite nel tempo e nello spazio (immenso) dell'URSS e dei suoi satelliti.

Ciò ha evitato l'esplodere della disoccupazione nei termini che conosciamo in Occidente, ciò ha evitato l'esplodere di fenomeni inflattivi anche se una tale politica avrebbe significato il possedere un peso specifico assai scarso all'interno del sistema di scambi nel mercato mondiale.

Cionondimeno la crisi ha maturato le sue ragioni, oltre che per contagio diretto, per motivi intrinseci al modo di produzione sovietico. Le cause suelencate hanno solo ritardato ma non impedito che la crisi si manifestasse e si ponesse oggi in termini assai preoccupanti.

Il “nuovo corso” di Gorbaciov non è l'illuminata (capitalisticamente) politica di un leader lungimirante ma, semplicemente, un riflesso delle tensioni che si sono accumulate in URSS a causa delle crescenti difficoltà e a fronte di una situazione che assume oramai i caratteri dell'urgenza.

Se andassimo poi a guardare l'area del sottosviluppo la situazione ci apparirebbe drammatica. A mille miliardi di dollari è salito il debito estero dei paesi del cosiddetto terzo mondo, un debito che fa rischiare la bancarotta all'amministrazione di moltissimi paesi; con le relative conseguenze.

Il problemaccio è stato definito la “mina vagante” per sottolineare l'imprevedibilità delle conseguenze che potrebbero essere causate da un ulteriore aggravamento della situazione. È la punta di un iceberg che ha dimensioni mastodontiche e coinvolge i tre quarti dell'intera specie umana.

L'area del sottosviluppo contiene al suo interno problemi di pura sopravvivenza per la stragrande maggioranza della popolazione, tassi di disoccupazione che arrivano ad oltre il 50 per cento e stratificazioni popolari che vivono nel perenne stato del pauperismo e, nel migliore dei casi, nelle condizioni assai precarie del sottoproletariato marginalizzato a tutti i livelli delle attività produttive.

L'inflazione ha toccato punte del 1000 per cento.

Ma ancora peggio stanno i popoli che fan parte della cosiddetta “geografia della fame”, che estende i suoi confini dalle fasce più marginali dei paesi del terzo mondo per arrivare all'estrema periferia del capitalismo internazionale. Popoli che vivono di elemosina, elargita dai paesi più ricchi per mettere a tacere la propria sporca coscienza, popoli devastati da antiche malattie, generate dalla malnutrizione e dalla mancanza delle più elementari norme igieniche corporali e ambientali.

La situazione complessiva descritta comprende, come abbiamo visto, zone economiche e politiche variamente differenziate; le quali, però, sono intercomunicanti e collegati da rapporti ben precisi. Rapporti di dominio, di predazione, di ingerenza a tutti i livelli, di sudditanza e sottomissione. Rapporti che quasi mai si svolgono nel modo più pacifico e che necessariamente sfociano in stati di tensione acuta.

Il mondo è costellato dalla presenza di tali tensioni che spesso degenerano in conflitti aperti (da sette anni imperversa la guerra fra Iran e Irak) e che assumono le connotazioni più diverse (dai colpi di stato alle lotte di “liberazione nazionale”, ecc.): sono il segno delle difficoltà incontrare dal capitalismo nel redimere le questioni interne al mercato mondiale.

La crisi spinge alla concorrenzialità più spietata. In tempi “normali” gli spintoni e le gomitate producono meno dolore. In tempi critici gli spintoni e le gomitate aumentano di frequenza e intensità sì che, molto spesso, generano risposte. Il capitalismo deve, per sopravvivere, farsi largo con la forza. Un colpo oggi, un colpo domani si sta in tal modo arrivando ad una situazione veramente esplosiva in cui le condizioni della degenerazione (allargamento e generalizzazione dei conflitti localizzati) si pongono ormai all'ordine del giorno. È aperta la fase che condurrà allo scatenamento di una nuova e immane guerra imperialista.

Perché la guerra "mondiale" non é ancora scoppiata?

Tutti gli episodi di conflittualità fra stati, potenze e superpotenze ci indicano una già messa in atto tendenza che ci condurrà verso un terzo conflitto mondiale. A livello oggettivo vi sono tutte le ragioni per il deflagrare di una nuova guerra generalizzata. A livello soggettivo, evidentemente, le cose non stanno così. Il processo che vede muovere le forze della soggettività è asimmetrico rispetto a quello espresso dalla situazione storica obiettiva. Se così non fosse la guerra sarebbe già scoppiata da un pezzo ed episodi come quello del Golfo Persico sarebbero stati in altri frangenti motivi validi per lo scatenamento del conflitto. Ma quali sarebbero le divaricazioni soggettive rispetto al processo che coinvolge tutto il mondo della struttura?

L'attenzione va rivolta principalmente a fattori che trascendono le iniziative dei singoli per essere collocati in un più vasto processo che vede gli equilibri internazionali non ancora definiti e delineati in funzione di ciò che saranno gli schieramenti bellici propriamente detti, quegli schieramenti che andranno a costituire i fronti della guerra.

Contingenze storiche han contribuito ad accentuare l'asimmetria del processo. Sicché notiamo che gli interessi (economici, politici e strategici) nel Golfo Persico di tutte le potenze hanno fatto alzare la voce un po' a tutti e tutti hanno sperato in funzione della tutela di tali interessi. Paradossalmente chi meno s'è fatta notare è stata l'Unione Sovietica; e nella presente fase dell'imperialismo, informata in tutto e per tutto dalla rivalità e dagli antagonismi fra USA e URSS, la cosa non ha mancato di suscitare qualche sorpresa. È forse venuta meno la portata della rivalità? No. Innanzitutto v'è da considerare che quando gli USA muovono il loro apparato, ciò vien fatto per perseguire obiettivi da grande potenza. La conquista di aree, o la semplice influenza su queste, è già di per se stessa una azione inibitoria nei confronti dell'imperialismo antagonista, un freno alle possibilità espansive del suo principale rivale. L'appannata risposta sovietica può segnalare l'evidenza delle difficoltà della sua situazione interna (i dati della crisi pur se frammentari e incompleti parlano chiaro) che la perestroyka gorbacioviana sta tentando di affrontare mediante un processo che sarà sicuramente lungo e traumatico.

Ma tutto il quadro delle alleanze si presenta ancora assai fluido e denso di incognite. Il protrarsi della crisi non mancherà di tracciare solchi profondi, all'interno dei quali scorreranno gli interessi di ciascuno che andranno a confluire in quelli di altri. In un processo inverso e parallelo, il cozzare di contrastanti interessi traccerà la linea di divisione fra quegli stati che si ritroveranno da parti opposte rispetto alla barricata eretta dalla logica perversa dell'imperialismo.

Altro aspetto da prendere in considerazione è la deterrenza rappresentata dalla questione nucleare. Una guerra combattuta nelle condizioni storiche di massima proliferazione delle armi nucleari si rende problematica per qualsivoglia, ipotetico fronte bellico. La teoria del “suicidio collettivo” verso cui incautamente ci avevano sentenziosamente predestinati gli apocalittici di turno, è risultata - e non poteva essere diversamente - assolutamente infondata. Il ritardo del deflagrare della guerra trova uno dei suoi motivi nell'inattuato disarmo nucleare (anche parziale) cui sembrano voler provvedere in un prossimo futuro i massimi rappresentanti delle massime potenze imperialiste.

Il summit fra Reagan e Gorbaciov, sbandierato come tenace volontà di pace, si rappresenta in realtà come un vertice finalizzato a far cadere le ultime barriere che impediscono alla guerra di scoppiare. Ciò a prescindere da cosa ne pensino realmente e soggettivamente i Reagan e i Gorbaciov. La guerra nasce da cause obiettive. I fattori soggettivi non ne sono che gli effetti scatenanti che possono in taluni casi essere ritardati o accelerati ma mai impediti.

Andare ad analizzare il complesso di circostanze che han sin qui impedito lo scoppio della guerra abbisognerebbe di una analisi specifica. Sarebbe altresì interessante una analisi di tutte quelle teorie improvvisate che tenterebbero di spiegare l'asimmetria del processo. Ne prendiamo a titolo esemplificativo solo una ed è quella che spiegherebbe il ritardo con lo stato della lotta di classe che, pur non essendo elevatissimo, sarebbe comunque sufficiente ad impedire l'evento bellico. Il proletariato, in altri termini, con le sue lotte, dimostrerebbe alla borghesia la sua indisponibilità nei confronti della guerra stessa.

È chiaro che nessuna guerra potrà mai essere combattuta senza la disponibilità (al combattimento e all'impiego nella produzione bellica) del proletariato e di tutte le classi lavoratrici. È evidente che senza un proletariato accondiscendente e schierato nessuna guerra si renderebbe possibile. È evidente, ancora, che un proletariato in piena fase di ripresa della lotta di classe sarebbe dimostrazione dell'insorgere di una precisa controtendenza, quella dell'antitesi alla guerra, della marcia verso la rivoluzione socialista.

Siamo in presenza, purtroppo, di un fenomeno inverso. Abbiamo una crisi a livelli di gravità altissimi. La tendenza alla guerra marcia a passi veloci ma il livello dello scontro di classe, per contro, è assolutamente al di sotto di quanto la situazione oggettiva imporrebbe; è al di sotto rispetto a quanto sarebbe necessario per contrastare i pesanti attacchi lanciati dal capitalismo al proletariato internazionale.

La crisi del capitale - Falso dilemma: guerra o rivoluzione?

Non si vuole con ciò dire che il proletariato sia (o sia stato) immobile, affogato sotto il peso dei condizionamenti massivi delle ideologie borghesi. Episodi di lotta, anche grandiosi ve ne sono stati e ve ne sono. Guardando allo scenario internazionale e facendo una rapida conta delle lotte in corso ci apparirebbe come vera la teoria che vede il proletariato “in piedi”, in marcia verso la soluzione rivoluzionaria.

Ma la realtà è sempre più complessa; laddove dovremmo evidenziare il carattere e il livello di queste lotte. Lotte che non hanno superato il carattere episodico e che non hanno raggiunto né la necessaria radicalizzazione (a parte alcuni casi) né l'opportuna generalizzazione.

Una valutazione esagerata dei fenomeni legati all'attuale stadio delle lotte di classe porterebbe, per pura estensione (e infatti qualcuno è stato portato) a vedere nel presente corso storico proprio la tendenza che marcerebbe verso la soluzione rivoluzionaria, anche se a passi lenti. Ciò pone il falso dilemma: “Ci stiamo avviando verso la guerra imperialista o verso la rivoluzione proletaria?”

Non vi sono due tendenze che si oppongono e si fronteggiano. Il capitalismo impone al corso storico una sola prospettiva: la guerra imperialista. La crisi impone al corso storico una dominante assoluta che è la tendenza alla guerra, per riaprire ad un nuovo ciclo di accumulazione capitalistica.

La rivoluzione non è una tendenza parallela, ma il difficoltoso divenire di un antitetico processo che scaturisce dalle contraddizioni del tessuto economico e politico del capitalismo; che, dunque, si afferma come sintesi dopo aver messo in moto gli antagonismi al modo di produzione capitalistico e alla classe che di questi ne è la diretta espressione, la borghesia.

La situazione ci mostra che questo processo, che si attizza solitamente nelle fasi finali della crisi di ciclo, non si è ancora prodotto, almeno nei termini di una reale contrapposizione di classe.

La classe operaia è in questa fase debole nei confronti del capitalismo; la prova di questa debolezza è data dalla debolezza estrema delle forze rivoluzionarie che stentano a riprendersi e a portare in avanti il processo di coscientizzazione delle avanguardie proletarie le quali si muovono spontaneamente ma senza un chiaro disegno di prospettive.

Il ritardo delle forze rivoluzionarie sta tutto nelle metodologie borghesi di gestione della crisi capaci, più di prima, di governare i meccanismi economici e sociali e di influenzare e manipolare in maniera totalizzante tanto le coscienze degli individui quanto la coscienza collettiva del proletariato.

Non vedere la realtà così com'è induce ad errori grossolani, all'esaltazione di mitologie operaiste, a perdere il senso dei processi in corso e delle tendenze che si vanno delineando.

No, il corso rivoluzionario non si è ancora aperto. Qualcosa si muove, è vero, ma perché si possa parlare di corso rivoluzionario la classe dovrà fare più di un passo nel cammino della ripresa delle lotte; soprattutto bisognerà che riprenda fiato, corpo e sostanza il programma rivoluzionario nella classe.

Affinché ciò possa rendersi possibile saranno necessari scontri di grande portata in cui, attraverso avanzamenti e sconfitte, il proletariato potrà maturare la necessità di liberarsi sia delle catene materiali da cui è avvinto, sia dei paludamenti ideologici borghesi che inibiscono il cammino verso la propria emancipazione.

Errori di interpretazione

La frammentarietà delle lotte attuali relega gli sforzi proletari nell'episodicità e nella impossibilità della loro unificazione.

L'unificazione delle lotte è la condizione per uscire dalla settorialità e per far sì che ogni singola lotta diventi un momento di un unico, vasto e potente movimento di classe. Unificazione per consentire a ciascuna lotta di divenire il motivo per l'innescarsi di altre, in una reazione a catena, e infondere spessore e coscienza critica alle masse lavoratrici. La settorialità e l'episodicità impediscono il processo di presa di coscienza e frustrano, piuttosto che incoraggiare, ogni disponibilità a portare gli antagonismi al capitale allo stadio di radicalità assoluta.

L'interpretazione meccanicistica del marxismo rivoluzionario suole rivendicare, ma a parole, la dialettica materialistica come metodo di conoscenza della realtà. Nei fatti invece succede che si debba impigliare nella rete della automaticità delle interrelazioni fra oggettività e soggettività (umana). Ne risulta che ad ogni causa debba a tutti i costi corrispondere un effetto. La formula si esprime più o meno nel modo seguente: a cause oggettive (la crisi) devono corrispondere effetti soggettivi (risposte di classe). Succede così che si possano scambiare lucciole per lanterne e che fattori determinati possano essere visti come fattori determinanti.

È così che si travisano i fatti per soddisfare gli assiomi del formulario e far funzionare a tutti i costi regole che di dialettico hanno solo il nome.

Ciò che al massimo sono i primi sintomi di una futura ripresa dell'iniziativa di classe, viene erroneamente riconosciuto come una semovente tendenza verso la realizzazione rivoluzionaria, in alternativa alla tendenza borghese proiettata verso la guerra imperialista.

Ma il problema, presenta delle varianti. Se c'è chi considera, tutto sommato, che il ciclo attuale di lotte possa essere definito una più o meno adeguata risposta alla crisi, v'è anche chi, di fronte alla medesima crisi che si aggrava, ritiene abissale il ritardo con cui si manifesta il processo di crescita delle forze rivoluzionarie.

Allora ci si va ad interrogare su cosa non ha funzionato; ci si interroga sulla validità o meno del tipo di intervento nella classe sin qui praticato e si verificano le pecche e gli errori commessi.

Autocritica dunque. Ma si va oltre: l'intervento così concepito è “contenuto” nella metodologia di intervento del marxismo rivoluzionario.

Dubbio: che il marxismo abbia delle pecche di metodo o di struttura teorica? Proprio così; allora va tutto messo in discussione e si avvia un “dibattito interno” dal quale dovrebbero scaturire nuovi modelli di intervento.

Ancora: il movimento che avrebbe dovuto essere espresso dalla crisi non esiste? Lo si inventi. La classe non ha ancora espresso il suo organo di direzione politica? Nel movimento (inventato) si creeranno le ragioni per una sua larga influenza nella classe (assente).

Tali fughe in avanti, dettate da “impazienza rivoluzionaria” dove avrebbero potuto parare? Nel caos prima e nel totale scompaginamento dell'organizzazione che le aveva promosse poi.

La storia insegna che a nessuno è dato di modificare una precisa situazione oggettiva mediante semplice profusione di meri atti volontaristici. Il movimento è espresso da una data situazione obiettiva o non è. Il fatto che la borghesia può oggi fare il bello e il cattivo tempo non ha relazione diretta con ciò che i rivoluzionari hanno o non hanno fatto o con le “esattezze” e gli “errori” che abbiano potuto aver commesso. Pensare diversamente significa attestarsi su una forma di idealismo che condanna all'opportunismo. E la via dell'opportunismo ha sempre condotto a ben più tristi risultati.

I pochi illuminanti esempi

Riconoscere che il corso rivoluzionario non s'è ancora aperto non vuol dire ignoranza delle manifestazioni di lotta che quotidianamente il proletariato promuove e vive. Non significa nemmeno, come da qualche parte ci proviene l'accusa, possedere una visione “localistica” che misurerebbe lo spessore della lotta di classe col metro di ciò che avviene in Italia o, al massimo, nella sola Europa.

I rivoluzionari, che come noi hanno condotto una seria analisi dell'imperialismo e delle sue crisi, sanno bene che il movimento della classe va osservato a livello planetario poiché planetario è il dominio del capitale e, dunque, planetaria dovrà essere la rivoluzione proletaria.

L'aprirsi della crisi di ciclo ha comportato serissimi e gravi problemi al proletariato internazionale. Ciò non poteva non aprire la fase di più sentite conflittualità pur se il livello complessivo dello scontro è al di sotto delle risposte che il livello di gravità della crisi imporrebbe.

È perché la maturazione (aggravamento costante)della crisi e la maturazione della coscienza di classe stanno marciando su “tabelle orarie” diverse. Cionondimeno si sono avuti fulgidi esempi di lotte che hanno testimoniato, contro i sostenitori di una classe operaia ormai inesistente o “diluita nella società” (e dunque priva della sua omogeneità e forza sociale), a favore della presenza vivissima di una classe operaia sempre pronta al risveglio nel momento in cui il capitalismo osa più di quanto le “comuni abitudini” abbiano capacità di sopportazione.

La memoria corre principalmente alla Polonia (1980), ai minatori inglesi (1983), alle lotte dei ferrovieri francesi (1986), momenti acutissimi del conflitto di classe (ma senza dimenticare i grandi scioperi del proletariato belga e tanti altri episodi di cui abbiamo detto e scritto nel momento in cui questi si erano manifestati).

Polonia

Cos'era successo in Polonia nell'agosto ormai lontano del 1980? È successo che un vasto movimento di dissenso, che aveva preso corpo nel lungo periodo erosivo della crisi e di sopportazione della politica affamatrice dell'URSS, era riuscito ad esplodere, a portarsi sulle piazze e a mettere in seria difficoltà il regime, il quale s'era dovuto difendere col famoso “auto-golpe” di Jaruzelzkij e con lo stato di assedio protratto sino alla sconfitta della classe operaia.

Il movimento s'era subito configurato come un movimento di classe, fortemente caratterizzato dalla presenza di parole d'ordine spontaneamente rivoluzionarie e dalla creazione di organi politici che non erano i soviet ma qualcosa che poteva esserne considerato l'embrione.

La capacità di autorganizzazione del proletariato aveva fatto assumere al movimento polacco le caratteristiche di una vera e propria sommossa popolare che avrebbe potuto travalicare anche i limiti delle più radicali rivendicazioni.

È chiaro che all'interno, come per ogni movimento di massa, c'era di tutto. C'erano gli intellettuali aspiranti al ruolo-guida di un processo che avrebbe dovuto condurre alla “libertà” (occidentalisticamente intesa), c'erano i mestatori in funzione semplicemente antisovietica, c'erano i portatori di istanze ispirate da quel sentimento religioso che, per motivi vari, è tanto radicato in quel paese; un sentimento che ha ripreso vigore con la predicazione di quel “figlio illustre” di mamma Polonia appellato col nome d'arte di Giovanni Paolo II, al secolo Karol Woytila.

Ma, ciò che più conta, c'era la classe operaia, con le sue problematiche sociali e i suoi più vitali interessi da rivendicare e realizzare.

Che il movimento dovesse estinguersi era nelle cose. In Polonia era assente una forza rivoluzionaria, era assente il programma comunista, erano assenti i quadri politici di un partito di classe che si fosse potuto porre come punto di riferimento, per indicare le prospettive ad un movimento spontaneo che, sebbene radicalizzato, rimaneva confuso e privo di un progetto politico.

La necessità di un progetto è forse stata la causa che ha progressivamente indirizzato il movimento verso le forze emergenti del sindacato “libero” Solidarnosc, capeggiato da forze retrive e legato a santa madre chiesa.

Che il sindacato sia stato imposto alla classe operaia, come spesso s'è detto, è una forzatura. Ricordando Lenin diciamo piuttosto che la spontaneità della classe è sempre costretta a muoversi nei limiti angusti del tradunionismo e che nessuna rivoluzione sarà mai possibile senza l'intervento di un partito rivoluzionario in grado di prendere la direzione delle lotte per far loro compiere il salto di qualità, dallo spessore puramente rivendicativo a quello dello scontro diretto contro la borghesia e il suo sistema politico ed economico.

Le lotte dei minatori inglesi

Altro grande esempio di lotta proletaria che aveva preso l'avvio in risposta agli attacchi del capitalismo britannico che, col governo laburista prima e con quello conservatore della Thatcher poi, aveva deciso di chiudere i pozzi obsoleti mettendo in discussione un considerevole numero di posti di lavoro. La lotta è durata quasi due anni. Un periodo enorme che aveva messo a dura prova la capacità di sopportazione (e di sopravvivenza) dei minatori inglesi i quali però, stringendo i denti, rimanevano ben fermi e decisi a non mollare.

La lotta dei minatori inglesi, per la sua intensità ed estensione - e per la solidarietà che aveva fatto scattare in strati diversi del proletariato inglese e internazionale - ha travalicato i limiti della settorialità. Inoltre s'era posto in contrapposizione allo stato e aveva accantonato la fiducia sulla sua pretesa neutralità avendolo riconosciuto come il braccio esecutivo del capitalismo.

Anche in questo caso però l'assenza di forze rivoluzionarie ha favorito sindacati come il NUM di Scargill, il TUC e lo stesso Labour Party di cui questi ultimi ne sono la quasi diretta emanazione.

Il processo di identificazione fra i minatori e tali forze non s'è consumato sino in fondo. Ma si rappresentavano come le “alternative” possibili, fuori dalle quali si sentiva l'impotenza della propria condizione di isolamento. In tal senso va visto come un cedimento e come una scelta obbligata al contempo. La “scelta obbligata”, d'altra parte, non poteva non far esaurire le potenzialità delle lotte facendole rifluire all'interno delle compatibilità col sistema borghese.

Le forze rivoluzionarie che han tentato di operare all'interno dei grandi scioperi dei minatori inglesi, pur con tutta la buona volontà, erano troppo esigue per svolgere in maniera appena sufficiente il loro compito. C'è chi aveva preso atto di ciò pur continuando a svolgere un lavoro di intervento minimale ma c'è stato anche chi ha sostenuto le forze della borghesia (TUC, NUM e LP) considerandole i reali rappresentanti, in quel momento, della classe operaia.

Si badi, non si è teorizzata la “penetrazione” finalizzata alla chiarezza e alla denuncia di ciò che realmente tali forze erano. Le si sono appoggiate apertamente, senza rinunciare (sforzo veramente encomiabile!) alla critica di principio. Le si sono appoggiate in quanto “forze progressiste” in contrapposizione a quelle “reazionarie” rappresentate dal “retrivo” governo dei conservatori capeggiato dalla signora di ferro.

Ciò non è opportunismo. Noi lo chiamiamo - tout-court - passaggio dall'altra parte della barricata.

L'esempio dei ferrovieri francesi

Il punto di forza del movimento dei ferrovieri francesi è di essere partito in maniera autonoma, fuori dai sindacati e contro la loro volontà. Come sempre più spesso accade, le lotte dimostrano che i sindacati non sono più necessari e che se ne può non solo fare a meno ma è necessario rompere gli argini del sindacalismo.

I sindacati si frappongono fra le spinte operaie e le possibilità reali di promuovere lotte degne di tale nome. Hanno oggi il solo scopo di dividere la classe, di paralizzare le lotte e garantire, per quanto è loro possibile, la pace sociale.

Altra caratteristica del movimento era stata la capacità autorganizzativa esercitata da assemblee generali e da comitati di sciopero eletti direttamente e direttamente revocabili.

Il macroscopico limite del movimento può essere individuato nel non aver saputo rompere le barriere del corporativismo e cioè di non essere stato capace di estendere e generalizzare le lotte agli altri settori della classe operaia. Ciò ha favorito il processo che lo ha visto riconsegnarsi nelle mani di quei sindacati di cui prima, e con vanto, aveva fatto a meno. Il “tramite” sono stati i rappresentati di quelle “avanguardie di lotta”, di quel “sindacalismo di base” che erano espressione delle più diffuse organizzazioni gauchistes.

La sconfitta s'è poi consumata con la delega al sindacato di negoziare con lo stato; un sindacato (la CGT) che nel momento di riflusso, demagogicamente, invitava ad estendere le lotte, trascinandole al prolungamento di uno sciopero che aveva il solo scopo di stremare la resistenza già vacillante dei lavoratori. Il fallimento è stato totale nonostante le ottime premesse che avevano caratterizzato il movimento. Un fallimento che si ripeterà puntualmente sino a quando non si sarà aperto il corso rivoluzionario e la fase di una sostanziale possibilità di intervento del partito di classe.

I problemi del proletariato nel “centro” e nella “periferia” del capitalismo

La situazione generale del proletariato, visti i livelli di gravità della crisi, è di grave disagio. Le condizioni di vita di tutte le masse lavoratrici sono destinate ad aggravarsi nella misura in cui lo stato di malattia del capitale si aggrava. Pertanto potremmo immaginarci, al di la delle previsioni sui “tempi tecnici” coi quali si potranno realizzare, risposte operaie commisurate al livello dell'accresciuto disagio.

Esistono dei limiti, non meglio precisabili, al di là dei quali l'asimmetria del processo (fra situazione oggettiva e risposte di classe) potrà ricomporsi e dar luogo ad una fase di netta ripresa della lotta di classe, una fase di lotte caratterizzate da profonda radicalità, da propensione “automatica” alla generalizzazione, da spiccato orientamento alla riappropriazione di contenuti classisti tendenti alla conquista di una completa autonomia rispetto alle forze borghesi variamente cammuffate. Soprattutto rispetto ai sindacati, autentici cogestori della crisi del capitalismo.

Questo vale per il proletariato del cosiddetto “centro” del capitalismo quanto per il proletariato della cosiddetta “periferia”.

C'è chi vorrebbe differenziare la strategia dei due “tipi” di proletariato in quanto diverse sarebbero le condizioni in cui i due “tipi” vivono. È inutile ribadire che differenze ve ne sono, e non di poco conto; ma le regole imposte dall'imperialismo hanno unificato oltre che le economie di tutto il mondo, anche i problemi del proletariato, le sue strategie di lotta e le prospettive sociali di tutti i lavoratori.

Dove stanno le differenze? Stanno in una diversa situazione generale e in una diversa condizione materiale di vita che i due “tipi” sono costretti a subire.

Nelle metropoli imperialistiche, con l'uso massivo delle macchine i lavoratori sono costretti ad uno sfruttamento disumano dovuto all'altissima produttività del lavoro raggiunta dagli apparati della produzione. Le sue condizioni materiali si sono aggravate e da un punto di vista dello stress dovuto al modo di lavorare e da un punto di vista economico, come risultanza dei continui attacchi condotti dal capitalismo in crisi.

Ciononostante gode ancora di ampi “privilegi” se si dovesse raffrontare il suo tenore di vita con quello del-proletariato delle aree del sottosviluppo. Un tenore di vita parzialmente sostenuto da diversi fattori (cassa integrazione, doppio lavoro, lavoro nero, percezione di più redditi nella stessa famiglia e così via). Aggiungiamo che anche questi sono motivi che han contribuito non poco alle cause del ritardo della ripresa dell'iniziativa di classe (almeno in Occidente).

Dall'altra parte, nelle aree sottosviluppate abbiamo invece un proletariato che vive in condizioni miserrime, ai limiti della sopravvivenza fisica. È un proletariato che subisce il peso di uno sfruttamento doppio: quello perpetrato dalla propria borghesia, quello perpetrato dall'imperialismo che utilizza tali aree in funzione esclusivamente predatoria. Se i bisogni e le necessità primarie sono la base di partenza per adeguate risposte in forma di lotta di classe, molti si chiedono perché il proletariato dei paesi dominanti faccia anch'esso fatica a ritrovare la via di una ripresa di iniziativa.

Se è la fame la molla che porta alla rivolta perché nelle aree dove vige la fame più nera il proletariato è fermo?

Vi sono livelli diversi da prendere in considerazione. Innanzitutto non è vero che il proletariato è fermo. Se si desse un rapido sguardo alle aree della periferia si potrebbe immediatamente notare lo stato di esplosività da cui sono caratterizzate. Le lotte sono semplicemente “deviate” e assumono forme disparate: la forma specifica delle lotte di “liberazione nazionale” (vedi proletari palestinesi o afghani), quella della guerra civile (come in Libano o in Nicaragua), quella, ancora, della guerra fra stati (dove proletari iraniani e iracheni si macellano a vicenda). L'elenco non si fermerebbe qui se non fossimo tiranneggiati da motivi di spazio.

È un segno lampante di come la borghesia indigena sia riuscita a incanalare il malcontento di classe nell'alveo del nazionalismo più bieco, delle crociate religiose (abbiamo ancora le “guerre sante”) o delle promesse di “cambiamento” tanto agognato quanto più è drammaticamente atteso per por fine allo stato di estremo bisogno a cui il proletariato indigeno è incatenato.

Ma v'è ancora un livello più basso; dove la fame regna sovrana, dove si muore a milioni ma dove, men che meno, si intravedono segni di iniziative di classe.

Vi sarebbe qui da considerare lo stato della composizione delle classi per andare a verificare, nonostante la presenza dominante del modo capitalistico di produzione, un tessuto sociale basato su funzioni precapitalistiche e dove la gran massa del popolo, per l'arretratezza economica e produttiva di tali paesi, non ha mai lavorato in una fabbrica o in qualunque altro ambiente di lavoro. Siamo in presenza di paesi in cui il proletariato non è del tutto assente ma è minoritario e si inserisce, tutto sommato, in una zona di “privilegio” se raffrontato alle condizioni delle fasce dell'emarginazione assoluta che rappresentano quasi la regola generale.

Questi popoli hanno difficoltà a riconoscersi anche come semplici masse, tanto sono frammentati, isolati in individualità rassegnate o fortemente condizionate da motivazioni mistico-religiose da sempre inoculate dal potere per abbassare i livelli di dignità umana e fare sprofondare la coscienza nel fatalismo che è sempre inappellabile. In queste aree della terra sembrerebbe valida la teoria delle tappe intermedie; di un processo, cioè, che necessiterebbe, ancor prima della rivoluzione proletaria, una rivoluzione democratico-borghese in grado di mettere in atto uno sviluppo su basi capitalistiche e, parallelamente, lo sviluppo di un proletariato moderno. Solo in seguito, a processo concluso, si potrebbe pensare ad una ipotesi di rivoluzione proletaria.

È possibile una tale strategia? No. Per quanto massimamente marginalizzati, anche tali paesi fanno parte di un'unica, complessa realtà, quella dell'imperialismo, dove sviluppo e sottosviluppo sono due facce della stessa medaglia, dove esistono tutte le ragioni obiettive del superamento rivoluzionario.

È quasi certo che non sarà uno di questi paesi a proporsi come l'iniziatore della catena dell'evento rivoluzionario a scala mondiale. Ma è anche vero che in questi paesi può maturare, più in fretta che altrove, una radicalità e un ribellismo che, giustamente indirizzati, possono rappresentarsi come una potente massa d'urto nella strategia rivoluzionaria del proletariato internazionale.

Ma a parte la “geografia della fame”, v'è una grandissima potenzialità rivoluzionaria in tutta l'area dei cosiddetti paesi in via di sviluppo.

È da ritenere probabile che in questa area si verificheranno, in un prossimo futuro, movimenti facilmente orientabili da un punto di vista proletario. Qualche sintomo di un tale processo è dato dalla frequenza con cui nascono piccoli gruppi di minoranze rivoluzionarie. Se ciò è poco è comunque un segno di una realtà che si muove.

Anche in queste aree i rivoluzionari non propongono tattiche diversificate rispetto al generale programma comunista ma punteranno, a partire dalle specifiche rivendicazioni adattate allo specifico clima di lotta, direttamente alla dittatura del proletariato. Il lavoro di agitazione, propaganda e lotta dei rivoluzionari tenterà di accentuare i caratteri di classe del movimento di lotta e, dunque, la sua unità di fondo con le lotte del proletariato nei paesi del “centro” del capitalismo.

Nel punto 14 delle nostre tesi sui paesi periferici (Prometeo n. 9, 1985) si può leggere:

... Ai proletari e ai diseredati ai quali l'occupazione straniera appare come la causa dei loro mali i comunisti non indicheranno la conquista dello stato nazionale, bensì la conquista di più umane condizioni di vita e di lavoro, l'unità di classe coi proletari di tutti i paesi, verso il comune obiettivo della dittatura del proletariato e del socialismo internazionale.

La strategia comunista è unica e mira all'abbattimento del capitalismo, all'instaurazione della dittatura del proletariato, alla costruzione di una società socialista. Le tattiche, che potranno “variare” in rapporto alle diverse condizioni dei vari paesi in cui si lotta, vanno informate all'unicità della strategia comunista.

Se ad esempio nei paesi metropolitani l'opposizione alla borghesia dovrà significare opposizione netta alle sue operazioni imperialistiche nel mondo, allo stesso modo, nei paesi periferici, dovrà significare opposizione alle mire nazionalistiche della borghesia indigena, entro cui vengono ingabbiate le istanze di classe del proletariato.

Sarà compito delle forze rivoluzionarie definire nei particolari, nelle specifiche situazioni e nelle dinamiche reali del movimento di classe, le linee di agitazione per l'affermazione del programma comunista che dovrà informare il proletariato di tutto il mondo. Ma è auspicabile che ciò si realizzi in fretta. È pertanto necessario uno sforzo smisurato delle avanguardie di classe (al di là di quel vacuo volontarismo, fine a se stesso, autoconvinto di poter muovere le montagne), per accelerare i tempi della ripresa della lotta di classe, prima che la guerra imperialista travolga il mondo per riproporre, in nuova versione, il capitalismo e le forme specifiche del suo dominio a livello planetario.

Franco Migliaccio

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.