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Lo scenario
Il 1991 è stato un anno cruciale in tutti i sensi in Urss, soprattutto per l'aggravarsi della situazione economica giunta all'orlo del collasso. La produzione agricola, già fortemente compromessa da anni di disinvestimenti progressivi, è crollata dell'11%, la produzione industriale del 6%. La produzione di petrolio, penalizzata dalla obsolescenza degli impianti, è passata da 624 milioni di tonnellate dell'87 alle 500 del '91. Il debito estero dai 29 miliardi di dollari del 1985, data di inizio della perestrojka, ai 70 del 1991, mentre il deficit pubblico ha raggiunto la quota del 30% del prodotto interno lordo.
Il tutto sulla testa di una classe lavoratrice che, abbindolata da settantanni di stalinismo e annichilita dall'aggrovigliarsi della situazione interna, ideologicamente disorientata e politicamente disarmata, restava a guardare. Per buona sorte degli attori, riformisti moderati, radicali e conservatori, fintanto che il proletariato sovietico rimaneva alla finestra, la partita per il potere poteva essere giocata con più calma e tranquillità.
Il procedere della crisi economica, la progressiva impopolarità interna di Gorbacev, le promesse riformiste tutte puntualmente deluse e il crescente malcontento della popolazione indispettita e avvilita dalla mancanza di tutto e dal dissesto dei servizi, sembravano preparare il terreno alle aspirazioni antiriformiste dei conservatori.
Mai come in quei momenti, la posizione di Gorbacev mostrava tutta la sua precarietà. Anche per il più sprovveduto degli analisti politici quello era il momento più favorevole per sferrare un attacco al castello della perestrojka.
Non necessariamente l'affondo avrebbe dovuto assumere la fisionomia di un colpo di stato con relativo uso della forza militare. Sarebbe stato sufficiente mettere Gorbacev alle strette, convincerlo con una adeguata pressione, della impraticabilità della strada imboccata e costringerlo alle dimissioni. Solo nel caso di una determinata resistenza si sarebbe ricorso all'uso della forza. Il golpe, insomma, preferiva camminare sul velluto che non imboccare i percorsi della guerra civile con tutti i rischi che ciò comporta. Ma come si sà il diavolo e i coperchi non sempre vanno d'accordo.
In campo le forze erano le stesse: da un lato i perestrojcanti protesi all'introduzione più o meno veloce del capitalismo privato, dall'altro i conservatori del capitalismo di stato. In termini di composizione di classe a difesa dei bastioni del castello riformista hanno preso posizione gli elementi della neo nata "grande" borghesia che spingeva per l'accelerazione delle privatizzazioni e per l'allargamento del principio giuridico ed economico della proprietà privata. Parte del mondo intellettuale filo-occidentale e una schiera, peraltro non particolarmente nutrita, di giovani operai. La piccola borghesia urbana rappresentata da professionisti, piccoli e medi commercianti, piccoli imprenditori e consimili. Una parte della burocrazia periferica, convinta che la perestrojka potesse concedere, oltre al capitalismo privato, una maggiore autonomia nella gestione delle risorse repubblicane e meno tributi da pagare al centro moscovita.
Tra i golpisti: i manager di stato, sia nella versione industriale che agricola, la burocrazia centrale e la potente nomenklatura militare. Per i grandi burocrati, come per i manager di stato, legati indissolubilmente all'economia di piano, ogni ulteriore passo in avanti della perestrojka avrebbe rappresentato un duro colpo al loro privilegio politico ed economico.
Per la nomenklatura militare e per i professionisti del Kgb la misura aveva raggiunto il colmo. Non solo l'amministrazione gorbacioviana aveva distrutto l'impero, rinunciato a competere con il tradizionale avversario americano, non solo il bilancio federale per le spese militari era stato ridotto ai minimi termini, in più nel giugno del '91 il Presidente si era reso interprete dell'iniziativa di sciogliere il Patto di Varsavia, azzerando il ruolo e il prestigio della casta militare. 29
Per tutti occorreva cogliere al volo l'opportunità. Ogni tentennamento o ritardo nell'azione non avrebbe sfruttato a dovere la favorevole situazione interna e avrebbe dato ossigeno all'agonizzante regime della perestrojka. Una simile concomitanza di eventi: crisi economica, crisi istituzionale, impopolarità del regime e insofferenza generalizzata per le precarie condizioni della quotidianità, non si sarebbe ripetuta facilmente. Per la conservazione l'azione era d'obbligo, i tempi per un tentativo golpista erano ampiamente maturi.
Quale golpe
L'interpretazione che il mondo occidentale ha dato del tentativo di colpo di stato dell'agosto del '91 è ambivalente e contraddittoria. Da un lato si è gridato al lupo della restaurazione stalinista con tutto quanto di negativo avrebbe potuto portare con sé per il processo di democratizzazione nell'Urss e per l'occidente capitalistico; dall'altro si è tentato di esorcizzare lo spauracchio coprendo di ridicolo le modalità di esecuzione del golpe e i suoi maggiori interpreti.
Riproposta in termini più semplici, l'interpretazione del golpe da parte delle borghesie occidentali è oscillata tra un inspiegabile fallimento del colpo di stato dato il presunto spiegamento di forze, e l'immagine risibile di un pugno di congiurati più dediti all'alcol che a perseguire un processo di restaurazione politica.
La prima interpretazione, quella che si interroga sulla inspiegabilità dell'insuccesso, si basa sul fatto, peraltro inconfutabile, che i mezzi e gli uomini che avrebbero dovuto scendere in campo erano così potenti da non lasciare scampo a Gorbacev e compagni.
Il comitato per l'emergenza che ha destituito Gorbacev annoverava tra i suoi componenti Ghennadi lanaiev, vicepresidente dell'Urss, di nome e di fatto il numero due del regime, massimo rappresentante politico di quel mondo burocratico coerentemente arroccato attorno ai suoi privilegi economico-sociali. Chi ha creduto di sorprendersi per la sua "insospettabile" vocazione golpista, avrebbe fatto meglio se si fosse sorpreso quando lo stesso Gorbacev lo ha candidato alla poltrona della vice-presidenza. lanaiev non ha mai cessato di essere un uomo di apparato nemmeno quando è stato chiamato a occupare un posto, e che posto, nella squadra del Presidente. Quella golpista non era soltanto una ambiziosa suggestione, quanto la naturale difesa degli interessi di classe di un altissimo burocrate del capitalismo di stato.
Lo stesso discorso vale per Vladimir Kriuchkov capo del Kgb dall'ottobre del 1988. Uomo di Andropov, membro dell'Ufficio politico. Fu addetto all'ambasciata sovietica in Ungheria tra il '54 e il '59. Poi collaboratore di Breznev. Anch'egli uomo di apparato e strenuo difensore del vecchio impianto sociale. Più di lanaiev aveva carisma e potere. Essere il capo del Kgb, pur nell'Urss della perestrojka, significava avere nelle proprie mani una delle massime leve del potere. Mai e poi mai avrebbe potuto assistere al ridimensionamento del ruolo della polizia politica, della sua immagine e conseguentemente del suo potere.
Boris Pugo. Neo eletto ministro dell'Interno (dicembre 1990), esce come tutti i più prestigiosi membri della nomenklatura stalinista dalla scuola del Komsomol. Chiamato a gestire uno dei ministeri più delicati lo fa con la solerzia tipica del burocrate di razza. Anche per un uomo come lui, oltre che per gli addetti del suo ministero, l'avventura della perestrojka era meno rassicurante delle certezze del vecchio potere centralizzato.
Oleg Baklanov. Dall'83 all'88 ha diretto il ministero delle Costruzioni meccaniche generali (tra cui la costruzione di missili). In tempi meno recenti era responsabile di una fabbrica militare a Kharkov in Ucraina. All'epoca del golpe ricopriva la carica di segretario del Comitato centrale del Pcus. Baklanov era il tipico rappresentante di quella burocrazia politico-militare che aveva raggiunto 30 un enorme potere sulla costruzione di materiale bellico e che, prima dell'evento di Gorbacev al potere, godeva di un larghissimo spazio nel bilancio dello stato federale. Per anni, lui ed i suoi stretti collaboratori hanno letteralmente preso in giro il parlamento sovietico e lo stesso Soviet supremo, contraffacendo le cifre delle spese militari. A fronte di una somma dichiarata pari a 90 miliardi di rubli per le spese militari, il ministero della Difesa e la sua appendice industriale ne intascavano la bellezza di 300 con relative tangenti. Nessuna meraviglia, quindi, se il massimo rappresentante del mondo militare, cresciuto nell'opulento mondo delle ambizioni imperialistiche sovietiche, cercasse di impedire alla pur tentennante riforma, di minare le basi della più corpulenta e redditizia macchina da guerra del mondo. Inoltre, interessi personali a parte, agli occhi di Baklanov e soci, tali e tanti erano i guasti provocati dalla perestrojka nell'immagine e nel ruolo dell'Urss sulla scena imperialistica mondiale, che qualsiasi altra mossa nella medesima direzione, avrebbe potuto significare le sfascio completo. Da qui una adesione al golpe ampiamente scontata.
Valentin Pavlov. Primo ministro dell'Urss dal gennaio 1990. Anch'egli, come da prassi, è figlio dell'apparato. Laureatosi all'Istituto delle finanze di Mosca, fece tutta la trafila burocratica nel ministero delle finanze sino a diventarne il titolare, per poi passare a un incarico ancora più alto; quello di capo dei servizi finanziari dello Stato. Come gli altri suoi compagni di avventura, sia per un istinto di conservazione classista che per propensione ideologica, Pavlov non aveva mai nascosto, nemmeno ai collaboratori di Gorbacev, la sua avversione nei confronti della dissoluzione, anche se parziale, dell'economia di piano.
Dimitri Yazov, ministro della Difesa, ex comandante delle forze militari di occupazione in Cecoslovacchia e nelle regione dell'Asia centrale, era l'alfiere della potenza militare sovietica, della "grandeur" imperiale di ispirazione stalinista.
Alexander Tiziakov. Poco conosciuto in occidente, ma potente presidente delle imprese di stato, degli impianti industriali, delle costruzioni civili, dei trasporti e delle comunicazioni. Dietro di lui hanno fatto quadrato un esercito di manager statali ai quali solo l'idea di mettere mano all'economia di piano faceva tremare i polsi.
Infine, della partita faceva parte anche Vassili Starodubcev, presidente dell'Unione Contadini che da sempre si è presentata come una struttura economico-politica alle dirette dipendenze del Pcus. Starodubcev, esperto di economia agricola, classico uomo di apparato, vedeva la reintroduzione della proprietà privata della terra come il più devastante dei mali.
In pratica nel comitato per l'emergenza era presente il fior fiore della conservazione con tanto di strutture politiche e militari alle spalle: mezzi e uomini certamente nor mancavano.
Il fallimento del golpe, in considerazione delle forze in campo, è stato in occidente variamente interpretato. Quando non ci si è rifugiati nel mistero si è sostenuto che gli uomini che hanno organizzato il golpe erano sì titolari delle maggiori cariche dell'esercito e dell'apparato burocratico, ma vecchi, deboli e indecisi, per cui al primo intoppo invece che reagire cercando una nuova soluzione, hanno nascosto la testa sotto la sabbia come gli struzzi. L'unica differenza è che, in mancanza di sabbia, i golpisti si sono nascosti dietro i fumi dell'alcol, ridicolizzando sé stessi oltre che il loro tentativo di restaurazione. Tesi confortata dalle cronache moscovite le quali narrano di una riunione importante nel momento cruciale del tentativo di colpo di stato nella quale Jazov, Pugo, Kriuchkov erano ubriachi fradici e lanaiev quasi in coma etilico sdraiato sotto il tavolo, quello del Presidente, nella stanza dei bottoni del Kremlino.
Un po' poco. Entrambe le tesi mancano di credibilità oltre che di fantasia. Tra l'inspiegabilità del fallimento nonostante un cumulo di circostanze favorevoli e la storiella tragicomica degli ubriaconi molesti, dietro il classico scenario della lotta per il potere tra le forze del capitalismo di stato e di quello privato, si sono determinate una serie di circostanze che hanno condizionato il tentativo di golpe sin dal suo esordio e che a metà del guado lo hanno fatto fallire.
Il colpo di stato, e soprattutto gli eventi epocali che lo hanno seguito: la disintegrazione dell'impero sovietico, lo scontro tra la conservazione statal-borghese e la neo borghesia privata, il peso che tutto ciò ha avuto, e continuerà ad avere per molti anni, sul proletariato sovietico e internazionale, hanno avuto ben altri percorsi che non quelli espressi dalla cronaca borghese occidentale. E allora, perché quel trattamento di "favore" nei confronti di Gorbacev, perché quel tipo di golpe di velluto, perché i golpisti hanno deciso di non fare uso della forza militare?
A parte il già accennato scenario di crisi, motore primo di ogni grande avvenimento sociale, quattro sono le principali componenti che hanno determinato gli avvenimenti sovietici.
Tutti contro Gorbacev ed Eltsin, ma non troppo
Quando il comitato golpista si presenta alla dacia di Gorbacev il 19 agosto del 1991, due erano gli obiettivi primari da raggiungere:
- la perestrojka non avrebbe dovuto compiere nessun ulteriore passo in avanti;
- Gorbacev avrebbe dovuto essere trattato, nella misura del possibile, con i guanti.
La prima mossa è consistita nel convincere il Presidente ad assumersi il compito della "restaurazione dei valori socialisti". In altri termini per i cospiratori nulla doveva cambiare ai vertici delle istituzioni, Gorbacev sarebbe rimasto al suo posto e la perestrojka, svuotata dei suoi contenuti, doveva ridisegnare i contorni dell'apparato economico, lasciandone inalterato il contenuto. Alla risposta negativa del Presidente appare un secondo documento col quale, per l'improvvisa indisposizione di Gorbacev, tutti i poteri passavano al suo vice lanaiev per un automatismo del meccanismo costituzionale. Anche in questo caso non si doveva accedere all'uso della violenza, e il cambio della guardia doveva apparire come una normale routine dovuta a cause di forza maggiore.
Un terzo documento, che porta la data proprio del 19 agosto, un po' più risoluto dei precedenti, prevedeva l'arresto di Eltsin e di altri 21 dirigenti radicali, perquisizioni domiciliari degli elementi "antisocialisti", il fermo preventivo e il sequestro di documenti ritenuti importanti. Solo dopo l'ennesimo rifiuto di sottoscrivere i documenti e di adeguarsi al volere dei golpisti, Gorbacev venne sequestrato.
Una simile tattica e un così scarso uso della forza hanno una sola spiegazione: la paura dell'isolamento internazionale. lanaiev e compagni ben sapevano della popolarità raggiunta da Gorbacev in occidente. La perestrojka, il processo di democratizzazione, il "beau geste" del ritiro dell'Armata Rossa dai quattro angoli dell'impero, erano più applauditi e politicamente sostenuti all'estero che in patria. La tela diplomatica tessuta dallo stesso Gorbacev con gli Usa e gli altri "grandi" avrebbe ostacolato i movimenti di chi si fosse reso responsabile della destituzione del Presidente dell'Urss, ancor peggio se ottenuta con la forza, magari con un bagno di sangue.
Ecco, dunque, la progettazione di un golpe, forte e morbido al punto da ottenere l'obiettivo principale senza prestare il fianco al sabotaggio internazionale.
Con ciò non è da intendersi che gli alfieri della conservazione stalinista si fossero improvvisamente convertiti al quieto vivere dopo quarant'anni di guerra fredda, ma che dovendo fare di necessità virtù, occorreva lasciare l'Urss a quel livello di accettabilità all'interno del mondo occidentale per trattare nelle migliori condizioni il debito estero di 70 miliardi di dollari e la possibilità di ricevere altri aiuti finanziari. Anche dopo il colpo di stato i problemi economici e finanziari dell'Urss sarebbero rimasti sul terreno, e con quale credibilità il nuovo potere si sarebbe
presentato agli occhi dell'occidente se si fosse sbarazzato con la forza di Gorbacev, della perestrojka e delle aspettative suscitate presso coloro ai quali si andava a battere cassa. Era sin troppo chiaro per tutti che, comunque fossero andate le cose, all'Urss di Gorbacev o del dopo Gorbacev, alle singole repubbliche, nell'eventualità dello sfascio dell'Unione, da nessuno formalmente voluta ma da molti perseguita, sarebbero stati necessari ingenti capitali finanziari e adeguata tecnologia. Per cui le modalità del golpe, entro i limiti imposti dalla prevedibile opposizione interna, non dovevano bruciare le opportunità economiche e politiche del mercato internazionale.
La firma del nuovo trattato dell'Unione
Non solo il golpe, ma anche la sua data di attuazione è stata determinata da precise ragioni politiche. Il 20 agosto ci sarebbe stata la firma del nuovo trattato dell'Unione. In un momento di forti suggestioni centrifughe (Repubbliche baltiche, Georgia, Azerbaigian e la stessa Russia di Eltsin), Gorbacev tentava di salvare il salvabile proponendo la firma su di un trattato che sancisse un nuovo rapporto tra il centro e la periferia, una maggiore sovranità delle singole Repubbliche e uguale dignità per i cittadini sovietici indipendentemente dalla repubblica di appartenenza, dall'etnia o dalla religione.
Il nuovo trattato aveva avuto un poco felice precedente. Il 17 marzo 1990 Gorbacev aveva chiamato alle urne i 180 milioni di elettori sovietici delle 15 Repubbliche per una sorta di referendum sul rinnovo della federazione per una maggiore autonomia e sovranità delle Repubbliche pur all'interno del vecchio schema "socialista". La risposta non era stata delle più favorevoli. A parte i bisticci con i radicali di Eltsin sui limiti delle sovranità, si produsse confusione sul concetto stesso di federazione. C'era chi era daccordo con la nuova federazione, ma non con il suo rimanere "socialista". C'era chi, Armeni, Azeri, Ucraini e Baltici, interpretato il referendum in termini di opposizione al centro moscovita, agitava lo spauracchio di ciò che Gorbacev voleva evitare con la sua iniziativa: la separazione. Anche agli osservatori meno accorti era evidente che la firma del nuovo trattato del 20 agosto fosse un ambiguo pateracchio, più carico di prospettive nefaste di quello dell'anno precedente. Per i conservatori poi, la mossa del Presidente, invece di rinsaldare le fila tra le Repubbliche, avrebbe funzionato da acceleratore del latente processo di disintegrazione. Il che avrebbe comportato, oltre alla perdita di prestigio e di potere politico, un duro colpo al loro potere economico.
I finanziamenti civili e militari, le allocazioni di materie prime e di beni strumentali, vera e propria miniera di amministrazione e pompaggio burocratico di profitti, non sarebbero passati più dalle loro mani, o comunque sarebbero passati in misura nettamente inferiore.
Quindi se azione doveva esserci, questa doveva scattare entro il 20 di agosto, meglio sarebbe stato per i golpisti se ci fosse stato un più largo anticipo, ma la data del 19 rimaneva l'ultima possibile.
Il decreto sulle privatizzazioni delle imprese di stato
Da tempo la perestrojka aveva tradito il suo manifesto programmatico. I perni attorno ai quali si sarebbe dovuta sviluppare la grande riforma si incentravano sull'abbandono dell'economia di piano, sulla nascita di joint ventures, sulla riforma delle comuni, sulla liberalizzazione dei prezzi delle merci, della forza lavoro e sulla privatizzazione delle imprese di stato sia nel settore industriale che in quello agricolo.
Di tutti questi punti solo pochi si sono incamminati sulla strada della realizzazione, gli altri sono rimasti sulla carta. Un po' per l'accanita opposizione della conservazione, un po' per i tatticismi compromissori di Gorbacev, agli inizi degli anni novanta la perestrojka era rimasta praticamente al palo. Ma l'ulteriore indebolimento dell'economia di piano, l'immobilismo produttivo e la mancanza di beni di consumo avevano convinto una pletora di piccoli aspiranti capitalisti privati a correre l'avventura del commercio, della speculazione e della imprenditoria. Questa pletora si era dotata di una struttura organizzativa (Unione Scientifica e Culturale) che premeva perché venissero finalmente approvati i decreti sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sulla libertà imprenditoriale.
Sull'altro fronte, quello dei manager di stato, dei burocrati e dei militari era scattata la mobilitazione perché il decreto in questione non passasse. Otto mesi prima, il 6-7 dicembre, Tiziakov, responsabile dell'associazione delle imprese di stato, aveva fatto presente ai responsabili economici della perestrojka, la sua opposizione al decreto. Nonostante ciò, nei primi mesi del '91 il decreto passa. Lo stesso Gorbacev chiedeva di proporre all'attenzione del capitale occidentale sotto forma di joint ventures ben 400 imprese militari operanti nel settore della difesa, oltre a mettere all'asta un primo congruo numero delle 6 mila imprese statali operanti nel settore civile.
Il che faceva giungere a maturazione, esasperandoli, i termini dello scontro interno tra il mantenimento degli interessi legati al capitalismo di stato e le proiezioni privatistiche della neo borghesia sovietica.
Le defezioni
Dopo le prime mosse dei golpisti (destituzione del Presidente, controllo delle ambasciate, mobilitazione degli agenti del Kgb e allertamento dell'esercito non senza aver dichiarato che la linea gorbacioviana sarebbe rimasta inalterata), inizia a prendere corpo la controoffensiva dei "radical-democratici".
Chasbulatov, presidente del parlamento russo (Casa Bianca) decide di arroccarsi all'interno del Parlamento. Eltsin da vita a un vero e proprio corteo, con tanto di bandiera nazionale russa, e si incammina verso la Casa Bianca. Lungo la strada il corteo si ingrossa ed attorno al parlamento fanno presidio alcune centinaia di perestroicanti.
All'inizio la reazione antigolpista non era delle più partecipate, ma sufficiente a mettere in apprensione lanaiev e compagni. Il gioco stava facendosi duro e l'eventualità di usare la forza militare andava facendosi strada. Ma nel momento cruciale alcuni avvenimenti fanno precipitare la situazione, le defezioni militari si susseguono e l'uso della forza minaccia di scatenare la guerra civile. Di fronte a questa prospettiva il golpe si ferma, fa marcia indietro e poi si dissolve.
Il tutto ha inizio quando i membri del Comitato di salute pubblica ordinano al generale Lebed, comandante a Tu-la della 1060 Divisione autotrasportata di convergere su Mosca e di stringere d'assedio la Casa Bianca. Lebed esegue gli ordini, ma una volta arrivato a Mosca, parlamenta con Eltsin e poi passa dall'altra parte organizzando addirittura la difesa della Casa Bianca.
La seconda defezione è rappresentata da un consistente gruppo di "afgani" accorsi non tanto a difendere il Parlamento russo quanto per combattere contro i rappresentanti del vecchio regime, rei di averli usati per una campagna suicida senza le dovute ricompense al loro rientro. Come per i reduci americani dal Vietnam, l'imperialismo è uguale sotto qualsiasi latitudine e regime, il ritorno in patria non è stato dei migliori.
Difficoltà di reinserimento nella vita militare e ancor più in quella civile, spirito revanscista in senso economico e sociale sono state le molle che hanno spinto gli "Afgani" ad assummersi immediatamente l'onere della difesa del parlamento.
Terza, l'importantissima defezione del generale Kobec e del capo dell'aviazione Saposnikov. Tutta l'aviazione è rimasta fedele al governo di Gorbacev e minaccia di usare i caccia bombardieri sul Kremlino e sulla sede del Kgb (la Lubjanka) se il colpo di stato non fosse immediatamente rientrato.
Ai golpisti, dunque, la scelta. O andare sino in fondo, senza aviazione e con i quadri dell'esercito divisi e indecisi, con il rischio di scatenare una guerra civile dai contorni politici non nitidi, o fare marcia indietro, magari con il conforto di qualche bottiglia di vodka.
Dopo le prime, sporadiche schermaglie, più di facciata che di sostanza, il tentativo di colpo di stato imbocca miseramente, e ricopre di ridicolo, la seconda strada, quella della inevitabile sconfitta.
L'ultimo scorcio della partita lo ha comandato Eltsin, giocando la carta dello sciopero generale. Probabilmente non ce n'era bisogno, ma il futuro "zar" della Russia ha imposto il suo deterrente politico: o il ritiro immediato e senza condizioni, oppure avrebbe scatenato la piazza contro i golpisti.
Data la realtà della lotta di classe nell'Urss di quei momenti, più che un ultimatum, la mossa di Eltsin è suonata come un bluff. Ciò nonostante è bastata. Bluff, perché dagli esordi della perestrojka in avanti, per il proletariato sovietico le cose sono sempre andate peggio. Se risentimento di classe c'era per la vecchia amministrazione stalinista, risentimento c'era anche per le mai realizzate promesse dei riformatori, sia nella versione ufficiale di Gorbacev che in quella velleitaria di Eltsin. Negli ultimi due anni, 1990-91, il malcontento si era accresciuto per l'aumento dei disoccupati, per la mancanza dei generi di prima necessità e, soprattutto, perché non si riusciva a intravvedere una qualche via d'uscita al progressivo processo di sfascio. Ma in piazza a protestare sono solo i minatori e su di un terreno rigorosamente economicistico.
Di motivi, primo fra tutti la crisi economica, per vedere le strade percorse da colonne di proletari inferociti, ce ne sarebbero stati in abbondanza, ma per le masse lavoratrici sovietiche, politicamente sterilizzate da settant'anni di stalinismo, lo scontro di "Palazzo" tra conservatori e riformatori, golpe compreso, non ha avuto forti richiami. Chiunque li avesse sollecitati avrebbe corso il rischio di rimanere inascoltato o di trovarseli dall'altra parte. Se per ragioni storiche, ideologiche e di mancanza di un solido punto di riferimento politico veramente comunista e rivoluzionario, nonostante le conseguenze devastanti della crisi economica, "l'istinto" di classe dei proletari sovietici non ha potuto esprimersi, ha in compenso evitato, una tantum, di far precipitare milioni di lavoratori nel baratro dello scontro tra le necessità di conservazione di un capitalismo di stato in crisi e le velleità affaristiche di un capitalismo privato tutto da inventare.
Magra consolazione se si tiene conto di come, all'interno della medesima crisi economico-politica, le sirene borghesi del nazionalismo, del confessionalismo religioso e dell'appartenenza etnica, abbiano efficacemente svolto il loro lavoro controrivoluzionario. Ma questo ha passato il convento e di questo bisogna prendere atto.
Nello spazio di tre giorni, con "solo" tre morti, due militari e un dimostrante finito sotto i cingoli di un blindato, senza che le grandi masse entrassero in scena, si è consumato un misero tentativo di colpo di stato, è crollato un impero basato sulla più grande menzogna politica che la storia contemporanea ricordi aprendo voragini di barbarie difficilmente colmabili in tempi brevi.
Formalmente la cronaca proporrà il 21 dicembre 1991 come data della fine dell'Impero Sovietico. Il fallito colpo di stato se fornì a Gorbacev il pretesto di mettere fuori legge il Pcus e di contenere il revanscismo conservatore, prestò il fianco all'attacco dei radical-riformisti di Eltsin, autoproclamatisi in quei giorni salvatori della patria. Per il futuro zar della Russia, fu abbastanza agevole ridicolizzare l'inconsistenza della politica gorbacioviana, la pochezza della sua proposta di trasformare l'Urss in un nuovo pateracchio dai contorni politici equivoci quale l'Urs (Unione delle repubbliche sovrane) dove la mancanza dell'aggettivo socialista apriva la strada alle forze centrifughe dei nazionalismi antipianificazione.
Nei fatti l'inizio della fine sta in quell'ambiguo colpo di stato. La talpa della crisi aveva lavorato a sufficienza, e in mancanza di una consistente ripresa delle lotte proletarie che riproponessero l'intera questione in termini di lotta di classe, lo scontro interborghese non poteva non favorire nel breve periodo i programmi radicali dell'aspirante borghesia privata.
La Russia come l'Urss - L'eredità della crisi e dei suoi problemi
Nella fase cruciale delle convulsioni dell'Urss, il gioco di Eltsin andava facendosi sempre più chiaro. Sbarrata la strada alle forze della conservazione dopo il suicidio politico del tentato golpe, occorreva eliminare il Presidente anche a costo di favorire il disfacimento dell'impero, giocando sulle spinte autonomistiche sempre più forti e sempre più convinte che quella sarebbe stata la strada della salvezza. Da qui l'opposizione alla proposta della nuova Unione degli Stati Sovrani, la controposta della nascita di una fantomatica Unione delle Repubbliche Slave (Russia, Bielorussia e Ucraina), per poi passare al ricompattamento del tutto attraverso la creazione della Csi, Confederazione degli Stati Indipendenti.
L'idea di fondo era quella di accorpare attorno alla Russia tutte le altre repubbliche, o buona parte di esse, con un nuovo rapporto di sudditanza che non passasse più attraverso i vecchi sistemi del centralizzato capitalismo di stato. Pur cianciando di autonomia e di indipendenza sulla base economica di un rigenerante capitalismo di mercato tutto da costruire, la malcelata ambizione di Eltsin era quella di sfruttare il peso specifico della Russia contro le misere individualità economiche e politiche delle altre repubbliche. 1150 milioni di abitanti, la metà esatta di tutte le Repubbliche ex sovietiche messe insieme, il possesso dei tre quinti dell'arsenale militare, il controllo di fatto dell'ex Armata rossa, il possesso e la gestione della stragrande maggioranza delle risorse minerarie e delle grandi fabbriche di stato, gli facevano ritenere che il processo di ricomposizione economica e politica, si sarebbe svolto sotto l'egida della Russia.
Ma al nuovo zar, e ai suoi più stretti collaboratori, sono venute meno alcune fondamentali coordinate: i tempi di gestione di tutto il possesso, l'inevitabile ostilità delle borghesie repubblicane, l'aggravarsi della crisi economica e soprattutto il fatto che, la scomparsa dell'Urss non poteva significare la scomparsa di quei problemi che erano stati alla base della sua dissoluzione.
Il capitalismo privato, in quanto tale, non può risolvere i problemi e le contraddizioni del capitalismo di stato, così come il possesso statale dei mezzi di produzione e la pianificazione dell'economia non sono la panacea alle difficoltà di valorizzazione del capitale.
Quando i processi di crisi si innescano mettendo in discussione i meccanismi di valorizzazione del capitale, sia in termini di massa che di saggio del profitto, il loro corso non è arginabile, né tantomeno arrestabile, modificando le forme di gestione o di proprietà del capitale. Vero è invece che le forme di gestione dei rapporti di produzione (capitalismo di stato, capitalismo privato e capitalismo misto) possono conferire alle crisi tempi di espressione e intensità diverse. Altrettanto vero è che i tentativi di amministrazione e di uscita dalle crisi possono portare verso forme ulteriori di concentrazione dei mezzi di produzione e del capitale finanziario o, come negli ex paesi dell'Est, al tentativo di scardinare la concentrazione statalistica per rincorrere il miraggio del piccolo e del privato. Ma in entrambi i casi, ammesso che il secondo sia praticabile sino in fondo, sono le forme di amministrazione dei rapporti di produzione capitalistici che tentato di adeguarsi alle devastazioni delle crisi, e non sono certamente queste ultime che subiscono inibizioni o arresti dal mero modificarsi delle prime.
Nell'esperienza occidentale, da decenni, con particolare intensità durante e dopo la grande depressione del 1929-33 e nella fase della ricostruzione post bellica, il capitalismo privato ha sempre tentato di sfuggire alla ciclicità delle crisi, teorizzando e praticando la necessità di intervento dello stato nell'economia. Che lo si dichiarasse o no, le progressive concentrazioni nelle mani dello stato, i suoi condizionamenti della sfera produttiva come di quella finanziaria, il vero e proprio capitalismo di stato, secondo le ideologie più spinte della borghesia di "sinistra", venivano considerati come la fine dello spauracchio delle crisi economiche, o quali necessarie vie d'uscita dalla stessa. Ma decenni di intervento dello stato nell'economia non sono valsi né a modificare i rapporti di produzione né a eliminare i suoi aspetti di contraddittorietà, crisi comprese. Lo stesso vale, anche se in termini rovesciati, per l'esperienza dell'Urss e degli ex paesi dell'Est. Il tentativo di abbandono delle categorie economico-amministrative del capitalismo di stato per quelle private, al di là dei limiti obiettivi e delle enormi difficoltà che un simile processo comporta, non può risolvere i problemi di una simile crisi, né tantomeno essere il vaccino contro le future depressioni. La contraddittorietà dei fattori economici, l'ineluttabilità delle crisi, le devastazioni sociali e la barbarie che ne consegue, non sono mai il frutto di questa o quella forma organizzativa dei rapporti di produzione ma del sistema produttivo stesso. Le forme organizzative vanno, vengono, si modificano, ma il capitalismo e i suoi problemi restano. Nella Russia di Eltsin, dopo lo sfascio del capitalismo di stato sovietico, tutti i problemi sono rimasti con l'aggravante di essere ingigantiti dall'aggravarsi della situazione interna e internazionale.
Alla rinnovata gestione del Kremlino si sono ripresentate le difficoltà di rimettere in moto una macchina produttiva afflitta da una inarrestabile quanto veloce caduta del saggio medio del profitto, da una progressiva diminuzione della produttività che ha quasi azzerato il tasso degli investimenti e quindi della crescita della produzione. La carenza dei beni di prima necessità già storica all'epoca della gestione sovietica, è diventata drammatica nel primo anno della nuova gestione. Ma soprattutto le prime misure di abbandono dell'economia centralizzata si sono scontrate con la cronica carenza di capitali e con l'obsolescenza dei mezzi di produzione.
Gorbacev aveva fallito nel suo progetto, non perché tentennante e ambiguo, non solo perché ha trovato sulla sua strada l'ostacolo della conservazione stalinista o altri ostacoli di ordine politico-ideologico, ma essenzialmente perché nell'Urss della seconda metà degli anni ottanta mancavano alcune fondamentali premesse o condizioni necessarie, perché il passaggio dall'economia di piano a quella di mercato non si trasformasse in una sorta di massacro economico e sociale.
Nessuna riforma, tantomeno se radicale e traumatica, senza un minimo supporto economico e finanziario, può muoversi concretamente, a meno di non creare danni maggiori di quelli che dovrebbe risolvere.
Il pesante fardello che la Russia ha ricevuto in eredità dall'Urss di Gorbacev, era che riforme quali la privatizzazione delle terre e delle fabbriche, la libera imprenditoria e tutto il bagaglio borghese privatistico, finivano per rimanere sulla carta o per non avere senso compiuto, senza un minimo di strutture e di "ambiente" a capitale finanziario privato. Eltsin ha creduto di disfarsi della eredità sovietica forzando tempi e modi, convinto che l'importante fosse distruggere le strutture portanti della pianificazione e non di favorire, sempre nella misura del possibile e del consentito, le precondizioni finanziarie sociali alla privatizzazione.
Dopo oltre settantanni di assoluto dominio di una borghesia burocratico-statale, fedele e interessata interprete della massima concentrazione e centralizzazione dei mezzi di produzione e del capitale finanziario, non si inventa per decreto la nascita di una borghesia privata in grado di sostituirsi al vecchio apparato. E come se si pretendesse di evocare l'esistenza di qualcosa limitandosi a invocarla. Ci vuole ben altro. Anche se il cambiamento di rotta è tutto all'interno dei meccanismi produttivi capitalistici, gestirne i fattori significa avere a disposizione, e quindi amministrare, il capitale finanziario. Come, quindi, uscire da una situazione di bancarotta statale, senza che nel frattempo si sia creata storicamente e praticamente, non una classe, ma un embrione di classe borghese in termini privatistici? E poi una classe imprenditoriale privata, degna di questo nome, per essere tale abbisogna di uno status economico e di un patrimonio finanziario, magari ancora allo stato di genesi, ma già presente e in qualche modo operante. Sia nell'Urss delle pretese riforme che nella Russia delle tragiche "realizzazioni", è venuta meno la possibilità di supportare la nascente borghesia privata con un adeguato processo di rastrellamento e di concentrazione di quel poco di capitale che circolava al di fuori degli ormai secchi canali della pianificazione.
Sia prima che in modo particolare dopo il "big bang" della privatizzazione, per la borghesia russa, carenti, se non inesistenti, erano gli istituti creditizi che avrebbero dovuto favorire il suo decollo.
Le banche statali erano e sono tuttora alle prese con le enormi difficoltà di soddisfare al minimo le esigenze di finanziamento delle imprese di stato, e certamente non si possono permettere il lusso di destinare nemmeno una minima quota delle loro risorse al neonato mondo della imprenditoria privata. Le banche private hanno enormi difficoltà di raccolta del denaro, e perché di circolante ne è rimasto ben poco, e perché quel poco raramente si indirizza verso il risparmio.
Borsa e Fondi comuni di investimento, o sono a livelli ridicoli, è il caso della prima, o sono ancora di là a venire. Le finanziarie, così come siamo abituati a vederle dalle nostre parti, non sono ancora partite, mentre l'inflazione galoppante azzera tutti i piccoli risparmi e l'alto costo del denaro rende pressoché impossibile il ricorso al credito.
Un po' poco, troppo poco perché le novelle schiere degli aspiranti yuppies moscoviti, possano crescere al punto da risolvere le disastrate condizioni dell'economia pianificata. A meno che le teste d'uovo del nuovo corso non abbiano previsto tempi siderali, calcolando cioè i passi verso l'economia di mercato in anni luce senza tenere in minima considerazione l'ulteriore sconquasso economico e il relativo costo sociale. Ma le cose non stanno in questi termini. Per i vari Satalin, Javlinskij e Gajdar le cose avrebbero dovuto assestarsi nello spazio di un anno e mezzo.
La grande illusione
Negli ambienti politici e accademici legati alla perestrojka era così diffusa l'idea che tutte le responsabilità della grave crisi fossero riconducibili alla ossessiva invadenza dello stato, da ritenere ingenuamente che fosse sufficiente liberare i fattori economici dai vincoli della pianificazione, perché la ripresa economica si proponesse in tutta la sua trascinante forza.
L'errore, tra gli altri, era quello di concepire la relazione tra crisi e piano, come se il secondo, e solo esso, fosse la causa della prima, senza calarsi più di tanto nei meccanismi del processo di accumulazione, unica fonte di guai per tutti i regimi capitalistici sia in vesti privatistiche che di stato.
Per questo motivo, l'illusione che tutto il problema ruotasse attorno all'equazione meno piano più mercato, induceva all'ottimismo i collaboratori economici di Gorbacev prima, e quelli di Eltsin poi. L'ottimismo non riguardava soltanto la possibilità di accedere a una economia di mercato, ma anche i tempi tecnici della sua piena realizzazione.
Ancora sotto l'amministrazione gorbacioviana, i piani di trasformazione dell'economia sovietica, quasi una decina, ponevano la questione in termini di 10-15 mesi o di pochissimi anni (due o al massimo tre). A queste euforiche aspettative non vengono meno neanche i piani più "nobili", quelli cioè elaborati nelle sofisticate sedi accademiche. Primo fra tutti quello di Leonid Abalkin, insigne accademico e consigliere di fiducia di Gorbacev. Il piano di trasformazione economica, elaborato nel 1989, pur non pronunciandosi sui tempi, parlava di "celeri" transizioni. Lo stesso dicasi per quello di Abel Anganbegjan e di Ryzkov. Sempre dello stesso tenore è il "piano dei cinquecento giorni" di Satalin e Javlinskij che, nonostante il fallimento sotto l'amministrazione gorbacioviana, è ancora alla base del programma economico di Gajdar nella Russia di Eltsin.
Nelle sue linee generali il piano avrebbe dovuto consentire l'apertura ai meccanismi del mercato in 500 giorni attraverso una privatizzazione del 70% dell'economia industriale e agricola. Ai privati sarebbe passato anche il controllo e la distribuzione delle materie prime e tutta la rete commerciale interna. Contemporaneamente sarebbe sorta una forte classe finanziaria e imprenditoriale quale asse portante della nuova borghesia privata. Sul terreno finanziario, nel medesimo lasso di tempo, il governo avrebbe attivato quegli strumenti tecnici in grado di rastrellare qualcosa come 500 miliardi di rubli nascosti nei cassetti o sotto i materassi dei cittadini sovietici. Una sorta di caccia ai risparmi da canalizzare attraverso le banche o altri istituti di credito, verso l'investimento produttivo. Una simile manovra finanziaria, a lato di un'economia marciante sotto gli stimoli del mercato, avrebbe consentito la convertibilità del rublo e il consolidamento dei rapporti economici, commerciali e finanziari dell'Urss sul mercato internazionale.
In dettaglio, nei primi 100 giorni il governo procede al taglio dei rami secchi, degli sprechi e all'inventario delle proprietà statali, del loro consolidamento o della lorc vendita. Nella contrazione delle spese di bilancio si cita quella militare (-10%) e quella per il Kgb (-20%). Analogamente verrebbero contratti i prestiti e gli "aiuti" alle economie e alle strutture militari dei paesi fratelli. Altro risparmio, questa volta statale, finalizzato agli investimenti produttivi.
Poi si passa alla vendita delle terre. Per favorire la decollettivizzazione e incentivare la piccola-media proprietà, prezzi dell'offerta statale dovrebbero essere molto bassi, quasi irrisori.
Nei secondi 100 giorni si procede alla vendita delle fabbriche statali, prima le più piccole, poi quelle di media dimensione. La privatizzazione dovrebbe estendersi al piccolo commercio, ai negozi e alle strutture periferiche di alcuni servizi come i bar e ristoranti. Nel frattempo s concederebbero nuove licenze per qualsiasi iniziativa imprenditoriale di tipo associativo o individuale.
Nei successivi 200 giorni, a parte il consolidamento e l'ulteriore sviluppo dei processi citati, il piano prevede la privatizzazione delle grandi imprese statali e delle aziende agricole. In termini percentuali si avrebbe che il 40-45% dell'economia passerebbe nelle mani di acquirenti o azionisti stranieri e/o sovietici. Un'altra strada alla privatizzazione delle grandi imprese passerebbe attraverso la creazione di cooperative di lavoratori. Secondo queste previsioni, allo scadere del quattrocentesimo giorno, il rublo, espressione monetaria di una economia già ampiamente fuori dalle sacche della crisi, dovrebbe festeggiare la nascita alla convertibilità.
Per gli ultimi cento giorni si prevede il consolidamento dei tutto. Smantellata l'economia di piano, il risorto mercato fungerebbe da acceleratore dei profitti, degli investimenti e si potrebbe pensare con realistico ottimismo alla possibilità di rendere funzionanti e funzionali i vecchi servizi e di crearne di nuovi all'altezza dell'occidente. Le uniche perplessità Javlinskij le individua nella dolorosa, quanto necessaria e salutare, scomparsa dal mercatc delle imprese non competitive, non all'altezza cioè di reggere la concorrenza. Il che, congiuntamente alle nuove normative sulla impossibilità da parte dello stato di garantire comunque il posto di lavoro, comporterebbe si l'ingigantirsi del fenomeno sociale della disoccupazione, ma, parafrasando l'autore del programma dei 500 giorni, "ogni progresso comporta un certo numero di vittime e poi le frontiere dell'Urss dovrebbero aprirsi verso il mondo occidentale". Un rozzo modo per dire che così come l'Urss importa capitale finanziario e tecnologia, può benissimo permettersi il lusso di esportare forza lavoro. Peccato per Javlinskij e per il bistrattatissimo proletariato sovietico che anche l'occidente naviga da tempo nelle agitate acque dell'espulsione progressiva di forza lavoro dai meccanismi produttivi.
Turbolenze occupazionali a parte, quello che sconcerta è l'assoluta mancanza di realismo. Sembra la storia della contadinella che va al mercato con la sua dozzina di uova e che inganna il tempo del tragitto fantasticando sui guadagni immediati e futuri. La fine arcinota della storiella è che la povera contadina non riesce nemmeno ad arrivare al mercato perché le dodici uova si trasformano in una disastrosa frittata strada facendo. E questo è stato il destino del piano dei 500 giorni. Un colossale fallimento, una gigantesca frittata.
Il piano praticamente non si è mosso dalla carta, e quando lo ha fatto, per quel poco che gli è stato possibile, ha creato soltanto sconquassi.
Ritornando alle turbolenze occupazionali, alle selvagge necessità di aumento della produttività, all'introduzione dell'iniqua legge sul lavoro che lo ridefinisce come "atto volontario", non meraviglia né il cinismo né la feroce determinazione antioperaia di questa "nuova" classe dominante. I nuovi gestori, o aspiranti tali, del corso riformatore, sono gli stessi che nell'era brezneviana hanno perpetuato il clima controrivoluzionario e antioperaio dello stalinismo. Abituati a concepire la classe operaia come forza lavoro, ovvero come condizione e mezzo per la realizzazione di plusvalore, non hanno fatto altro, nella nuova situazione, che riproporre lo stesso atteggiamento sforzandosi soltanto di adeguarlo alla gravità della crisi e alle mutate situazioni. Inoltre, potendo usufruire di un relativo basso livello della lotta di classe, si sono permessi il lusso di dichiarare ai quattro venti che per uscire dalla condizione di stallo non era sufficiente che si abbandonasse l'economia di piano (alias comunismo) ma che per le masse lavoratrici la disoccupazione, la perdita di quasi tutte le forme di assistenza sociale e un adeguato aumento dell'intensità del lavoro, sarebbero stati il companatico quotidiano. Quello che non hanno mai dichiarato apertamente è che se anche le cose si fossero messe per il meglio dopo il periodo di trasformazione, per la classe operaia nulla sarebbe cambiato e che nel frattempo non avrebbero avuto nemmeno il pane per accompagnare la durissima politica dei sacrifici.
Il grande disastro
Una delle poche cose che sono sopravvissute alla caduta dell'Urss, accanto alla miseria e alla disperazione, è stata proprio la grande illusione. Nelle rozze percezioni politiche di Eltsin la dissoluzione dell'Urss, la sconfitta anche se non definitiva della conservazione e la scomparsa coatta del "concorrente" Gorbacev dalla scena politica, sono state interpretate come la rimozione dei maggiori ostacoli alla realizzazione integrale del grande progetto riformatore.
In linea con questo approccio, per Eltsin e per il suo braccio destro, Igor Gajdar, il piano dei 500 giorni manteneva tutta la sua validità anche se aveva mostrato la corda in più occasioni e nonostante che lo stesso Javlinskij fosse ritornato precipitosamente sui suoi passi portando il progetto a 2300 giorni.
Sotto la nuova gestione, il piano Gajdar, senza ulteriori precisazioni di calendario, recupera in toto il programma di Javlinskij spostandolo dallo scenario sovietico a quello russo.
Per punti il programma prevedeva: l'accelerazione delle privatizzazioni nell'industria e nell'agricoltura. La liberalizzazione dei prezzi dei beni di consumo e dei servizi mentre permane un regime di prezzi controllati per le materie prime e l'energia sia per l'uso civile che industriale. Il contenimento dell'inflazione entro il tetto del 10% al mese nell'arco di un anno. La riduzione del debito estero. La convertibilità del rublo entro l'agosto del 1991. Sul fronte finanziario il piano contemplava la necessità di un'ulteriore decurtazione delle spese statali per gli armamenti e la vendita di materiale bellico al fine di ricostituire un minimo di scorte monetarie in valuta pregiata. I soliti problemi, ma l'imperativo sembrava essere quello del tutto e subito. Dalle privatizzazioni il nuovo regime si aspettava non soltanto dei significativi passi in avanti verso l'agognata economia di mercato, ma anche un bel mucchietto di miliardi di rubli. Secondo previsioni, a dire poco eccessivamente ottimistiche, la cessione ai privati delle imprese avrebbe dovuto arricchire le casse dello stato di 92 miliardi di rubli entro la fine del 1992. Di 400 miliardi entro il 1993 e di 500 per la fine del 1994. A chi e in base a quali risorse finanziarie effettuare le vendite, non è dato saperlo, a meno che non si prenda sul serio, l'iniziativa di dotare ogni cittadino russo di un "bonus" di dieci mila rubli con l'obbligo di usarli per l'acquisto di azioni emesse all'atto della privatizzazione di una fabbrica di stato. Proposta ridicola, che mostra da un lato gli scarsissimi margini di manovra del governo, e dall'altra mette in evidenza la lentezza, e in certi casi l'impossibilità, di procedere sul terreno della privatizzazione industriale per l'inconsistenza della domanda.
Per confondere le acque, il responsabile della riforma, Igor Gajdar, ha emesso un'analisi statistica in base alla quale dal gennaio al luglio 1991 ben il 15% delle unità produttive in sede industriale sono diventate private. Sempre ammesso che la cifra risponda a verità, c'è da chiarire che le unità produttive in questione sono delle piccole aziende operanti in settori secondari, il cui peso specifico in termini di concorso al Pil è pressoché insignificante.
Il grosso dell'apparato industriale è ancora lì semiparalizzato dalla mancanza di capitali, tecnologicamente depresso, con scarse prospettive di un rapido processo di ristrutturazione, costoso in termini relativi e assoluti per il mercato russo, quindi scarsamente appetibile dalla domanda interna o internazionale.
L'agricoltura è in condizioni ancora peggiori. Il tentativo di trasformare le Comuni (Kolkoz e Sovcoz) in società per azioni ha mosso soltanto i primi passi e molto stentatamente. Le grandi aziende statali sono nella medesima situazione delle imprese di stato: prive di capitali, mancanti di tecnologia e di carburante, tecnologicamente obsolete e nella impossibilità di accedere a facili finanziamenti con un costo del danaro nei primi mesi del 1992 già al 30%.
L'appetibilità nei confronti di queste aziende è molto scarsa, ancora più scarsa di quella riservata alle imprese industriali. Per quei pochi contadini che hanno ricevuto in concessione o in affitto le "prime" terre, in attesa della definizione della legge sulla proprietà terriera, l'attività economica è un disastro completo. Il governo russo ha emanato un decreto in base al quale il 60% della produzione agricola privata deve essere venduta allo stato a prezzi controllati, ovvero fissi, oltre che bassi. Questo per consentire un approvvigionamento delle città e delle zone industriali a basso costo. In compenso i prezzi di beni strumentali agricoli, delle sementi e dei concimi chimici, per effetto della liberalizzazione è salito alle stelle. Nel solo mese di luglio 1992, a fronte di un prezzo di 12 mila rubli per un quintale di grano imposto dallo stato, il prezzo di una mietitrebbia di vecchia concezione è salito di dieci volte, arrivando a costare milioni di rubli.
Il che ha scatenato la rivolta del mondo agricolo. Nello stesso mese, una delegazione di lavoratori agricoli indipendenti ha marciato su Mosca, rivendicando l'insostenibilità della situazione, chiedendo la parità tra i prezzi agricoli e quelli industriali, l'abolizione di una nuova tassa sul valore aggiunto e un costo del denaro compatibile con le esigenze dell'area privatizzata.
Eltsin, chiuso nella trappola da lui stesso innescata, ha faticosamente risposto che se il suo governo accettasse simili rivendicazioni, si vedrebbe costretto ad aumentare il prezzo del pane dagli attuali 10 rubli al chilo ai 40-45, cosa che non solo non sarebbe compatibile con le più elementari esigenze della popolazione russa, ma che metterebbe in discussione il già precario assetto politico. Per cui tutto rimane fermo in attesa di qualche evento risolutore esterno.
Ciò significa che per le fattorie dei "liberi" contadini, le statistiche riferiscono dati relativi all'80% della nuova realtà privatizzata, c'è mancanza di acqua corrente e l'energia elettrica è appannaggio solo per la metà di loro.
In media c'è la disponibilità di un trattore ogni due fattorie, un aratro ogni cinque e una trebbiatrice ogni dodici. Queste in estrema sintesi i "vantaggi" della privatizzazione nel mondo agricolo. Chi per il momento sta facendo affari d'oro è il micro operatore economico, chi lavoro nel mercato nero, il piccolo commerciante, la mafia che controlla una parte della distribuzione dei beni alimentari e furfanti di ogni risma.
Il 1992 è stato un anno tragico anche sul terreno della finanza. La penuria di capitali non è stata limitata dalla vendita dei "gioielli di casa". Quella valanga di miliardi di rubli, che secondo le aspettative di Gajdar avrebbe dovuto rinsanguare le casse dello stato, non si è mossa al pari di quel processo di privatizzazione che ne avrebbe dovuto rappresentare la base principale. Per questa ragione quel poco di capitale finanziario esistente è nelle mani dello stato, esattamente come ai tempi dell'Urss quando la Gosbank deteneva il monopolio assoluto del capitale. La riforma privatizzante delle Casse di risparmio è ancora in alto mare, mentre la nascita di nuovi istituti di credito è ostacolata sia dalla penuria di capitali che dall'alto costo del tasso di sconto e dalla difficoltà della raccolta di risparmi.
In parallelo, proprio nel fatidico agosto, che avrebbe dovuto vedere il risanamento della finanza pubblica e la convertibilità del rublo, si è registrata la bancarotta dello stato russo. Il governatore della Banca centrale, in aperta contraddizione con le linee programmatiche tracciate da Gajdar, ha dovuto stampare carta moneta per un valore di 500 miliardi di rubli. Gheraschenko è stato costretto a prendere una simile misura sia per sopperire alla mancanza di liquidità del sistema, sia per far fronte ad una situazione debitoria dello stato nei confronti dei suoi dipendenti pari a 221 miliardi di rubli. Debito accumulato nel primo semestre del 1992, di cui 71 nel solo mese di luglio.
L'inflazione, che a gennaio era del 20% al mese è arrivata al 31 % nel mese di luglio e, in proiezione al 1000% anno a settembre. Il rublo, che a gennaio quotava 60 a 1 nei confronti del dollaro, a luglio era sceso a 161 per arrivare a quota 270 nel mese di settembre.
In virtù di una simile situazione finanziaria, specchio fedele dell'andamento economico, le stesse imprese statali, le sole a "godere" dei sovvenzionamenti del "centro" hanno raggiunto un indebitamento di tre mila miliardi di rubli.
Nemmeno la tanto invocata liberalizzazione dei prezzi è stata portatrice degli effetti sperati. Il governo si aspettava che, dopo un periodo di esplosione dei prezzi, la stabilizzazione sarebbe arrivata e con essa sarebbero scomparsi il fenomeno dell'aggiotaggio a fini speculativi e il mercato nero. Le merci, quelle poche che ancora si producevano, sarebbero ricomparse nei magazzini e il mercato, dopo qualche impennata di assestamento, avrebbe assunto il suo ruolo regolatore del costo del denaro, del prezzo delle merci e delle materie prime, decidendo sul piano della competizione quali fabbriche o aziende avrebbero avuto il diritto di proseguire nella loro attività economica, e chi invece, avrebbe dovuto lasciare il campo per manifesta inferiorità concorrenziale. In puro stile neo-liberista, al nuovo paradiso economico di mercato, nel quale nulla più doveva essere condizionato da qualsivoglia programmazione, ma tutto regolato dalla sacre leggi della domanda e dell'offerta, mancava solo qualcosa che lo mettesse in moto. Questo qualcosa, doveva essere nei piani di Eltsin e Gajdar, il meccanismo della liberalizzazione dei prezzi.
Quante volte nei mesi e negli anni precedenti Eltsin aveva accusato Gorbacev di carenze decisionali proprio su questo problema. Finalmente nella Russia della post-pianificazione, il fatidico momento era arrivato. Il 2 gennaio 1992 il decreto sulla liberalizzazione dei prezzi entrava in vigore. Gli effetti sono stati disastrosi. Nello spazio di una settimana l'inflazione è balzata mediamente al 300% con punte per alcuni prodotti dell'800%. Da quel momento in avanti non ha fatto che crescere distruggendo tutti gli obiettivi programmati e generando panico e caos negli stessi operatori economici che l'avevano invocata.
Nonostante l'impennata dei prezzi e la conseguente aspettativa da parte degli aggiotatori e speculatori vari di poter realizzare sul mercato buoni profitti commerciali, i magazzini e i mercati cittadini sono rimasti desolatamente vuoti. Le file davanti ai negozi si sono allungate. Negli scaffali, quando c'erano, solo cavoli e patate. In molti casi, quando c'era una fila, la gente si metteva per ore in coda senza neppure sapere per che cosa. L'importante era che, arrivati alla fine si trovasse qualcosa da mangiare, qualunque cosa purché commestibile.
Alla fine di gennaio, con un salario medio di 300 rubli (oggi i salari nominali sono aumentati di ottanta volte, ma il loro potere d'acquisto è diminuito), si compravano 12 uova, un chilo di pane e mezzo chilo di carne, ovviamente in un mese.
La situazione era così tragica, che per la prima volta nel corso della nuova gestione, la Piazza Rossa è stata invasa da manifestanti affamati. Il duo Eltsin-Gajdar è dovuto scendere a patti. Ha rinviato l'aumento dei prezzi per la luce elettrica ed il gas, ha promesso che i beni di prima necessità sarebbero ritornati sui mercati, ma che per il resto poco o nulla avrebbe potuto fare. E a migliore comprensione di come i nuovi inquilini del Palazzo intendessero amministrare la situazione di emergenza creatasi con la liberalizzazione dei prezzi, sono nate immediatamente le squadre antisommossa. I prezzi non si possonc fermare, ma le alzate di testa di una classe operaia affamata sì, con le manganellate se le rimostranze si mantengono in limiti accettabili, altrimenti sono i cingolati a entrare in azione.
L'amministrazione russa ha mostrato di avere enormi problemi di liquidità. Per mesi non ha pagato gli stipendi ai dipendenti pubblici, finanziariamente era con l'acqua alla gola, ma i soldi per allestire reparti di pronto intervento li ha trovati immediatamente. A questi professionisti era demandato il compito di iniziare a sbrigare le faccende quotidiane degli scioperi della fame con una inflazione al 300%, poi avrebbero fatto sul serio qualora l'inflazione avesse raggiunto livelli tali da rendere il rublo carta straccia, inservibile per una qualsiasi transazione economica, e quindi difficilmente contenibile una eventuale ripresa delle lotte operaie.
Nei successivi nove mesi, oltre le più pessimistiche previsioni, l'impalcatura della costruenda economia di mercato è andata progressivamente sgretolandosi. Le sue deboli dorsali, invece di consolidarsi, magari pagando un iniziale scotto dovuto al traumatico assestamento, hanno clamorosamente ceduto sotto il peso dell'insostenibile esplosione delle contraddizioni economiche e sociali. Ai vecchi e non risolti problemi del capitalismo di stato si sono sommati quelli della nascitura economia di mercato. Contraddizioni nuove si sono aggiunte a contraddizioni vecchie. I meccanismi che regolano le leggi del profitto e della valorizzazione del capitale non solo non si sono messe in moto, ma hanno subito un ulteriore deterioramento. Quella che doveva essere la via di salvezza della crisi del capitalismo di stato, si è dimostrata una strada piena di ostacoli e di incognite difficilmente superabili.
Strada che la perestrojka di Gorbacev e la terapia d'urto di Eltsin, hanno mostrato di non saper percorrere né in tempi brevi, né a costi sociali sopportabili.
Nei mesi cruciali del 1992, quando le cose avrebbero dovuto marciare in ben altre direzioni e condizioni, secondo le aspettative del governo, l'economia russa è sembrata un pozzo senza fine. Non passava settimana che il fondo della depressione economica non si abbassasse ulteriormente.
Tutti gli indici economici sono precipitati con intensità e velocità impressionanti. Il fondo del barile, più volte grattato, si è aperto in una immane voragine che tutto divora e distrugge.
Ad agosto 1992, accanto ad una inflazione del 1000%, si è registrata una diminuzione della produzione industriale del 30% rispetto al mese precedente. La produzione agricola ha subito una contrazione del 27%, mentre il RnI è sceso del 18%.
Ai magazzini Gum di Mosca, simbolo del "consumismo" russo, si pretende che gli acquisti avvengano in dollari. Segno dei tempi, ma anche della scarsa credibilità raggiunta dal rublo sul mercato interno, sia per le aspettative immediate che per quelle future. Nel frattempo il deficit statale ha scollinato a 100 miliardi di rubli segnando l'ennesimo record negativo. Il disastro è completo. Nemmeno se ci fosse stata volontarietà a far danni nelle decisioni prese dai responsabili politici, si sarebbe potuto immaginare una simile catastrofe. A leggere le statistiche che provengono dalla Russia sembra di scorrere un bollettino di guerra. Non un indice positivo, assolutamente nessuno segno di ripresa. Una cosa certa è che il baratro si è aperto e non è dato di sapere quando potrà essere chiuso. Intanto milioni di proletari russi pagano quotidianamente il costo dell'esperimento neoborghese. L'altra certezza è che l'impoverimento si allargherà a macchia d'olio, che milioni di disoccupati (tra gli otto e i dieci milioni entro la fine del 1992 secondo le stesse fonti russe) andranno a ingrossare il già nutrito esercito di riserva di forza lavoro.
La situazione è così degradata che lo stesso Rutskoj, vicepresidente della Repubblica russa (ex sostenitore di Eltsin, poi passato all'opposizione) a commento dei guasti prodotti dalla linea dura di Gajdar, ha detto che, se le cose, da questo momento in avanti, dovessero andare per il meglio, ci vorrebbero dieci anni prima di ritornare sui livelli produttivi del 1990. Livelli che i commentatori interni e internazionali giudicavano catastrofici e comunque così bassi rispetto ai quali non si poteva che risalire! Ma il dato più evidente, per ora, è che di segnali positivi non se ne vedono, e che per la classe operaia si preparano ancora anni di lacrime e sangue.
La tragedia nella tragedia è che in una simile situazione non si sia prodotta una risposta di classe. Le varie fazioni della borghesia si sono date battaglia, hanno fatto e disfatto, hanno contribuito per la loro parte al disastro dell'intera società senza che da parte del mondo del lavoro salariato qualcuno tentasse di presentare loro il conto.
Non lo hanno presentato nei lunghi e pesanti decenni dell'amministrazione stalinista. Allora il proletariato sovietico pativa l'ideologia "socialista"della sua classe dominante. Ha subito e pagato in nome di un falso socialismo posto a orpello della più reazionaria delle politiche borghesi, quella del capitalismo di stato. Non lo ha presentato quando il "democratico" Gorbacev si è proposto sulla scena politica sovietica come riformatore di "quel socialismo". Non lo ha fatto nemmeno, dopo il tragico crollo dell'Urss, quando le forze della neo borghesia russa hanno decretato la fine del falso socialismo per la costruzione del "vero" capitalismo. Ciò non significa che il proletariato sovietico o quello russo siano scomparsi dalla storia perché definitivamente assimilati all'interno dei nuovi schemi economici e politico-istituzionali delle costruende società del dopo Urss. Testimonia invece di come, in assenza di una avanguardia politica di classe, in mancanza di un esame scientifico del capitalismo di stato e delle cause della sua crisi e di una strategia rivoluzionaria atta a superarle, la risposta di classe alle devastanti conseguenze delle crisi economiche, o stenta di partire, o viene risucchiata da uno dei numerosi rivoli della conservazione borghese.
Non deve sorprendere che questi rivoli, autonomismo repubblicano, confessionalismo religioso, separatismo etnico, eccetera, facciano ritornare la storia indietro di quasi cento anni, alla fine della Prima guerra mondiale. Deve invece preoccupare l'assiduo, anche se rozzo e contraddittorio lavoro della neo borghesia russa sulle coscienze politiche di milioni di lavoratori russi e la mancanza, per certi versi inevitabile, di opposizioni comuniste. Ma l'eliminazione fisica di qualsiasi forma di opposizione di classe in un arco storico di circa sessant'anni, accanto all'operare dell'ideologia "dominante della classe dominante", non poteva sortire che questi risultati. A una delle più gravi crisi del capitalismo non si è contrapposta una adeguata riproposizione della lotta di classe. Ecco perché le reazioni sono state poche, prevalentemente economicistiche e facilmente gestibili dall'amministrazione Eltsin. Lo sciopero dei minatori, le dimostrazioni popolari di piazza a Mosca contro l'inflazione e la mancanza di generi alimentari sono stati, al pari di qualche altro piccolo episodio, ricondotti nell'alveo della politica dei sacrifici. Piccoli fuochi, per lo spegnimento dei quali sono risultati sufficienti i soliti, vecchi estintori, a base di blandizie e promesse. Altrimenti avremmo visto in azione le citate squadre antisommossa.
Benché le condizioni materiali di vita siano a livello di pura sopravvivenza e l'amministrazione Eltsin non prometta nulla di buono, l'assenza di una opposizione di classe e di un programma comunista, ha aperto il campo alle forze della vetero conservazione.
Il progressivo, quotidiano aggravarsi delle condizioni economiche generali e dei livelli di vita della stragrande maggioranza della popolazione, hanno rimesso in moto i nostalgici del "si stava meglio quando si stava peggio". La punta di diamante del vecchio corso, ringalluzzito dalle squassanti riforme del programma Gajdar, è rappresentata dal solito ceto politico-industriale. Elementi della vecchia nomenklatura, l'associazione dei manager di stato, tutti coloro che, a diverso titolo hanno tratto dal vecchio regime le ragioni del loro privilegio economico e politico, ma anche stratificazioni popolari e settori della classe operaia.
Agli occhi di quest'ultimi, la mancanza di scenari politici nuovi, l'impraticabilità presunta di una vera società socialista (fino a quando il proletariato russo dovrà pagare lo scotto della falsa ideologia stalinista che ha contrabbandato la creazione del capitalismo di stato con il socialismo), il male minore ha finito per essere l'unico obiettivo concretamente raggiungibile.
Queste formazioni sociali, forti dell'appoggio di consistenti fasce popolari, o quantomeno della loro insoddisfazione, hanno chiesto l'ibernazione del piano Gajdar, l'interruzione del processo di privatizzazione, il controllo politico dei prezzi delle materie prime, dei beni strumentali e di alcuni generi di prima necessità. Hanno insistentemente invocato che lo stato si faccia carico dell'indebitamento e del finanziamento delle imprese statali.
In buona sostanza, la vetero conservazione ha proposto che tutto ritorni come prima, o quasi. E cioè che, fallito l'esperimento di andare efficacemente e in tempi brevi verso le categorie economiche dell'economia di mercato, si debba ritornare sui propri passi, all'economia di piano, al capitalismo di stato, con le eventuali modifiche del caso. E per il proletariato russo, comunque le cose vadano a finire, ricomincia la danza. Un passo avanti, uno indietro, ma nessuno nella giusta direzione.
Un segno, l'ennesimo, che in Russia oggi, ieri nell'Urss, si sta consumando la tragedia della seconda sconfitta proletaria, dopo la controrivoluzione stalinista, è che per le masse lavoratrici non ci sono vie di scampo. Venuta meno, anche se solo per il momento, la possibilità di rispondere alle devastazioni della crisi economica e alle manovre delle due fazioni borghesi in termini di ripresa della lotta di classe e di acquisizione politica della necessità rivoluzionaria, al proletariato non resta che scegliere tra due progetti estranei ai suoi interessi.
Uscire dalla morsa del capitalismo di stato per assaggiare i ritmi di sfruttamento del capitalismo privato, o interrompere il cammino verso l'economia di mercato per riassaggiare gli amari bocconi dello sfruttamento pianificato, non cambia di molto i destini del proletariato sovietico.
Fabio DamenPrometeo
Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.
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