La guerra, la classe e le forze politiche che vi si richiamano

I problemi politici posti dal conflitto del Golfo

Nell'esaminare i problemi politici posti dalla guerra del Golfo e dal successivo precario cessate il fuoco, occorre tornare a tratteggiare sinteticamente (giacché è il tema monografico di tutto questo numero di Prometeo) il quadro che ci si trova di fronte e in prospettiva: sia sul terreno della borghesia e delle sue tendenze, sia sul terreno della classe operaia internazionale.

Sul terreno borghese

Con la guerra del Golfo si è aperta la fase in cui le potenze capitaliste mondiali spostano la competizione fra loro dal terreno della concorrenza industriale finanziaria e commerciale a quello dell'esercizio aperto della violenza. Per ora il colosso americano, scopertosi con i piedi di argilla, è riuscito a trascinare le maggiori potenze concorrenti dietro di sé, nell'impresa di affermare l'incontrastato dominio dell' occidente in quella zona, contro le velleità egemoniche di Saddam oggi e di qualcun altro domani. Ma la ragione stessa della presenza di tutti contro Saddam è la medesima che determinerà le prossime divisioni.

Il controllo monopolistico del petrolio da parte americana, infatti, svolgendo il ruolo di potentissima arma economica per cercare di uscire dalla crisi che attanaglia gli Usa, volgerà a danno di Germania e Giappone. Non mancherà quindi di suscitare reazioni. Queste potranno manifestarsi in modo indiretto, con le manovre diplomatiche sulla questione palestinese, o con dure risposte sul terreno economico finanziario che innescano altri meccanismi di scontro politico; sta di fatto che i movimenti di rimescolamento delle carte sul tavolo internazionale sono già accelerati.

La dinamica perversa che conduce alla guerra generalizzata si è avviata con il 17 dicembre 1990 o, se si preferisce, con il 2 agosto, ed è esattamente questa dinamica che sin dal suo inizio andiamo tenendo d'occhio e denunciando.

Sul terreno di classe operaia

Come ha reagito la classe operaia? In generale, sia nei paesi metropolitani, direttamente o indirettamente coinvolti nel conflitto, sia nei paesi mediorientali non ha reagito né si è mostrata quale soggetto autonomo di storia. Vale la pena ribattere il chiodo concettuale della soggettività di classe, che costituisce elemento descrittivo del passaggio fra i due stati, classicamente definiti, di classe in sé e classe per sé.

La soggettività della classe si esprime nel momento in cui essa agisce solidarmente nel confronto con la borghesia, su qualunque terreno. L'espressione della soggettività della classe si verifica a livelli diversi, anche diversissimi. Questi vanno dalla contrapposizione vertenziale fra i dipendenti di una impresa e la sua direzione-proprietà nello sciopero isolato, alla affermazione di una rivendicazione o protesta di tutti i lavoratori nello sciopero generale; fino alla espressione massima nella battaglia anticapitalista. E a questo livello che si verifica il salto qualitativo in classe per sé.

Quando la classe non si unisce come tale nella affermazione o difesa dei suoi interessi, anche elementari, sparisce come soggettività politica, atomizzandosi nei suoi singoli componenti, quali cittadini della società, singolarmente orientati su questa o quella forma della ideologia borghese, e schierati con questa o quella forza che occupa la scena politica.

Quando si muove al primo livello, di prima aggregazione più o meno formale per la difesa immediata degli interessi elementari, si presenta come oggetto di una possibile mediazione. E qui infatti che il riformismo o la socialdemocrazia tradizionale europea hanno storicamente giocato il loro ruolo: nel rappresentare politicamente, nel mediare il primo livello di soggettività della classe. La specificità reazionaria di quel ruolo consiste proprio nell'atto della mediazione politica, che è rappresentanza e inserimento del soggetto mediato nell'ambito dei rapporti sociali e politici di riferimento, quelli borghesi, e dunque all'interno delle stesse compatibilità, delle loro leggi e delle loro esigenze di stabilità.

Dal primissimo livello della soggettività di classe al salto qualitativo di classe per sé corre la stessa distanza che esiste fra il terreno del pacifico confronto con i padroni a quello dell'attacco contro di essi e il loro stato.

Tornando alla nostra constatazione di partenza, dunque, in occasione della guerra del Golfo la classe è sparita anche dal primo livello della sua soggettività; più chiaramente, in Italia non si sono avuti scioperi significativi, non si dice contro la guerra, ma, nel corso di questa, neppure per le elementari rivendicazioni salariali o normative.

Altrove qualche sciopero c'è stato, e significativo, ma isolato, senza la carica e senza la possibilità di estendersi neppure a tutto il relativo settore e dunque senza poter esprimere il riemergere di strati consistenti di classe. Ci riferiamo per esempio allo sciopero dei lavoratori delle piattaforme petrolifere inglesi nel Mare del Nord nell'agosto '90 per rivendicare misure di sicurezza più adeguate, ma con un riferimento esplicito di opposizione alla guerra per il petrolio, che non è riuscito, nonostante l'ottima impostazione, ad estendersi.

Non è qui luogo per tornare a esaminare dettagliatamente i rapporti fra questo dissolversi momentaneo della classe nella popolazione di cittadini "liberi e uguali di fronte alla legge", la specifica gestione della crisi attuata nei paesi metrolitani, la caduta verticale del blocco del socialismo reale e l'utilizzazione che ne ha fatto l'apparato ideologico politico della borghesia. Ripercorriamo solo sinteticamente i tratti generali che uniscono questi eventi o fenomeni.

La gestione del lungo periodo di crisi del ciclo di accumulazione da parte delle cittadelle metropolitane è stata caratterizzata da un parallelismo fra i due fronti, economico e sociale, che ha consentito di ridurre al minimo la percezione da parte delle masse proletarie della crisi stessa in quanto tale.

Usa e GB

Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna la scelta più o meno imposta della finanziarizzazione dell'economia, ovvero di privilegiare la funzione speculativa e parassitaria del capitale rispetto a quella produttiva, ha avuto come effetti rilevanti:

  • attrarre i capitali speculativi da tutto il mondo per reinvestirli sul terreno creditizio e finanziario internazionale;
  • determinare così, parallelamente a un relativo declino dell'industria, una crescita consistente del settore dei servizi, potente motore, sino a ora, della circolazione di quote imponenti di plusvalore, riscosso in forma di interesse dal mercato internazionale;
  • accelerare la circolazione di quote residuali di plusvalore in forma di reddito precario degli strati più deboli e marginalizzati del proletariato urbano;
  • compensare in parte, con questo fenomeno, il declino della occupazione industriale;
  • isolare gli strati residui della disoccupazione industriale alla condizione di proletariato marginale, privato delle condizioni stesse della azione solidale di classe e dunque impossibilitato a fungere da momento centrale e catalizzatore di una ripresa di iniziativa.

Più di trenta milioni di poveri ufficiali, con un reddito cioè inferiore alla soglia ufficiale di povertà, un milione circa di nuovi senza-casa, persone e famiglie gettate letteralmente sul lastrico da una precedente condizione di relativo benessere, sono la vergognosa caratteristica della prima potenza imperialista del mondo, di quel che amava definirsi il paese più ricco del mondo; sono la dimostrazione gridata che quella società è violentemente divisa in classi, delle quali la borghesia vera è minoranza. Eppure questa odiosa minoranza ha voluto la guerra e per essa ha mandato i figli della maggioranza, senza che questa abbia reagito.

Europa e Giappone

Negli altri paesi europei, e in Giappone, la scelta alternativa, ancora più o meno necessitata e strategicamente consapevole, di "uscire dalla crisi" lungo la strada dell'aumento di produttività e competitività del settore industriale produttivo si è accompagnata alla messa in opera di ammortizzatori sociali, da parte degli stati, efficaci a contenere la drammaticità dei costi della ristrutturazione. Così si è avuto:

un imponente fenomeno di ristrutturazione industriale sul piano tecnologico e organizzativo del lavoro, inizialmente finanziato dallo stato con la assunzione da parte sua dei pesanti oneri sociali conseguenti, e di iniziative previdenziali ad allargatissima scala;

un incremento drammatico della produttività, che ha consentito di strappare imponenti quote di mercato alla tradizionale potenza anglo-americana, e di erodere, sin quasi ad annullare, le già scarse possibilità di crescita della industria locale nei paesi periferici;

parallelamente al freno momentaneamente imposto alla caduta del saggio del profitto, un aumento della massa di profitti e delle quote di plusvalore riciclabili nella forma di contributi fiscali e sociali e nella alimentazione di quel circuito del reddito sommerso nelle cui nicchie sopravvivono milioni di disoccupati ufficiali, disoccupati cronici delle fasce sottoproletarie e di immigrati dai continenti della fame, per lo più esterni al mondo della produzione ufficiale, sebbene a esso funzionali come armata di riserva per il ricatto sui salari.

Anche in Europa e Giappone è cresciuto il dislivello di reddito e di condizioni di vita fra le classi, ma con un processo reso graduale, senza violente scosse, tale insomma da anestetizzare la percettività degli operai e comunque ridurre le spinte materiali che portano per prime alle aggregazioni elementari della classe sul suo terreno, pur sempre pericolose.

I sindacati

Qui, come negli Usa e negli altri paesi della metropoli come della periferia (dall'Australia all'India, dal Canada alla Tunisia, sebbene con formule ideologico-politiche diverse e differenti fraseologie) i sindacati si sono mostrati per quel che in realtà sono: organi di mediazione fra capitale e lavoro, funzionali da sempre alla sopravvivenza del rapporto salariato e oggi del tutto asserviti alla sua conservazione. La loro azione è stata del tutto coerente con la necessità di preservare e consolidare quanto più possibile la pace sociale, condizione imprescindibile per il successo delle terapie borghesi anticrisi e più ancora per quella più radicale della guerra imperialista.

In piena crisi del Golfo, immediatamente prima dell'esplodere del conflitto, in Italia si è concluso il peggior contratto dei metalmeccanici degli ultimi decenni. Dopo un anno di cosiddette trattative nelle quali alle finte rivendicazioni dei sindacati i padroni rispondevano con rotondissimi no, la mediazione governativa ha portato al di sotto di quanto rivendicato su tutti i punti, ma i sindacati si sono detti soddisfatti per aver respinto "il tentativo di rivincita del padronato" (Trentin). E chiuso quel contratto si sono dedicati alla difesa intransigente del capitale nazionale, dell'azienda Italia e delle aziende italiane, in palese violenta contraddizione con gli interessi immediati degli operai: dalla giustificazione della fiscalizzazione degli oneri sociali, alla accettazione di cassa integrazione per migliaia e migliaia di operai; dalla accettazione degli aumenti tariffari, alla collaborazione fattiva con i padroni nelle manovre per gli aumenti della produttività.

Anche negli altri paesi è risultato evidente l'impegno dei sindacati nell'evitare turbative della pace sociale, frenando o rimandando le rivendicazioni, chiamando alla solidarietà con il paese impegnato in guerra o comunque impegnato dalla crisi.

Dalla esperienza recente della guerra, dunque, chiun¬que può trarre questo primo insegnamento conclusivo:questi sindacati sono del tutto irrecuperabili a qualunque funzione di classe, per quanto elementare sia. Rifiutare questo principio significa porsi al di là del solco che separa le posizioni di classe proletaria da quelle borghesi e piccolo borghesi.

Possiamo considerare ancora interna al campo politico proletario la discussione se la ripresa rivoluzionaria passerà ancora attraverso la formazione di nuovi sindacati di classe, rossi o che dir si voglia o se invece, come è proprio del programma rivoluzionario, eventuali nuovi sindacati saranno da considerare veri e propri ostacoli sulla via della rivoluzione. Ma con chi sostiene la necessità oggi di recuperare i sindacati attuali e a questo fine lavora al loro interno, non esiste confusione possibile: è al di là della barricata.

E cosa che dobbiamo tutti tenere ben presente anche nel formulare le ipotesi e nel tracciare le linee di azione politica interne al processo di decantazione, chiarimento e aggregazione, verso la ricostituzione del partito internazionale del proletariato.

Stabilito questo, e anche per non perdere di vista le prospettive, va osservato che a questo definitivo schierarsi anche formale del sindacato al fianco del rispettivo capitale nazionale si accompagna spesso - ed è certamente il caso italiano - un calo della capacità di presa del sindacato medesimo sugli operai. Diminuiscono le iscrizioni, si dissolve la fiducia quasi cieca con la quale gli operai si affidavano al sindacato nella convinzione che questo difendesse realmente i loro interessi, cala la reale rappresentatività del sindacato come organizzazione dei lavoratori dipendenti. Non è un caso che siano state cambiate le strutture organizzative, con la nuova formula delle Rappresentanze Sindacali Unitarie sostitutiva di quella del sindacato dei consigli. Il ritorno di fatto alle vecchie Commissioni Interne del dopoguerra, gabellato come moderna innovazione, denuncia proprio la preoccupazione del sindacato di salvare in qualche modo la sua rappresentatività e presenza nelle fabbriche e negli uffici: anche se nessuno elegge nessuno, la presenza è assicurata.

Questo scollamento di fatto fra gli operai e la loro pretesa rappresentanza non segna però di per sé e automaticamente una ripresa di iniziativa autonoma, se la formazione sociale della quale la classe operaia è componente è ancora in grado di mantenere livelli comunque ritenuti accettabili dai lavoratori.

Di più, la frustrazione delle spinte rivendicative e alla difesa del posto di lavoro, il progressivo logorameno del sindacato quale momento associativo in cui si esplica il senso di appartenenza a una comunità (quella dei lavoratori dipendenti, separata e antagonista anche se solo sul piano contrattuale da quella dei padroni, dei bottegai e così via) lascia spazio, nell'immediato, a una pletora di fenomeni che non esitiamo a valutare come fenomeni degenerativi, di imbarbarimento della vita civile. Ne diamo solo qualche esempio, giusto per indicare il panorama che si stende sulla nostra via e non perdere tempo in escursioni sociologiche laterali.

Corporativismo, leghismi e simili

La rincorsa fra gruppi e formazioni sindacali ultracorporative in settori tradizionalmente d'avanguardia del movimento operaio è fondata sulla tendenza ormai diffusa a cercare in ambiti più ristretti la comunità di interessi in qualche modo difendibili sul posto di lavoro. Dalla classe alla categoria, dalla categoria alla mansione; oppure dalla classe al settore, dal settore all'unità lavorativa, questi sono i sensi di marcia appunto regressivi, obiettivamente reazionari, che i sindacati avevano originariamente avviato, che la borghesia è ben disposta ad assecondare e per i quali si trovano sempre demagoghi disponibili a far da capetti, all'interno della base stessa. Questo sul piano degli interessi immediati, relativi al lavoro e al posto di lavoro.

Il leghismo in Italia, invece, è la manifestazione di quarto accade a livello più generale politico. Il partito che si era presentato come il partito di opposizione, espressione degli interessi politicamente mediati all'interno delle istituzioni, dei lavoratori e degli oppressi, ha nei fatti e nella forma abbandonato questo ruolo nel mentre stesso gli altri partiti istituzionali mostravano la corda nell'amministrare centralisticamente un processo di ristrutturazione che così doveva essere gestito, ma con vergognose tendenze alla corruzione, all'accaparramento di buste e tangenti, alla identificazione con la malavita organizzata.

Nel quadro di disfacimento presentatosi, si è aggiunta così la tendenza ultrareazionaria delle Leghe, quale risposta in chiave localistica alla diffusa insoddisfazione per ciò che presentava il quadro nazionale.

Il leghismo avrebbe potuto rimanere espressione confinata degli strati più reazionari e beceri della piccola borghesia commerciale e imprenditoriale, se il quadro di riferimento fosse rimasto diviso fra i partiti in qualche modo di governo e una opposizione che fosse tale e fornisse una identità politica riconoscibile in qualche modo, per quanto ideologico e mistificato fosse come sin'ora, nella classe. Ma qui la campagna ideologica scatenata dalla borghesia in parallelo con la crisi dell'Est, ha trasformato, nelle coscienze intorpidite dei nazionalcomunisti, la crisi del socialismo reale in crisi del socialismo e delle sue categorie fondanti: la classe innanzitutto.

I picisti italiani, ora pidiessini si vergognano letteralmente di pronunciare la sola parola classe, ma non solo loro. Anche le loro frange presentatesi come nuova sinistra si vergognano di riferire la verità secondo cui la società è fondamentalmente divisa in classi, borghesia e proletariato, e inventano al suo posto un intreccio pauroso di categorie e concetti di ordine psico-sociologico nel quale alla fine neppur loro riescono a districarsi, e tanto meno vi si può orientare il proletario.

Sappiamo già che sostituire la sessantennale mistificazione del socialismo reale e del neo-socialdemocratismo con il ritorno ai principi e al programma rivoluzionario di classe non è processo subitaneo né semplice, per il semplice fatto che tale mistificazione è stata totalizzante e l'alternativa è ridotta ai margini.

In assenza della alternativa reale di una opposizione di classe, l'opposizione reazionaria e leghista può raccogliere anche fra gli operai e di fatto raccoglie. In altri paesi il meccanismo formale e specifico è certamente diverso (si pensi al frontismo di Le Pen in Francia o alla riscossa dei micronazionalismi nei paesi dell'Est) ma il senso della dinamica è il medesimo. Crollo di fatto dello stato sociale all'Est, crollo ovunque dell'idea di socialismo, crisi nelle masse dei concetti di classe, di interesse storico di classe eccetera; crescita comunque della insoddisfazione per lo stato di cose esistente, rifugio di un numero non indifferente di operai e proletari nelle posizioni interne all'ideologia e alla politica borghese, ma di opposizione, quindi volte drammaticamente all'indietro: nazionaliste, razziste, xenofobe, in una parola reazionarie. Il resto della classe è rimasto disperso nei partiti, tendenze, organizzazioni della scena politica borghese del paese così come si presenta dispersa la stessa massa borghese e piccolo borghese, in quanto massa di cittadini.

Questa che abbiamo tratteggiato è la condizione politica della classe operaia ridotta alla condizione di classe in sé, in cui si è calato l'evento guerra del Golfo. Non c'era da attendersi dunque una grande opposizione da parte della classe come tale. L'opposizione alla guerra si è manifestata invece come movimento civile, trasversale alle classi, sebbene fondamentalmente espressione del ceto medio.

Il pacifismo papale

la forza numerica e in qualche modo politica del movimento pacifista in Italia non può essere compresa appieno senza riferirsi alla posizione assunta dai vertici della gerarchia cattolica e massimamente dal papa.

È in fondo la chiesa ad aver dato fiato, impulso e argomenti al movimento pacifista tutto, al punto che era pacifista chi si schierava con le posizioni papali, essendo gli altri orientati verso il sostegno al fronte di Saddam o verso un confuso riferimento alle ragioni di un immaginario Sud contro l'imperialismo del nord capeggiato dagli Usa.

Lo stesso Pds, nonostante le famose radici che affondano in un rivendicato passato, non ha trovato altri riferimenti ideali e politici per la sua ondeggiante e schizofrenica posizione, che il papa.

Gramsci e Togliatti, nonostante rappresentino le radici, non sono più riferimenti citabili, Gandhi se lo era accaparrato Pannello per fargli dire che è giusto rispondere all'aggressore (Saddam) e sarebbe stato troppo complicato polemizzare sul cosa ha veramente detto il Mahatma. Cosa rimaneva? Il papa, che guarda caso diceva proprio quel che intendeva il Pds, anzi la sua sinistra: tre cose semplici sino alla banalità mistificante.

  1. Qui è in questione il controllo del petrolio.
  2. Scontato che Saddam è persona poco perbene, non è la guerra pagata dai suoi sudditi a risolvere il problema.
  3. Il nuovo ordine mondiale che l'Onu dice di volere non si può costruire seguendo la linea violenta degli Usa.

Le mistificazioni papali sostenute dal Pds sono insite nei due ultimi punti. Si accredita infatti così la tesi che ci sia un qualche modo per mantenere la pace e risolvere i problemi generati dalla aggressività delle potenze capitalistiche. Ma quella stessa aggressività è a sua volta generata dalla situazione di crisi senza via d'uscita che la sopravvivenza dei rapporti capitalistici di produzione determina a scala internazionale e nei singoli paesi. Il semplice appello di pace agli uomini di buona volontà non rimedia proprio nulla.

Si accredita poi la tesi che un nuovo ordine mondiale, a seguito della rottura degli equilibri di Yalta, sia possibile senza l'esercizio della violenza e in senso diverso da quello voluto dagli americani. Lo vogliamo nel senso desiderato oniricamente da Europa e Giappone? Eccolo: gli Usa accettano la sconfitta sul terreno della competizione economica e la riduzione al ruolo di potenza economica regionale, col controllo, finché dura, dell'America Latina; Europa e Giappone si spartiscono pacificamente le aree di influenza nel mondo restante, salvo il mettersi d'accordo fra europei nel presentarsi all'interlocutore russo; la Cina si presta a far da mercato in via di sviluppo per l'imprenditoria industriale e finanziaria giapponese; le borghesie africane aspettano fiduciose le briciole di cui ingrassare sui milioni di morti per fame nei loro paesi.

Oniricamente, abbiamo detto, in sogno, perché in realtà le borghesie europee e giapponese sanno benissimo che ciò è irrealizzabile a meno di una o più guerre e per ora si accontentano di stare a guardare da vicino, all'interno della coalizione internazionale anti-Saddam.

Il pacifismo del papa e del Pds puzza molto di preparazione al bellicismo su linee diverse e opposte a quelle americane.

Nell'immediato, ha fornito però alimento ideologico e politico all'orientamento pacifista di quella massa di cittadini che vi si sono riconosciuti in base al richiamo generico alla non violenza e alla istintiva difesa morale dei più deboli, le masse arabe martellate dal fuoco assassino della mega potenza mondiale.

Dal pacifismo degli intellettuali...

A esplicitare in termini di rivendicazione politica molte delle indicazioni papali e le proprie suggestioni idealiste, sono intervenuti poi duecento intellettuali italiani che hanno firmato un appello "Contro la guerra" al quale hanno poi aderito molti altri. Lo prendiamo in esame perché rappresenta la sommatoria delle fesserie innate nel pacifismo piccolo borghese e da esso diffuse. Ispiratori delle idee espresse nel documento appaiono Albert Einstein e Bertrand Russell,i quali erano pienamente legittimati a sollevare i gravi problemi per la sopravvivenza dell'umanità posti dall'ipotetico confronto bellico fra le superpotenze antagoniste di allora e a fare appelli accorato in merito; era una loro funzione di lucidi pensatori "in avanti" anche se necessariamente della borghesia. Non abbiamo mai detto che Einstein e Russell erano due fessi quando facevano i pacifisti; dicemmo e diciamo che i loro appelli generici ai valori universali dell'umanità potevano poco nei confronti di una formazione sociale e di un sistema politico fondati sul modo di produzione capitalista, di per sé generatore di guerre. Ma i due non hanno mai preteso di fornire le ricette per la soluzione politica del confronto in atto, cosa che invece i nostri intellettuali fanno.

Essi vorrebbero "dar voce all'inquietudine che cresce nel nostro paese, nella quale leggiamo il fermento confuso di quell'etica cosmopolitica che sola è all'altezza della nuova soglia dell'evoluzione umana". Strana lettura, vien da osservare innanzitutto, considerato che nella inquietudine in crescita nel nostro paese le leghe hanno letto e concretizzato ben altro. Sarebbe stato meglio scrivere "leggiamo anche" ... Così potremmo pure essere d'accordo che un fermento confuso di etica cosmopolitica è in atto.

Considerato che etica è la definizione dei valori morali e la formulazione dei giudizi morali relativi al comportamento umano, sui più svariati terreni, la sua natura cosmopolitica può essere solo intesa nel senso che l'etica si riferisce non più e non tanto ai rapporti fra il singolo e lo stato nazionale, ma fra il singolo e il suo contesto mondiale, oppure che l'etica si sta aprendo un nuovo ambito di indagine e di vigenza nei rapporti fra stati.

Potremmo essere d'accordo con la prima accezione del termine etica cosmopolitica, non assolutamente con la seconda. Innanzitutto perché la condizione previa per lo stabilirsi di una normativa etica fra stati è l'equilibrio concordato o imposto con la forza fra questi.

Infatti, la normativa morale dei rapporti fra individui, fra questi e la famiglia, e fra loro e lo stato, in qualunque formazione sociale di classe, ha sempre seguito o al più accompagnato (illuminismo e rivoluzione francese) lo stabilirsi della formazione sociale stessa come nuovo rapporto fra la classe dominante e le classi dominate. Secondariamente perché l'ipotetico maturare di un'etica dei rapporti internazionali non avviene nel confuso fermentare della società.

E vero invece che alla globalizzazione dei rapporti economici, alla mitologia diffusa del villaggio globale, si accompagna una certa tendenza in gruppi di cittadini delle formazioni sociali metropolitane - evidentemente distinti dai gruppi che vanno esattamente in senso opposto, con le leghe e simili - ad assumere nuovi punti di riferimento del pensiero etico ed essenzialmente la condizione dell'intera umanità, invece che solo della propria comunità nazionale. Ma ciò può risultare interessante nella prospettiva rivoluzionaria, mentre ci appare colpevolmente frustrante l'utilizzare queste spinte per iniziative di così basso e frustrante profilo.

L'etica cosmpolitica è la sola all'altezza della nuova soglia della evoluzione umana? E vero, ma la soglia deve essere varcata e a questo bisogna attrezzarsi, non certo per conservare il presente.

Segue poi la grande fesseria:

L'abisso che abbiamo di fronte è l'abisso fra Nord e Sud. Aperto dalla spregiudicata politica di potenza del regime iracheno e dalla risposta della coalizione guidata dagli Stati Uniti esso sta diventando, sotto le mentite spoglie di un'operazione di polizia internazionale promossa dall'Onu, una guerra feroce dagli interessi imprevedibili.

Tradotta in forma esplicita, questa formula risulta in questo, che lo scontro nel Golfo è scontro fra paesi ricchi e paesi poveri e rischia di crescere sulla base di questi fronti. E qui, ci pare, che il richiamo all'etica cosmopolitica svela il suo vero ruolo mistificante. Si fa appello al senso etico cosmopolitico dei cittadini per denunciare non già le responsabilità di un modo di produzione che dominando sul globo determina di per sé la morte per fame di milioni, la disperata miseria di centinaia di milioni, lo sfruttamento di miliardi di uomini per il trionfo nel lusso di pochi milioni. No, qui ci si appella all'etica cosmopolitica per indicare il falso schermo di un falso pe colo, dietro il quale si nasconde quello vero.

Il rapporto di sfruttamento non sarebbe fra borghesia proletariato del mondo intero, ma fra paesi ricchi e poveri. Le responsabilità non sarebbero della borghesi: internazionale ma dei popoli interi dei paesi ricchi.

I cittadini moralmente per bene dal punto di vista cosmopolitico, in quanto parte della comunità dei cattiv possono e quindi devono operare perché questo stato cose sia corretto. Infatti segue subito:

Per questo ci rivolgiamo ai nostri concittadini e idealmente a tutti gi uomini 'come esseri umani ad altri esseri umani', perchè nell'esercizio diretto della loro cittadinanza planetario [la soglia è per loro così già varcata - ndr] si adoperino in tutti i modi per mutare il corso tragico, ma non fatale delle cose.

... Indicazioni piccolo borghesi e reazionarie

Nel mutare il corso delle cose esistono obiettivi prioritari. Ecco il primo: "Mobilitare tutte le forze democratiche affiché il nostro paese rientri subito nella legalità repubblicana ritirandosi dalla guerra, che contrasta con l'art. 11 della Costituzione, e si faccia promotore di una soluzione pacifica del conflitto".

La legalità repubblicana torna improvvisamente a essere il riferimento etico fondamentale, oltre che politico di questi intellettuali, neppur sfiorati dal dubbio che la legalità e la salvaguardia di ciascuno stato siano a base dei conflitti fra stati.

Legalità è rispetto della forma e dello spirito delle norme fissate e non ha torto, in questo senso, Andreotti quando ricorda ai pacifisti più o meno intellettuali che la seconda parte dell'ormai famoso art. 11, non sancisce un principio assoluto, intoccabile e senza eccezioni, ma stabilisce che l'Italia...

consente in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

Non è l'Onu una organizzazione internazionale, alla quale anzi molti pacifisti chiedono di assumere il governo del mondo? Non ha dichiarato l'Onu che Saddam aveva violato la legalità internazionale? Ma i nostri intellettuali parlano di mentite spoglie di un'operazione di polizia internazionale promossa dall'Onu, implicando che l'Onu ha agito per conto e su ordine dei soli Usa. Questo è peraltro verissimo, ma la forma della legalità è rispettata, sia dall'Onu che dal governo italiano. Come rapportiamo allora la legalità nazionale a quella internazionale?

C'è da chiedersi chi volevano catturare ideologicamente con queste fole, visto che bastava dire "fuori le navi dal Golfo", come altri si sono limitati a dire. Quanto al farsi promotore di una soluzione pacifica, il governo italiano ha fatto il possibile, se non relativamente al conflitto, certamente rispetto al contenzioso complessivo che permane in Medio Oriente. Finita la guerra viene dunque meno l'obiettivo epocale posto al primo punto dai nostri intellettuali.

Veniamo al punto 2:

Richiamare l'attenzione di tutti e in particolare delle istanze politiche nazionali e internazionali sulle risoluzioni dell'Onu, riguardanti i paesi del Medio Oriente che sono rimaste disattese con la conseguenza moralmente intollerabile che il ristabilimento del diritto internazionale è oggi affidato a nazioni che lo hanno impunemente violato e continuano a violarlo.

Qui si ribattono due chiodi caratteristici della impostazione dei firmatari. Il primo consiste nel riconoscimento del diritto internazionale, come fonte di bene per l'Uomo. È ovvio, visto che la nozione di diritto internazionale è estensione di quella di diritto nazionale: accettata questa è accettata anche l'altra. Un primo insegnamento che veniva da questa guerra viene così radicalmente respinto. Contro la verità secondo cui il diritto internazionale è il paravento dietro il quale il capitale maschera la realtà dei rapporti di sopraffazione e di violenza, si afferma che esso è il criterio cui ci si deve ispirare. Bisogna pensare e agire cioè, ciascuno nel proprio paese in termini di paesi o nazioni contrapposte o cooperanti, non di classi di appartenenza.

A conferma di ciò si dice che le nazioni hanno violato il diritto internazionale e alle nazioni viene affidato, più o meno legittimamente, il suo ristabilimento. Non sappiamo se in qualche particolare saggio di funambolismo concettuale qualcuno dei suddetti intellettuali abbia assegnato speciali significati al termine nazione, ma il lettore medio quando ha qualche dubbio ricorre al dizionario che al lemma nazione spiega: "Il complesso degli individui legati a una stessa lingua, storia, civiltà..." Ne risulta che per questi veri e propri pennivendoli, responsabili dell'invasione di Panama e Grenada sarebbero anche gli squatters, i neri dei ghetti e gli operai delle fabbriche degli Usa; responsabili dell'invasione del Libano sarebbero i proletari e i braccianti di Siria al pari della loro borghesia, e via insultando.

Noi abbiamo cancellato il termine di nazione da quando neghiamo a essa ogni funzione progressiva, tanto-meno rivoluzionaria. Costoro lo recuperano in modo assolutamente reazionario, e hanno la sfrontatezza di dirsi progressisti.

Infine il gioiello di politica globale:

Denunciare e finalmente spezzare il nodo perverso fra diritto internazionale e logica di mercato - che porta ad ammantare con ragioni 'ideali' la pretesa occidentale di mantenere il dominio politico ed economico su questa regione: adoperandosi perché siano riconosciute le esigenze di giustizia e il diritto all'autodeterminazione delle masse arabe, rimaste povere accanto alle sorgenti della nostra ricchezza.

E un impasto infernale di mistificazioni e di insensatezza.

Partendo dal fondo: le masse arabe sono rimaste povere accanto alla ricchezza non nostra, ma della nostra borghesia e delle loro borghesie. Il diritto da rivendicare all'autodeterminazione delle masse arabe è solo il diritto a rovesciare i rispettivi governi, le rispettive borghesie e a marciare verso l'unità col proletariato mondiale per una produzione a scala globale dei bisogni dell'uomo a scala globale. Quanto alle esigenze di giustizia vattelapesca che cosa intendono, questi coltissimi, visto che ritengono che qui siano rispettate le esigenza di giustizia dei senza casa di Milano e Roma, dei metalmeccanici tutti e dei pastori sardi. Siamo sempre lì: noi tutti ricchi e responsabili, loro tutti poveri e altrettanto responsabili. Risalendo ritroviamo la grande impostura dello scontro nord-sud. Tanto studiosi, tanto intellettuali, costoro non vedono al di là del proprio naso, anzi non vedono neppure quel che hanno sotto gli occhi. E vero che l'evento guerra del Golfo si è presentato come una coalizione internazionale contro uno stato del famoso sud, ma la coalizione comprendeva molti stati del sud, compresa la maggioranza degli stati arabi, compresi i più poveri (Marocco, Siria); quindi non si è trattato di un generico nord contro un generico sud. Nella coalizione, poi, stavano paesi che sono destinati a entrar presto in rotta di collisione, sia per quella stessa materia prima per il cui controllo si è fatta la guerra, il petrolio, sia per il predominio politico ed economico sulla regione mediorientale. E questo non può essere sottaciuto quando si pretende di mettere in guardia contro i rischi che corre l'intera umanità.

Infine eccoci alla perla delle perle: i nostri vogliono denunciare (e passi) e...

finalmente spezzare il nodo perverso fra diritto internazionale e logica di mercato.

Con ciò ammettono che un rapporto esiste fra la logica di mercato - vale a dire il modo di esistere del capitalismo - e il diritto internazionale. Ma per loro, evidentemente, si tratta di un rapporto che, lungi dall'essere di determinazione - la logica di mercato è qui elemento fondativo dei rapporti internazionali che il diritto si limito o registrare e formalizzare - è accidentale, per quanto perverso, e dunque modificabile con l'azione democratica dei cittadini eticamente responsabili.

Il cerchio è così chiuso: tutti siamo responsabili in quanto membri di una qualche nazione e quindi responsabili della politica internazionale della nostra nazione, la quale nel rapportarsi alle altre determina i criteri ispiratori del diritto internazionale; adopriamoci dunque pacifisticamente per fare pressione e convincere la massa nel gioco politico istituzionale, onde ottenere dai governi l'adozione di linee conseguenti allo stabilimento di un mondo più giusto ed equo in cui la povertà delle nazioni povere sia alleviata dalla solidarietà delle nazioni ricche. Per quanto strano appaia, alla chiusura del cerchio ideologico di questi intellettuali progressisti ci ritroviamo alla metà del XVIII secolo quando scriveva Rousseau. (1) Seguono altri punti e altre proposte del tutto in linea con quella impostazione che ci basta aver lumeggiato.

Trotskisti e simili

Quanto sopra riguarda il campo teorico-politico della sinistra ufficiale piccolo borghese, nemica dichiarata della classe operaia che si presenti come tale e della sua prospettiva rivoluzionaria.

Ma la guerra del Golfo ha scoperto diversi traditori annidati nelle file di quanti si dichiarano ancora difensori della classe e delle sue prospettive storiche.

Un cenno soltanto lo dedichiamo ai trotskisti, l'appartenenza obbiettivo dei quali al suddetto campo piccolo borghese e reazionario è per noi assodata, al di là della loro fraseologia occasionale. Ma essi sopravvivono alla morte del socialismo reale, dicendosi estranei al suo percorso, rivendicando anzi una sorta di preveggenza riguardo le sorti ingloriose della burocrazia stalinista, salvo poi scannarsi politicamente nel sentenziare le cose più diverse e fantasiose circa la natura degli avvenimenti, le prospettive aperte e i compiti loro nei paesi dell'Est, Urss compreso.

Per i trotskisti - al di là delle differenze pur non lievi fra le svariate correnti a scala internazionale - sembra che non esistano dubbi sul fatto che la guerra del Golfo è consistita semplicemente in una aggressione imperialista americana a danno dei popoli arabi, dietro la quale si è schierato l'intero occidente, con la colpevole complicità dell'ex blocco sovietico, sebbene volta ad assestare colpi definitivi all'influenza sovietica nella regione.

Consideriamo il proclama della IV Internazionale e della sua rivista internazionale "Imprecor" del novembre 1990:

Quale che sia l'avversione che i rivoluzionari possono nutrire per il despota iracheno, essi non sapranno esistare... In qualunque scontro fra I'Iraq e gli imperialisti, noi siamo risolutamente a fianco del primo.

E così è stato: la sezione italiana della IV Internazionale, confluita in DP nel segno della peggiore tradizione dell'entrismo di fosca memoria, si riconosceva nei cortei cosiddetti pacifisti per la pervicacia con cui i suoi militanti strillavano la loro solidarietà ai popoli del Medio Oriente.

Dunque per loro l'imperialismo non è quel che hanno insegnato Lenin, Bucharin, la stessa Rosa a modo suo, una fase, un'epoca del capitalismo. No, per loro l'imperialismo è ancora una politica, quella dei paesi capitalisti più ricchi. Essendo I'Iraq meno ricco non è imperialista. L'invasione di Panama è azione imperialista, quella del Kuwait è un'azione, magari illegittima, ma che va valutata nel quadro delle misure di auto-difesa dei "popoli poveri del Terzo Mondo". La conseguenza è ovvia: siamo con i governi dei popoli mediorientali anche se disgrazia vuole che siano fra i più reazionari.

Dire che questo è schierarsi nella guerra imperialista a favore di un fronte è il minimo. Resta loro da spiegare come mai qui si dovesse fare del disfattismo nei confronti delle iniziative belliciste della nostra borghesia, ma si chiamasse il popolo iracheno a sostenere il suo macellaio Saddam.

Ma gli stessi argomenti e la stessa nostra replica li ritroviamo esaminando le novità presentate dal vecchio campo politico proletario, cui la guerra ha impresso una prima vigoroso agitazione.

Prime decantazioni nel vecchio campo politico proletario

Quello che negli anni della stagnazione definimmo campo politico proletario era ed è un'area, nei cui larghi e tutto sommato elastici limiti rientrava una pluralità di organizzazioni, tendenze e gruppi a scala nazionale e internazionale.

Le organizzazioni propriamente rivoluzionarie rientravano in quel campo, ma non lo esaurivano, tutt'altro. Esso era, e in certa misura resta, popolato da gruppi con posizioni teoricamente e politicamente influenzate, in maggiore o minor misura, dalle forme più radicali e sinistreggianti dell'ideologia borghese e segnate dall'opportunismo. Sono gruppi, cioè, caratterizzati da una verbale adesione agli interessi di classe e ai principi del comunismo, dietro i quali si nascondeva però una sostanziale corruzione ideologica ed estraneità di fondo al punto di vista di classe, che sono stati smascherati proprio dalla necessità di prendere posizione su questa guerra. Coerenti, non alla verbosità rivoluzionaria, ma all'impostazione piccolo borghese dei problemi politici, hanno pensato bene, tal quale i trotskisti e vecchi nuovi-sinistri, di indicare in Saddam Hussein un paladino, per quanto a malincuore, dell'antimperialismo.

Ci riferiamo, per quanto riguarda l'Italia, all'Oci, nata dal matrimonio fra dei bordighisti dissidenti e dei maoisti altrettanto dissidenti. Scegliamo alcune perle dalla collana offertaci dall'Oci, traendole dal suo manifesto supplemento al n.19 del suo giornale "Che fare".

Premessa la critica alla posizione legalista secondo cui il Kuwait sarebbe stato sovrano, mentre:

altro non è che il risultato di quella particolare opera di definizione delle ex-colonie arabe da parte dell'imperialismo fatta in modo da dividere la nazione araba a proprio uso e consumo.

E sin qui potremmo essere d'accordo, ma l'Oci sentenzia che è...

indubbio che in questo caso la riannessione dello staterello fantoccio kuwaitiano si inscrive in un processo rivoluzionario di messa in causa dello smembramento della nazione araba da parte dell'imperialismo e, quindi, dell'ordine imperialista che ne sta all'origine.

L'elaborazione immediatamente successiva consegue a questa falsissima premessa, buona per condurre al macello milioni di proletari. Nell'era dell'imperialismo, - ovvero dell'incontrastato dominio del capitale finanziario, sulla manovra del quale a fini più o meno produttivi o speculativi, vivono e ingrassano le borghesie del mondo intero, compresa quella irachena - le operazioni di un pirata contro altri pirati sarebbero rivoluzionarie solo perché il primo è più debole degli altri e perché andrebbe a scompaginare l'ordine dei più forti. Qui l'ideologia si manifesta per quel che è: cattiva coscienza.

Alla stessa stregua sarebbe stata da appoggiare come rivoluzionaria la presa del potere del pretume iraniano che di fatto andò a scompaginare i piani americani e allora più generalmente occidentali in quel paese. Ma a suo tempo l'Oci sostenne in fondo proprio questo.

Già, perché in quell'area la contraddizione fondamentale non è tra proletariato e borghesia, ma fra dominati, le generiche masse, e dominatori, il generico occidente. Nell'intreccio delle contraddizioni che qui fondamentali là diventano secondarie e viceversa si dipanerebbe così una strategia rivoluzionaria nella quale la classe in occidente, o del nord o di quant'altro, si coordina coi i popoli d'oriente, o del sud ecc. Sfruttate sono sì le masse, ma "controllati e dominati" sono "i paesi del medio oriente e di tutto il mondo". Così le nazioni cacciate dalla porta del marxismo entrano dalla finestra dell'Oci. La confusione delle tesi che si configurano come prodotto meramente ideologico non oscura l'impianto generale che ritorna:

Si sarebbe potuta evitare la guerra? Si nell'immediato se Saddam avesse accettato una resa senza condizioni, riconsegnando all'imperialismo non solo il Kuwait, ma la stessa indipendenza irachena di fatto. No, in nessun caso, alla distanza perché il conflitto fra imperialismo e masse arabo-islamiche (notare l'accoppiamento delle qualifiche) sfruttate chiama costa' mente e crescentemente alla guerra.

Tralasciamo pure, per ora, il fatto che la resa incondizionata c'è stata e nel momento peggiore, quando la coalizione era già lanciata nella guerra di sterminio di militari e civili iracheni. Ma quanto dice l'Oci implica di nuovo che imperialisti sono gli Usa, il Giappone, l'Europa e l'Italia (ovvero le rispettive borghesie, vogliamo supporre) ma la borghesia irachena no: essa si dissolverebbe nelle masse arabo-islamiche in permanente conflitto con l'imperialismo. Tradotto per le suddette masse questo significa: compagni, turatevi il naso e sostenere Saddam finché è in guerra con l'imperialismo, che fa il paio con quanto diceva la socialdemocrazia tedesca nel 1914 allorché si trattava di sostenere la propria borghesia contro la Russia. Il discorso era sorprendentemente analogo: compagni, i nostri governanti sono borghesi con i quali faremo in futuro i conti, ma le sacre leggi del progresso impongono di sconfiggere l'impero della arretratezza, della autocrazia reazionaria; unità nazionale, dunque, contro il nemico barbaro.

L'Oci non se ne vergogna, anzi, fa di peggio, elevando addirittura l'islamismo a fattore misteriosamente rivoluzionario. Forse perché l'islam si presenta come fede dei poveri e descrive Allah come protettore dei poveri? O perché altro? Bordiga ebbe a scrivere un libro titolato "I fattori di razza e nazione nella teoria marxista", non sognandosi di inserire anche i fattori religiosi. Forse l'Oci provvederà ai dovuti aggiornamenti.

Come saltar la barricata

Il tutto si riassume nelle indicazioni dalle quali risulta innanzitutto che non si tratta di guerra imperialista ma di guerra scatenata da un aggressore imperialista (punto 1) quindi guerra ingiusta da questa parte, ma giusta per chi si difende, secondo la più scontata delle elucubrazioni borghesi su guerra giusta e ingiusta, di aggressione e di difesa.

L'oggetto di questa aggressione è costituito dalle masse sfruttate dei paesi dominati e controllati.

Ora, giocare a rimpiattino, come visto, fra masse sfruttate e paesi, non serve a nascondere l'obbrobrio. L'Oci parla di proletariato delle metropoli come "naturale e fraterno alleato di dette masse", (punto 2) ma intende alleanza del proletariato metropolitano con le nazioni mediorientali e i loro governi, soprattutto in caso di guerra. Infatti si legge che il proletariato metropolitano...

va coinvolto nel 'nostro' fronte di guerra, quale mezzo infallibile per dividere e deprimere le forze di classe antagoniste a scala mondiale, soprattutto dal momento che il capitalismo sta vivendo un altro momento di crisi profonda che esige il più ferreo disciplinamento interno e una compressione ulteriore dei livelli di vita e dei 'diritti' degli sfruttati.

Questo significa subordinare, piegare, sottomettere la pretesa strategia rivoluzionaria alle necessità della borghesia. Le "forze di classe antagoniste a scala mondiale", infatti, si dividono da sole, nella guerra imperialista appunto e non si deprimono affatto, a scala mondiale, se il proletariato di un fronte si schiera con i popoli e dunque con la borghesia dell'altro. O s'intende dire che una volta sconfitto militarmente il nemico più forte, è poi più facile aver ragione anche dei vari Saddam? È ancora lo stesso argomento dei traditori del 1914.

A guerra scatenata non è data, se non nei sogni degi idealisti e nelle bugie dei traditori, la possibilità che proletariato giunga a solidarizzare con il paese nemici. E stato possibile e necessario nella guerra di trincea del 1914-18 solidarizzare fra proletari in divisa contro le rispettive borghesie e il dominio borghese tutto, ma l'azione del proletariato nelle retrovie solidale con il paese nemico sarebbe cosa tutt'affatto diversa. E allora una indicazione di quel genere, va esattamente a ostacolo la possibilità che il proletariato riprenda la lotta contro "il disciplinamento interno e la compressione ulteriore dei livelli di vita...". La sua natura teoricamente farneticante e politicamente provocatoria procura il rigetto da parte proletaria di ogni suo contenuto e di qualunque corollario. È una calamità per le prospettive di ripresa rivoluzionaria.

Tralasciamo il resto e veniamo al punto 6 dove è ribadito:

il sostegno incondizionato alla rivolta delle masse sfruttate arabo-islamiche. Incondizionato = indipendentemente da chi e come ne monopolizzi attualmente la direzione quand'anche si tratti di un Saddam Hussein...

Dunque sostegno, per quanto temporaneo a Saddam Hussein. Ma basta. Che dire di più? Viva la chiarezza. Con questo l'Oci si è catapultata inequivocabilmente fuori dal campo politico proletario, finendo dritta nella spazzatura delle forze piccolo borghesi tanto reazionarie, quanto peraltro impotenti.

Altri fenomeni nel campo

Altri, per molti versi prossimi alla impostazione metodologica dell'Oci - dalla quale sono usciti, ma della quale dichiaratamente condividono a tutt'oggi le linee fondative - sono per ora sfuggiti alla trappola mortale, teorizzando la necessità di una rivoluzione d'area non meglio chiarita ma di sapore molto dubbio. Negano la attualità della rivoluzione proletaria e rifiutano le chimere della rivoluzione borghese contro l'imperialismo.

Se si vuol dire che non esistono oggi le condizioni politiche della rivoluzione proletaria non c'è problema: non esistono neppure nei paesi metropolitani, Italia compresa. Ma se a questo si aggiunge che allora è necessario passare attraverso qualche cosa d'altro, di intermedio fra la rivoluzione borghese e quella proletaria, allora si gioca con il fuoco,dell'opportunismo.

Forse che anche in Italia, non essendo all'ordine del giorno l'attacco di classe operaia allo stato borghese, dobbiamo abbandonare questa nostra unica prospettiva per qualcos'altro? Ci par di capire che questi compagni rispondano no per l'Italia, sì per il medio oriente, senza peraltro sostenere che lì operano altre classi fondamentali o che ci sia ancora da fare la rivoluzione democratico-borghese. Questo è ciò che si chiama propriamente opportunismo. Non reazionarismo scoperto, ovvero adesione ai principi e alle politiche borghesi comunque camuffate, come è il caso dell'Oci, ma qualcosa a metà strada, che non ha il coraggio di andare fino in fondo né in un senso né nell'altro.

Per quanto riguarda altre presunte componenti del campo politico proletario riportiamo dal n.3 di Battaglia Comunista alcuni passi che mantengono tutto il loro valore di drammatica denuncia.

Ma la decantazione operata dalla guerra nel campo politico proletario ha imboccato anche un'altra strada: quella dello smascheramento dei gruppetti la cui unica ragione di esistenza è la autogratificazione del o degli aspiranti intellettuali che li costituiscono. Per qualunque ragione estranea alle gratificazioni che la borghesia riserva ai suoi fornitori di servizi, trovano sul terreno della diatriba teorica e delle relative pubblicazioni - non importa quanto pubbliche - lo strumento della propria legittimazione in quanto, appunto, intellettuali.

Evitiamo di far nomi, ma chi li conosce saprà anche riconoscerli. Sono quelli che, di fronte alla gravità dei problemi di fronte a chi si batte per la ripresa del programma rivoluzionario, si compiacciono di sostenere allo specchio e inviando addirittura lettere in giro, la originalità, o addirittura la unicità delle proprie analisi, in realtà riprese a spizzichi e bocconi da altri, senza alcuna conclusione politica e neppure la possibilità di trarla.

La frammentazione delle forze genuinamente internazionaliste, ha consentito sinora di vivacchiare anche a questi contemplatori del proprio ombelico che hanno la sfrontatezza di definirsi gruppi politici e rivoluzionari. La guerra provvede a un loro primo smaschera mento; ma agli occhi di chi? Ricacciarli formalmente, in modo cioè universalmente riconoscibile, nella loro condizione di circolini intellettuali è compito delle forze sane. Ed è possibile solo attraverso la decantazione politica, dando corpo, quindi, a un lavoro politico esplicitamente volto alla affermazione delle posizioni rivoluzionarie sulla guerra e sui relativi compiti della classe e delle sue avanguardie.

La situazione oggi

Quanto fin qui esposto vale specificamente in Italia. Ma è a scala internazionale che si verifica il fenomeno complessivo di cui quanto detto relativamente al nostro paese è manifestazione specifica.

Il fenomeno generale che dobbiamo lucidamente constatare è di un ritardo complessivo del campo politico proletario nel fronteggiare la situazione che si è già profilata.

La mancata risposta sinora della classe, ovvero la sua permanenza nella condizione di classe-in-sé atomizzata nell'universo della cittadinanza borghese, non deve far pensare alla possibilità della borghesia di correre linearmente e ordinatamente alle soluzioni belliche che le sue sezioni nazionali volta a volta riterranno necessarie per la propria sopravvivenza economica.

In altri termini non è neppure ipotizzabile che la borghesia metropolitana marci verso la generalizzazione del conflitto nella stabilità degli equilibri politici e sociali attuali, peraltro già precari. Non ci stancheremo mai di ripetere che la rottura, di qualunque intensità, degli attuali equilibri non significa automaticamente ripresa della iniziativa di classe come tale.

Se non bastasse l'argomentazione teorica di questa tesi, che il pensiero marxista ha elaborato in un secolo e mezzo, a partire dal suo istitutore, il crollo dell'impero russo è lì a dimostrarla con la bruta drammaticità dei fatti. Equilibri politici sessantennali si sono rotti, scoperchiando un crogiolo di tensioni e di scontri economici, politici, etnici e nazionali, prima latenti, che già lancia fiamme sinistre sulla scena e minaccia di esplodere in un caos devastante. Ma la classe operaia, ieri bugiardamente presentata come detentrice del potere, - mentre era vittima principale del rapporto capitalistico gestito dallo stato e dalla classe che nei suoi gangli e meccanismi era nata e si era annidata - fatica oggi enormemente a costituirsi quale soggetto autonomo e antagonista ai capitale. Ciò vale soprattutto per i paesi esteuropei.

I forti scioperi dei minatori in corso mentre scriviamo, da 20 giorni in tutte le regioni carbonifere dell'Unione Sovietica, all'inevitabile momento della politicizzazione si sono attestati sulla richiesta di "dimissioni di Gorbaciov e cambiamento del sistema politico". Almeno questo è quanto riferiscono i corrispondenti stampa da Mosca. Cambiamento del sistema politico può significare semplicemente introduzione del libero pluripartitismo e delle libertà democratico-borghesi o, all'opposto, ritorno al sistema precedente la perestrojka; in entrambi i casi al traino di questa o quella forza borghese. D'altra parte che altro c'è sul mercato politico russo? Ma già il coordinarsi di grandi masse in sciopero costituisce un primo passo del ricostituirsi del soggetto operaio a unità distinta. E in questo corpo che deve agire il fermento rivoluzionario portato dalle avanguardie, e sono queste a difettare drammaticamente.

La stessa situazione nei paesi del Golfo, direttamente coinvolti nella vicenda bellica e al centro delle tensioni che minacciano di riesplodere, mostra una classe operaia del tutto disarmata di fronte ai tragici eventi della dinamica capitalista.

Nell'Iraq del cosiddetto dopoguerra è già in atto una guerra civile, preoccupatamente osservata dalle forze politiche e militari della coalizione anti-Saddam, che vede scatenate le città a maggioranza sciita, come le zone kurde, le une per la conquista del potere le altre della propria indipendenza. Nella stessa Baghdad l'ordine appare imposto dall'esercizio del più ferreo controllo militare, mentre infuriano, sembra, in tutto il paese epidemie di colera e tifo.

Gli equilibri politici stabiliti a suo tempo dal partito Baat si sono violentemente spezzati, il caos è in atto, ma a opero esclusiva delle milizie legate a questa o quella forza della reazione borghese; la classe operaia sembra scomparsa, di fatto è dissolta nell'insieme della popolazione che si divide sulle linee delle contrapposizioni interne alla borghesia. Come potrebbe, d'altra parte, avviare il proprio autonomo cammino organizzativo e politico, se vengono meno le condizioni elementari e le fabbriche sono ferme?

Il livello superiore, politico, di organizzazione autonoma del proletariato presuppone l'operatività di avanguardie politiche precedentemente radicate nel corpo della classe. Ma non ci risulta che per ora esistano, quantomeno al livello di radicamento necessario per rendersi operative.

I compiti dei rivoluzionari

Prima tappa interna a una prospettiva strategica rivoluzionaria, lungi dall'essere il sostegno a questo o quel fronte delle attuali contese intestine, è l'emergere di piattaforme autonome di classe e delle relative organizzazioni d'avanguardia.

Coerentemente a ciò, primo compito dei rivoluzionari in occidente, in relazione agli accadimenti del Golfo, è la denuncia di quei veri e propri traditori della classe che chiamano le masse proletarie arabe al suicidio sui fronti del nemico, parallela alla conduzione di tutti gli sforzi utili a contribuire alla emergenza di dette avanguardie e piattaforme, per quanto possibile a chi è materialmente esterno.

Per quanto riguarda i nostri paesi, vanno anche qui tenuti in considerazione quali riferimenti della azione politica i dati obiettivi che ci si presentano o che sono insiti nella dinamica che si prospetta.

Per quanto riguarda il presente abbiamo già detto in apertura. Nelle prospettive abbiamo già indicato la possibilità che si presentino rotture, anche brusche, degli attuali equilibri politici interni. Ma ciò che sta valendo nei fatti del Medio Oriente o dell'ex blocco sovietico, vale anche per le formazioni sociali e politiche metropolitane: niente assicura che il crollo possibile dell'attuale baraccone comporti la ricomposizione del fronte di classe.

Tanto meno è pensabile che in quel frangente possa tornare a circolare con la necessaria energia il programma della emancipazione di classe, ossia il programma comunista rivoluzionario, se le forze che vi dovrebbero provvedere si presentano nelle attuali condizioni di frammentazione e debolezza.

La verità è talvolta brutale, ma è pur sempre rivoluzionaria e dunque per noi vitale. Affrontiamola quindi e stiamo a vedere chi sarà all'altezza di fare altrettanto. La classe, la sua storia, le sue esperienze anche drammatiche degli ultimi decenni hanno certamente portato alla esistenza di avanguardie operaie oggi disperse nell'immenso insieme di uomini e donne che nelle fabbriche, negli uffici, sulle strade e sui cantieri, paga quotidianamente il proprio tributo alla accumulazione del capitale. Qualcuno le chiama soggettività rivoluzionarie, dando una accezione per noi fin troppo larga. Tuttavia esistono con scarsissime possibilità di attivarsi sulla base di un programma definito da far proprio. E non tanto perché il programma definito non esista, ma perché ne esistono troppi, non tutti dissimili e con scarsa possibilità di raggiungere i suoi naturali destinatari immediati.

Al momento di tracciare la definizione e le linee di demarcazione del campo politico proletario, precisammo che in esso si muovevano le forze propriamente rivoluzionarie ovvero portatrici delle tesi fondamentali e delle linee politiche portanti del programma politico sul quali dovrà ricompattarsi il partito internazionale del proletariato. Noi di Battaglia Comunista ci poniamo ovviamente fra queste. E aggiungemmo che nessuna di queste poteva allora, e può ancor oggi, dirsi il partito. Perché il partito è oggi internazionale o non è e perché non esiste ancora un programma sufficientemente esplicitato e dettagliato da costituire la base costitutiva internazionale delle formulazioni strategico-tattiche applicabili a scala regionale o locale. E chi sostiene il contrario millanta credito solo a se stesso. (2)

Compito immediato e urgente nostro, ma anche di tutti coloro che sono nelle condizioni di dare il proprio con tributo alla ricostituzione delle condizioni soggettive della ripresa rivoluzionaria, è di dare maggiore forza, capacità di presenza, circolazione alle posizioni rivoluzionarie programmatiche e tattiche.

Questa è la condizione imprescindibile per iniziare a radicare quantomeno i rudimenti del programma rivoluzionario nella classe, nel senso di stabilire al suo interno i sostenitori di quel programma, i propagandisti delle posizioni specifiche e gli agitatori delle linee tattiche che ne discendono.

Abbiamo visto nei primi paragrafi di questo articolo che l'evento guerra del Golfo si è verificato in una situazione complessiva di classe operaia che la vede quasi del tutto assente come soggetto. La classe ha quasi completamente perduto la nozione di sé, anche ai più elementari livelli economico-rivendicativi, nel senso che ciascun lavoratore salariato si considera prima che proletario, cittadino di questo o quello stato, sostenitore di questo o quel partito, partigiano di questo o quel movimento civile, membro di questa o quella comunità, etnica, regionale, cittadina o addirittura di quartiere.

Hanno determinato questo stato di cose i fattori visti sopra, molti dei quali si riassumono nel processo di scomposizione della classe operato dalle "scelte" di politica macro-economica delle diverse sezioni nazionali della borghesia. La ricomposizione della classe è processo che può trovare la base di determinazione solo nella dinamica materiale del capitalismo, ma che richiede - come sempre accade nella dinamica della società umana - anche l'intervento della razionalità, della soggettività. Gli operai possono essere spinti alla lotta dai sensibili peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro. La lotta stessa può fornire le basi oggettive per l'auto-riconoscimento dei combattenti come membri di un insieme. Ma la nozione che questo insieme è una classe con interessi diametralmente opposti a quella dei padroni (o dei direttori delle fabbriche, o di alte burocrazie ministeriali) non matura spontaneamente a livello di massa.

Piaccia o meno ai tanti cultori della maturazione spontanea delle coscienze rivoluzionarie ancora in circolazione, nonostante le brucianti smentite dei fatti degli ultimi decenni, quella nozione va reimportata.

Bisogna tornare a ribattere chiodi che davamo forse per già conficcati e che invece sono stati pinzati via dalle coscienze e dalle psicologie proletarie:

  • la società è divisa in classi, borghesia e proletariato;
  • la borghesia ci sfrutta, ci estorce plusvalore, accumula capitali e per difenderli o per accaparrarne altri decide le guerre e le fa combattere ai proletari;
  • tutte le guerre, con la sola eccezione della guerra civile fra proletariato e borghesia, sono guerre di quella natura, imperialiste;
  • il proletariato di tutti i paesi non deve schierarsi su nessun fronte della guerra imperialista, mai, e deve invece opporsi ad essa con la forza che gli deriva dall'essere classe produttrice di quelle ricchezze delle quali non gode e per le quali la borghesia scatena i massacri;
  • ciò facendo i proletari si preparano a rivolgere le armi che la borghesia gli consegna per massacrare i loro fratelli di classe, contro la borghesia stessa.

Da questa base sarà possibile procedere oltre sulla strada della maturazione politico-programmatica.

In questa fase è necessario moltiplicare le energie volte a ristabilire questa base.

Mauro Stefanini

(1) “Se si ricerca in che cosa consista precisamente il più grande di tutti i beni, il che deve essere il fine di tutti i sistemi di legislazione si troverà ch'esso si riduce a questi due obietti principali: la libertà e l'uguaglianza [...]. Ho già detto cosa sia la libertà civile: riguardo all'uguaglianza non bisogna con questa parola intendere che i gradi di potenza e di ricchezza siano assolutamente gli stessi; ma che, quanto alla potenza, essa stia al di sopra d'ogni violenza e non si eserciti mai che in virtù del rango e delle leggi; e, quanto alla ricchezza,che nessun cittadino sia così danaroso da poterne comperare un altro e nessuno tanto povero da esser costretto a vendersi (nota): ciò che suppone, da parte dei grandi, moderazione di beni e di credito e da parte dei piccoli, moderazione d'avarizia e di concupiscenza.” E in nota: “Se di due popoli vicini l'uno non potesse far senza l'altro, sarebbe una situazione difficilissima per il primo e dannosissima per il secondo. Ogni nazione saggia si sforzerà in simile caso, di togliere presto l'altra da tale condizione di dipendenza...” (Da Il contratto sociale capitolo XI, 1762).

(2) Nota a parte merita la tesi francamente opportunista secondo la quale il campo politico proletario costituirebbe tutt'intero il "partito storico".

La formula è nota e ci permettiamo di riportarla in sintesi. Nelle fasi controrivoluzionarie si spezza la continuità del "partito formale", l'organizzazione politica rivoluzionaria operante e influente sulla realtà politico-sociale in atto. Ma poiché non è dato che possa sparire il programma politico più o meno invariante (secondo i diversi sostenitori della formula) del comunismo, esso sopravvive nella forma di partito storico.

La formula originaria - nella quale il programma è invariante, vale la pena ricordarlo - è di Amadeo Bordiga e non manca di esercitare il fascino che sempre promana dalle elaborazioni di tanto compagno. Fu elaborata a seguito della rottura del Partito Comunista Internazionalista delle nostre origini, nel 1951, che sottolineò con la rottura politico-organizzativa il passaggio epocale da organizzazione radicata nella classe, con una influenza non marginale nei suoi gangli essenziali, alla formazione di esigua minoranza e marginalizzata dalla classe. La scissione diede un colpo ulteriore alla possibilità organizzativa di presa sugli elementi di avanguardia militante della classe sia da parte nostra che dei compagni bordighisti. Quella raffinata elaborazione su partito storico e partito formale doveva servire a giustificare la sopravvivenza del partito unico e in-variante in Programma Comunista.

Non vogliamo qui discutere la formula e la sua funzione originaria: ce ne manca lo spazio e non è in tema. Più interessante è criticarne le sue attuali perversioni a opera di epigoni tanto autocompiacentisi quanto poco desiderabili, probabilmente dallo stesso Amadeo.

Ebbene c'è chi sostiene che il "partito storico" sarebbe oggi rappresentato da quell'insieme a scala internazionale di posizioni divergenti sino all'antiteticità, di gruppi in polemica implacabile fra loro, di correnti antagoniste, in una parola dal campo politico proletario tutto, nel quale comunque sopravviverebbe la continuità del programma rivoluzionario.

Ciò, come minimo significa a) che il programma rivoluzionario ha perso ogni carattere di continuità. C'è una grande differenza fra la continuità del metodo, per lo meno, e delle posizioni chiave per l'epoca storica vissuta, attraverso la vita e la elaborazione di uno dei gruppi che affollano il campo politico proletario da una parte, e la sua sparizione virtuale concretizzantesi nella frammentazione del suo insieme organico in mille spezzoni in moto vorticoso e caotico. Nel primo caso, unico sensatamente concepibile, si tratta di completarlo e soprattutto di affermarlo come base di organizzazione reale contro la pletora di gruppi e gruppetti intellettualoidi e/o opportunisti. Nel secondo caso si tratterebbe di ricostruire qualosa che non c'è più. E allora va a farsi benedire anche la affascinante idea di partito storico.

Se la formula originaria di partito storico-partito formale aveva grandi difetti, primo fra i quali è l'essere formula, questa sua nuova versione è mostruosa.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.