I presunti aiuti finanziari alla Russia

Se le joint ventures e le privatizzazioni erano i perni attorno ai quali si sarebbe dovuta sviluppare la grande riforma economica della Russia post-sovietica, enorme era l'aspettativa che veniva riposta negli aiuti finanziari occidentali. La convinzione era che, dopo il crollo dell'Urss, tutto sarebbe stato più facile. Sbarazzato il campo dall'ingombro “comunista”, a Eltsin e compagni non sembrava vero di sollecitare l'arrivo di ingenti quote di capitale finanziario straniero sotto forma di prestiti, aperture di credito e di finanziamenti in genere.

Anche per non pochi analisti occidentali il crollo dell'Urss avrebbe dovuto consentire un facile flusso di capitali verso le ex province sovietiche e verso la Russia in particolare. Addirittura l'idea era che questo flusso tanto atteso e determinante a est, risolvesse contemporaneamente alcuni problemi di valorizzazione del capitale a ovest. Una sorta di mutuo soccorso intercapitalistico che con l'allocazione di qualche migliaio di miliardi di dollari avrebbe potuto creare le premesse per il rilancio dell'economia russa e, allo stesso tempo, rialzare le sorti dei saggi del profitto in alcuni paesi occidentali, prefigurando nuovi orizzonti di accumulazione su scala internazionale.

Nei fatti le cose sono andate ben altrimenti. Perché il capitale si muova, sia in operazioni di investimento produttivo che di credito, occorrono garanzie. In una Russia, priva di una consistente domanda interna, travolta dalla crisi economica, che alle incertezze politico istituzionali poteva sommare soltanto l'inconvertibilità del rublo e una inflazione a dir poco devastante, di garanzie ce n'erano ben poche. Il che non significa che il capitale finanziario in Russia non sia arrivato, ma che l'afflusso è stato scarso, timoroso, discontinuo e che ha riguardato soltanto alcuni paesi dell'occidente europeo.

Nel periodo '90-92, a cavallo cioè tra la fine dell'Urss e il primo anno di vita della Repubblica autonoma della Russia, nemmeno 100 miliardi di dollari hanno preso, titubanti, la strada dell'est. L'amministrazione Bush ha operato un esborso di 8,5 miliardi di dollari quando Gorbacev era ancora inquilino al Kremlino, poi più nulla. Il Giappone e l'Italia si sono esposti in favore del governo di Eltsin con cifre irrisorie, rispettivamente per 3,4 e 6,7 miliardi di dollari. Solo l'imperialismo tedesco ha ritenuto opportuno rischiare con prestiti e investimenti per circa 55 miliardi di dollari. Ma le ambizioni del colosso tedesco nei confronti di una area geo-economica così vicina e strutturalmente debole, che va dal nord della Yugoslavia sino alla Russia passando dalla Cecoslovacchia, non sono oggetto di questa analisi e meriterebbero ben altri approfondimenti sul piano della scomposizione e ricomposizione delle “faglie” imperialistiche del post guerra fredda.

Germania a parte, il dato su cui operare è che il capitale finanziario occidentale, sia sotto forma di aiuti che di finanziamenti o crediti, ha disertato l'economia russa e quando l'ha praticata lo ha fatto in termini molto contenuti, mai comunque sufficienti a creare le premesse del decollo economico.

Per il Giappone il problema non si è mai concretamente posto. Tradizionalmente lontano dal mercato ex sovietico, senza entrature di un certo spessore, storicamente orientato verso il continente asiatico, per l'imperialismo del Sol Levante la Russia di Eltsin non ha mai rappresentato un serio obiettivo da raggiungere. Di migliore qualità e di maggiore sicurezza si presentavano i crediti e gli investimenti in Cina, dove il Giappone ha soppiantato gli Stati Uniti dal secondo posto tra i partners commerciali dietro Taiwan. E nel sud-est asiatico (Laos, Cambogia e Vietnam), dove il crollo dell'impero sovietico ha lasciato un vuoto che la finanza e le capacità imprenditoriali di Tokyo stanno tentando di colmare. In più il recente contenzioso con Mosca sulla restituzione delle isole Kurili non ha di certo favorito il riavvicinamento tra i due paesi né l'apertura di una linea di credito Tokjo-Mosca. Da qui, l'irrisoria cifra di 3,4 miliardi di dollari che la finanza giapponese ha concesso all'amministrazione di Eltsin. Di ben altra natura le motivazioni che hanno indotto l'amministrazione Bush a essere più che prudente nei confronti della Russia. L'ex presidente repubblicano, nonostante le feroci critiche che provenivano da alcuni autorevoli esponenti del suo partito, ha ritenuto di non dover concorrere finanziariamente alla rinascita della Russia post sovietica. Mentre uomini politici come l'ex segretario di stato Kissinger e l'ex presidente Nixon premevano perché anche gli Stati Uniti fossero attivamente presenti nel pool dei paesi finanziatori della grande riforma russa, non foss'altro per non lasciare la Germania sola e indisturbata a gestire l'operazione, Bush ha insistito nell'assumere una posizione defilata. I motivi sono tanti, ma tre su tutti.

In primo luogo il timore che la Russia, giovandosi degli aiuti finanziari internazionali e americani, riuscisse, in tempi brevi a riproporsi in termini di presenza imperialistica nei modi che furono tipici dell'Urss. Agli attenti osservatori americani non è mai sfuggito l'elementare assioma in base al quale se era necessario essere presenti e operativi nel favorire il crollo dell'Impero sovietico, la stessa solerzia non doveva essere usata nella sua possibile ricomposizione attorno alla Russia di Eltsin o di qualunque altro protagonista delle vicende post sovietiche. La Russia, con i suoi 150 milioni di abitanti, ricca di materie prime, unica Repubblica con una economia industriale e in possesso dei due terzi della vecchia struttura militare, inserita al centro politico ed economico della CSI, non poteva che essere guardata con diffidenza dalla controparte americana. Il sospetto era che, grazie ad una facile quanto congrua concessione di capitale, il ricostruendo capitalismo privato, risorto dalle macerie del capitalismo di stato, potesse rialzare la testa, riproponendosi come forza economica e militare all'interno di tutta l'area ex sovietica, e ricollocandosi in termini di contrapposizione frontale nelle assisi internazionali (Onu). Preoccupazioni, queste che hanno preso corpo quando il Kremlino ha minacciato di intervenire per dirimere i contenziosi del Nagorny-Karabakh tra Armeni e Azeri, dell'Ossezia tra la Georgia e la stessa Russia e infine quello della regione moldava per la secessione della popolazione russofona. O, casa ancor più grave per le preoccupazioni americane, quando Eltsin, dopo mesi di latitanza dalla scena politica internazionale, ha assunto una posizione pro Serbia nella convulsa situazione balcanica.

Ma prima ancora che questi episodi avessero l'opportunità di concretizzarsi o più semplicemente di presentarsi, Bush ha sempre ribadito il concetto che, per quanto concerneva il destino della Russia e degli ex paesi dell'est europeo, pur agevolando la loro trasformazione economica e politico istituzionale, non era il caso di concedere più di tanto in termini di aiuti finanziari e di tecnologia e che comunque, per quelle aree, non si doveva riproporre una sorta di Piano Marshal. Chi pensava che ad Eltsin sarebbe stato concesso ciò che era stato rifiutato a Gorbacev è rimasto deluso, e il primo a masticare delusione è stato proprio il capo del Kremlino. Dalla sommità degli stravolgenti avvenimenti che lo hanno visto protagonista, l'antagonista di Gorbacev, il nemico del “comunismo”, l'acceleratore estremo delle privatizzazioni, sperava che il capitalismo occidentale lo gratificasse di più. Ma la sua avida impazienza non ha fatto i conti con i problemi imposti dalla recessione internazionale e dalle impellenti necessità finanziarie scandite da un tardivo tentativo di ristrutturazione economica partito negli Stati Uniti nei primi mesi del 1990 con Io scopo dichiarato di riguadagnare margini di competitività nei settori cardine dell'apparato produttivo, quali la metallurgia, la siderurgia, il settore metalmeccanico relativo alla produzione delle automobili e l'alta tecnologia.

Ma indipendentemente dalle macro questioni strategico-economiche, in via subordinata, a mo' di giustificazione speciosa, l'amministrazione Bush ha sempre legato l'eventuale concessione di prestiti all'immediato ritiro delle truppe ex sovietiche dalla Germania e dai paesi baltici.

Ritiro a cui Eltsin ha sempre detto di voler ottemperare, ma a tempi lunghi, sia per non rinunciare alla possibilità, anche se estremamente remota, di continuare a giocare un ruolo egemonico all'interno di quello che rimane del vecchio impero, che per non trovarsi sulle spalle l'onere economico del completo mantenimento di centinaia di migliaia di soldati. Già i reduci afgani avevano rappresentato un serio problema di mantenimento e di reinserimento sociale nell'Urss di Gorbacev, in crisi economica sì, ma non devastata come la Russia di Eltsin.

In più c'era una terza situazione che disturbava i progetti americani e ne condizionava la già scarsa propensone all'esborso di capitale a favore della Russia.

Agli addetti del Pentagono non piaceva assolutamente che dai magazzini militari russi uscissero armi più o meno sofisticate per destinazioni, oltretutto, non gradite. Il Kremlino, benché costretto ad assumere una politica di allineamento o di non interferenza, in termini di politica internazionale a favore degli Stati Uniti, non ha esitato a vendere armi ai nemici di Washington.

Il governo Gajdar, ansioso di reperire capitali da investire nel buco nero delle privatizzazioni, ha venduto a Cina e Iran non poche forniture militari. Nel '92 ha rifornito l'esercito di Teheran di sottomarini da combattimento, di carri armati T. 72 e di Mig 29 per un ammontare di 3,5 miliardi in valuta pregiata, ovvero in dollari. Nello stesso periodo e per un ammontare grosso modo analogo, un uguale trattamento è stato riservato alla Cina di Deng.

Al di là dell'entità dei rifornimenti militari e dell'evidente fatto che l'operazione “commerciale” russa non aveva, come in altri tempi, lo scopo di attrezzare militarmente proprie pedine in aree strategicamente interessanti come all'epoca della guerra fredda, ma soltanto quello di realizzare profitti là dove commercialmente si presentavano più facili, la cosa in sé andava obiettivamente contro gli interessi strategici americani.

Per tutti i dodici anni delle amministrazioni repubblicane, da Reagan a Bush, con particolare intensità negli ultimi otto, con il crollo dell'Urss presentatogli su di un piatto d'argento, l'imperialismo ha avuto quali maggiori punti di frizione e di conflittualità latente od operativa il Medio Oriente (la questione petrolifera e le sue possibili variabili indipendenti, ieri Iraq poi Iran) e l'estremo oriente, di cui, per vari aspetti, dopo la superpotenza giapponese, si profila l'antagonismo cinese. Il tutto aggravato dal fatto che la Cina, pur assumendo per necessità economiche e opportunismo politico, nelle questioni di interesse internazionale un atteggiamento defilato, non ha rinunciato in qualche ossasione (guerra del Golfo e questione Yugoslava) a vendere il proprio allineamento in cambio di vantaggi economici e/o politici, e a scegliere i propri partner commerciali a seconda della necessità immediate. Un esempio su tutti è fornito dal nuovo indice statistico che vede nel corso del '92, cioè sul finire dell'amministrazione Bush, la retrocessione degli Stati Uniti, nell'interscambio commerciale e finanziario con la Cina, dal secondo al terzo posto dietro Taiwan e Giappone.

Per ciò che concerne il problema Iran, la questione è ancora più delicata. Sistemato l'Iraq di Saddam Hussein, estesa in tutta l'area con l'operazione “Tempesta nel deserto” una ferrea morsa sulla gestione delle quantità e sui prezzi del petrolio, sulle dipendenze degli alleati della zona, l'interesse dell'imperialismo americano non poteva che concentrarsi sul secondo produttore di greggio di tutto il Medio Oriente: l'Iran. Paese reo, oltretutto, di aver cacciato nel '79 lo Scià e con esso la supremazia americana nel Golfo persico. Non solo, il Pentagono, da quel lontano episodio, ha inserito l'Iran al primo posto tra gli avversari dell'Occidente, ovvero il primo della lista dei suoi nemici. Quattordici anni dopo, il fondamentalismo islamico ha superato i confini iraniani, ha fatto presa in quasi tutto il mondo islamico. Dal Nord Africa al Medio Oriente, dalle estreme province del Pakistan e Afganistan ad alcune frange del “laico” movimento palestinese degli Hamas, non c'è sentimento nazionalistico, integralista, che non sia anti occidentale e anti americano e che non veda nella Repubblica degli Ayotollah l'unico grande punto di riferimento politico-religioso e, in qualche caso, momento finanziatore della propria esistenza organizzativa. Per giunta l'Iran, durante la guerra del Golfo, pur non schierandosi dalla parte dell'atavico nemico iracheno, è stato tra i pochi ad assumere una posizione di non allineamento con l'operazione americana, ed infine rimane l'unico paese produttore di petrolio di tutta l'area ad avere una posizione autonoma nei confronti degli Stati Uniti.

Non per niente l'amministrazione Bush ha lanciato la sua campagna di lotta e di disinformazione sul “nuovo” nemico, sull'ultimo male da estirpare nella nuova “frontiera” americana. Dopo quella di Saddam sembra essere suonata l'ora di Rafsanjani, quale ispiratore e patrocinatore del pericolo fondamentalista, mina vagante per gli interessi americani nella zona e per la rete di equilibri tessuti in questi ultimi anni con le aristocrazie petrolifere, a suon di interventi militari e finanziari.

Conseguentemente, qualsiasi aiuto, collaborazione, o peggio ancora, vendita di armi dalla Russia a favore dell'Iran, veniva concepito dal governo americano come un “attentato” alla sua sicurezza e quindi combattuto anche attraverso la non concessione di crediti.

In questo senso Bush e la sua amministrazione, crisi economica e scarsa disponibilità da capitali a parte, si sono proposti più come gli ultimi amministratori della guerra fredda, che non i facitori di nuovi percorsi di penetrazione imperialistica nell'ex impero sovietico. Una penetrazione che poteva essere intrapresa, passando anche attraverso l'esborso di qualche decina di miliardi di dollari in favore della Russia, e quale chiave d'ingresso nell'area, e come mezzo di interferenza e di disturbo all'espansionismo economico e finanziario tedesco, ed infine quale puntello al sempre più agonizzante presidente russo, non foss'altro per scongiurare a se stessi il rischio di un ritorno al potere della vecchia Nomenklatura stalinista

Da più settori del mondo economico e politico americani non sono mancate le critiche. L'idea era che, sconfitto lo storico nemico, dissoltosi il suo impero, il mono imperialismo americano ne potesse trarre maggiori vantaggi, o quantomeno evitare che altri ne approfittassero. Ma questo è stato quanto. Nei quattro anni dell'amministrazione Bush pochi dollari sono entrati nel portafogli di Gorbacev, praticamente neanche un centesimo nelle tasche di Eltsin.

La carta del F.M.I.

Nel frattempo la nave dell'economia russa continuava a imbarcare acqua da tutte le parti. Gli affannosi lavori di “coperta” apparivano inutili di fronte al grado di marcescenza del fasciame sottostante. Il governo Gajdar, buttatosi a corpo morto nei vortici della “grande riforma”, non faceva che raccogliere pesantissimi insuccessi. Frantumatesi sugli scogli delle difficoltà e delle inaffidabilità interne i tre pilastri della trasformazione economica: le joint ventures, le privatizzazioni e i finanziamenti esteri, l'ultima carta che rimaneva da giocare era quella relativa al ricorso al credito presso il Fondo Monetario Internazionale tramite i buoni uffici del G.7.

Sbrigata la prassi burocratica per l'ammissione della Russia e degli altri dodici paesi della CSI al Fmi il 21 aprile del '92, avanzava immediatamente la relativa richiesta di un congruo finanziamento, ma rimaneva il fatto che a dare esecuzione alla richiesta e a stabilirne l'entità, ancora una volta, erano gli stessi paesi che si erano mostrati restii o riluttanti nei mesi e nelle occasioni precedenti.

In questi casi, di solito, il batter cassa a porte diverse del medesimo edificio non sortisce grandi risultati. Infatti, i sette grandi che letteralmente dominano all'interno del maggiore istituto di credito internazionale, se hanno acconsentito al duo Eltsin-Gajdar di accedere ai meccanismi del credito internazionale, non molto hanno concesso in termini di liquidità, in compenso tanto hanno preteso in termini di condizionamenti e di allineamento agli schemi della economia occidentale.

Come da decennale copione, Fmi e Banca Mondiale (del resto simili sono sempre state dal 1944 le loro origini e le loro finalità) hanno usato i crediti ai paesi in via di sviluppo e a quelli con pesanti deficit nella bilancia commerciale, non come sostegno finanziario ad economie transitoriamente o endemicamente deboli, ma come mezzo di interferenza nelle scelte economiche interne e strumento di condizionamento politico negli allineamenti internazionali. Il caso Russia, pur nella sua eccezionalità, non ha usufruito di nessuna deroga.

I 24 miliardi di dollari concessi, cifra in sé ridicola se paragonata alle gigantesche necessità del piano Gajdar, e ridicola in assoluto se si pensa che nello stesso periodo il Governo americano aveva stanziato un prestito di 10 miliardi di dollari (oltre ai consueti 5 sotto forma di regalia) allo stato di Israele, e che la somma complessiva riguardava tutti i paesi della CSI, oltretutto, portava con se un pesante fardello di istruzioni per l'uso.

Innanzitutto la composizione del credito. Dei 24 miliardi, 12 avrebbero dovuto andare a favorire le esportazioni, a pagare l'assistenza tecnica e per generici aiuti umanitari; 6 per il fondo di stabilizzazione del rublo, ed infine, i rimanenti 6 sotto forma di prestiti in liquidità per investimenti mirati (mirati ovviamente dall'ente erogatore) all'interno di settori divenuti strategici.

Come dire che la prima irrinunciabile condizione al ricevimento dei crediti si basava sulla scelta “esterna” per quanto concerneva l'allocazione del credito, la sua entità e i relativi obiettivi da perseguire.

Non a caso, lo stesso Eltsin, una volta ricevuta la prima trance da un miliardo di dollari, in risposta alle pesantissime accuse dell'opposizione interna di aver svenduto all'occidente non soltanto l'economia e gli avanzi dell'Impero, ma anche la dignità russa, si è visto costretto a una effimera forma di protesta. In un pronunciamento rivolto contro le forzature del Fmi, ma in realtà mirato a contenere la rabbia dell'opposizione, il capo del Kremlino ha ricordato che la Russia, anche volendo, non avrebbe potuto seguire alla lettera le ricette restrittive del Fmi e che ai soldi non avrebbe fatto seguito un forzato allineamento. Nei fatti per la traballante neonata repubblica non esisteva altra possibilità al di fuori di quella scotta e per giunta salatissima minestra. Di questo Eltsin era profondamente certo, così come era convinto della necessità di ottenere altri e più consistenti finanziamenti, al fine di rimanere in qualche modo al potere anche a costo di legarsi mani e piedi agli organismi finanziari occidentali.

Secondo il Fmi e gli altri Istituti preposti al credito le condizioni erano di natura finanziaria, monetaria ed economica, con alcuni “suggerimenti” di tipo comportamentale per quanto riguardava la politica esterna della Russia nei confronti dei paesi aderenti alla CSI.

In ordine di apparizione nel Protocollo “le conditio sine qua non” all'erogazione dei crediti prevedevano i seguenti punti.

1. Stretta creditizia

In chiave squisitamente monetaristica, come se tutti i problemi del neo nato mercato russo risiedessero unicamente in una presunta eccedenza di liquidità (solito errore metodologico degli organismi monetari Internazionali oltre che un fenomeno irrilevabile empiricamente), l'indicazione del Fmi era quella di elevare il tasso di sconto, gli interessi bancari attivi, quindi il costo del denaro, allo scopo di comprimere la massa del circolante per programmare una inflazione mensile attorno al 9% entro la fine del '92.

2. Deficit del bilancio statale

L'altra preoccupazione delle autorità finanziarie era che, sempre entro la fine del '92, ovvero in un lasso di tempo ridicolmente troppo breve rispetto alle devastate condizioni finanziarie russe, lo Stato riducesse la sua esposizione debitoria entro il tetto del 5% del prodotto interno lordo. Pretesa a dir poco assurda che faceva il paio con quella precedente di contenere il tasso di inflazione al 9%, quando al più sbadato degli osservatori non poteva sfuggire che i due tetti stabiliti, o erano una provocazione, oppure appartenevano al più stupido e irrealistico degli approcci neo-monetaristici.

3. Convertibilità fissa del rublo

Anche in questo caso, entro la solita fine del '92, veniva richiesto al Governo Gajdar di regolarizzare la posizione del rublo nei confronti delle altre divise internazionali. Lo scopo, oltre alla dichiarata stabilizzazione monetaria interna, era quello di garantire agli investitori occidentali, eventuali finanziatori privati o partners di joint ventures sui futuri profitti o interessi. In altri termini il messaggio era che, o la Russia dava credibilità alla sua divisa, oppure gli scambi commerciali e gli ulteriori prestiti si sarebbero progressivamente allontanati. Ancora una volta la stupidità o la provocazione, o entrambe le cose, hanno avuto il sopravvento. Era come pretendere che un sasso in caduta libera fermasse la sua corsa senza che nessun altro elemento si interponesse. Il Fmi aveva sì previsto lo stanziamento di 6 miliardi di dollari a difesa delrublo, ma come da copione, l'entità dello stanziamento, i ristrettissimi margini di tempo concessi in rapporto alla gravità della situazione monetaria, rendevano il progetto praticamente impossibile.

4. Liberalizzazione dei prezzi

Benché l'esordio (gennaio '92) sia stato terrificante, il Fmi ha posto come condizione prioritaria che la liberalizzazione dei prezzi venisse non solo accellerata ma anche immediatamente estesa alle materie prime, alle fonti energetiche, al gas e alla luce elettrica per uso domestico.

Quando il governo Gajdar, in sintonia applicativa alle leggi dell'economia di mercato, ha reso operativa la liberalizzazione dei prezzi per le derrate alimentari, i beni di consumo e di prima necessità, si è immediatamente ritrovato sui bollettini ufficiali statistici un incremento del 300% del livello dei prezzi e le piazze piene di manifestanti inferociti. Da quel momento le cose sono andate progressivamente peggiorando. L'inflazione è arrivata al 500%, al 600% per toccare alla fine del '92 il 1.000%, battendo ogni record europeo per velocità e intensità. Per trovare riscontri simili in altre realtà economiche bisogna riandare alla seconda metà degli anni settanta nelle dissestate regioni del centro-sud America nel bel mezzo della cosiddetta crisi petrolifera. La solita ricetta monetaristica, incurante dei costi sociali dell'operazione, sopratutto politicamente indifferente alle eventuali reazioni delle masse lavoratrici, predicava incoscientemente che la misura della liberalizzazione dovesse estendersi in tempi brevi a tutte le merci e servizi prodotti dall'azienda Russia.

Ottusità a parte, rimane il fatto, contradditorio negli stessi termini di logica capitalistica, che le ricette e i finanziamenti del Fondo, invece di creare le condizioni finanziarie al superamento della crisi intervenendo sui fattori economici (investimenti, tecnologia, metodiche di produzione e di distribuzione tenendo in debito conto le condizioni di partenza) si preoccupavano di accelerare la nascita delle forme istituzionali della economia di mercato. Come se fosse più importante, ai fini del passaggio dall'economia di Piano a quella di mercato, ovvero dal capitalismo di Stato a quello privato, esasperare in termini di tempo e senza le necessarie coperture finanziarie, la tendenza alle privatizzazioni, alla liberalizzazione dei prezzi, alla stabilità del rublo, che non stanziare fondi da investire produttivamente nei settori chiave.

A ben poco sarebbero serviti, non 24, ma nemmeno 240 miliardi di dollari se la loro erogazione e utilizzo fossero subordinati all'applicazione preventiva, anche se parziale, di obiettivi economico-istituzionali come quelli precedentemente citati. In termini capitalistici il Fondo avrebbe dovuto stanziare finanziamenti che andassero a sostenere la base economica, o parti di essa, accompagnandola gradualmente con il pacchetto delle riforme sulle privatizzazioni, sui prezzi, eccetera, e non il contrario. Ma in questo caso, come in tutti gli altri, la massima preoccupazione del Fmi era quella di puntare sulla veloce occidentalizzazione della economia russa. In una sorta di vendetta o di spocchiosa rivincita, l'occidente “privatistico” non voleva soltanto la sconfitta dell'oriente “statalistico” ma, sino in fondo, anche il suo pentimento. E non per una formale questione di principio o per vecchi dissapori durati per ben quarantanni, ma perchè il crollo del capitalismo di stato contrabbandato per socialismo, e il suo “ravvedimento” potessero essere addebitati alle masse operaie occidentali come deterrente politico. Che poi l'economia post sovietica, con le pretese del Fondo colasse letteralmente a picco trascinando nella fame e nella miseria milioni di proletari russi e le loro famiglie, assumeva il peso che un dettaglio ha nei confronti della questione principale.

5. Politica dei redditi

Altra “conditio sine qua non” era che il governo Gajdar si impegnasse a contenere al massimo, in tempi ristrettissimi, i redditi da lavoro dipendente. L'idea era che bassi salari avrebbero significato immediatamente una ripresa dei profitti sia per le aziende privatizzate che per quelle statali. I benefici si sarebbero estesi alle joint ventures e a tutto il mondo imprenditoriale. Inoltre una simile politica dei redditi avrebbe ulteriormente depresso la domanda dei beni di consumo e di prima necessità contribuendo, nelle solite aspettative delle tesi monetaristiche, a contenere l'inflazione. Come ai tempi di Stalin, come nei momenti più epicamente feroci della costruzione del capitalismo di Stato, indipendentemente dal fatto che il rapporto tra capitale e forza lavoro venga amministrato statalisticamente o in termini privatistici o, come nella fattispecie, nella transizione dal primo al secondo, chi è chiamato a sopportare il peso della manovra è solo il proletariato.

Per la nuova borghesia privata russa, se risultava ancora inesperta sulle tecniche di commercializzazione delle merci, sull'uso della tecnologia più avanzata nell'industria e nella agricoltura e sulle sofisticazioni finanziarie del mondo occidentale, non giungeva certamente come novità il rapporto tra capitale e forza lavoro, tra profitti e salari, tra produttività e contenimento del costo del lavoro.

C'è una costante che attraversa i settantanni di vita economica del regime staliniano, i cinque anni di timido riformismo gorbacioviano e l'esperienza di Eltsin. Questa costante è rappresentata dal permanere, accanto a tutte le altre categorie economiche capitalistiche, del capitale, del lavoro salariato, del suo contradditorio rapporto, così come del profitto. Per cui il “suggerimento” del Fondo non trovava impreparati gli amministratori russi. Eltsin, Gajdar e compagnia ben sapevano che tutti i costi economici e sociali dell'operazione avevano come perno centrale l'intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro attraverso l'auspicata ristrutturazione tecnologica da una parte, e contemporaneamente il più pesante contenimento dei salari dall'altra.

Quello di cui hanno mostrato di non avere chiara percezione, sia in Russia che negli ambienti di analisi del Fmi, era che la miscela dei bassi salari, della disoccupazione selvaggia combinate con la deflagrazione inflazionistica della liberalizzazione dei prezzi, a lungo andare, avrebbe potuto inscenare risposte di classe incontrollabili, anche se provenienti da un proletariato quanto mai deluso, frustato e politicamente disarmato. A meno che non fosse ottimisticamente previsto che le eventuali proteste operaie, prive di orientamenti politici di classe, potessero facilmente essere contenute all'interno del nuovo sistema sociale o strumentalizzate dalle lotte di potere all'interno del Palazzo. Ma di questo parleremo più avanti.

6. Privatizzazioni

Il primo ministro Gajdar, prima che Eltsin, costretto dalle pressioni dell'opposizione, lo destituisse dall'incarico, si vantava di aver privatizzato in un solo anno ben 46 mila imprese. Come dire che, se il passaggio dall'economia di piano a quella di mercato aveva nel processo delle privatizzazioni il suo punto nodale, con lui la realtà russa si sarebbe trovata già a buon punto e comunque ben più avanti da come l'aveva ereditata dalla amministrazione gorbacioviana.

Ma barava, non tanto sui numeri, quanto sull'entità del processo e questo i responsabili del Fondo lo sapevano. Delle 46 mila imprese privatizzate, a parte quelle che sono entrate a far parte di iniziative internazionali con partner e capitali stranieri, ben poche erano di quelle che contavano.

Le grandi e medie imprese di Stato, sia nel settore industriale che in quello agricolo erano rimaste al loro posto per mancanza di acquirenti. La mancanza di capitali, l'alto costo del denaro facevano si che il processo di privatizzazione andasse a rilento o riguardasse soltanto le imprese di secondo e terzo livello per dimensioni, numero di occupati e peso specifico nella economia russa.

Non per niente i tecnici del Fondo ritenevano il percorso ancora lungo e lontano dal situarsi in una posizione di sufficienza, subordinando l'ulteriore erogazione delle tranches previste a un segnale più chiaro e forte in questa direzione. Ma anche in questo caso l'obiettivo finiva per superare in valenza i mezzi che avrebbero dovuto concorrere alla sua realizzazione, con il risultato di lasciare le cose come stavano nonostante il ricco ricettario e la propensione alle “buone intenzioni”.

La Russia post sovietica era così povera, così intimamente dissestata da rendere difficoltosa qualsiasi soluzione economica compresa quella del passaggio dal capitalismo di Stato a quello privato. Le tanto auspicate privatizzazioni non potevano nascere e determinare il nuovo tessuto economico per autogerminazione o in forza di una legge dello Stato che le prevedesse. Il problema, non risolto né dalla amministrazione gorbacioviana né da quella di Eltsin, consisteva e consiste tuttora nel creare le condizioni finanziarie, creditizie e tecniche della ripresa dei meccanismi di accumulazione e poi, o al massimo durante la ripresa, si potrà parlare di privatizzazioni (lotta di classe permettendo). Nel caso opposto si rasenta l'incoscienza quando si predica che le privatizzazioni portino, oltretutto senza le necessarie premesse finanziarie e creditizie, sulla via della ripresa economica. E all'incoscienza si aggiunge la criminalità politica quando si perseguono simili obiettivi in quelle condizioni di impreparazione imboccando le suicide scorciatoie della fretta e della accellerazione a tutti i costi. Nel solo '92, sotto la spinta del governo Gajdar, si sono prodotti più danni economici in Russia che in quindici anni di crisi strisciante sotto l'amministrazione brezneviana in tutto l'impero sovietico. I dati statistici relativi alla economia russa sembrano un bollettino di guerra da aggiornare quotidianamente verso il basso. Nessun passo in avanti, nessun risultato concreto. Quello che doveva essere l'anno della svolta ha visto soltanto disastri e rovesci economici, fame e miseria per decine di milioni di lavoratori. Code di centinaia di metri di uomini e donne affamate in attesa di qualcosa di commestibile. Stipendi e salari in grado di svolgere il loro potere di acquisto solo nei primi due o tre giorni della settimana per poi essere travolti da una inarginabile inflazione. Ma per il Fondo non tutto ciò che puzza è merda. Non soddisfatto delle 46 mila privatizzazioni fasulle, spingeva per velocizzare il passaggio verso l'economia di mercato brandendo come deterrente l'uso col contagocce dei già scarsissimi finanziamenti. Non a caso, nell'arco di un anno, dei ventiquattro miliardi di dollari previsti ne sono stati erogati meno della metà, dieci, ed oltre tutto nei settori meno importanti.

7. Ritiro delle truppe dai paesi baltici

Vecchia storia. La preoccupazione dell'amministrazione Bush, e per legge transitiva del Fondo, in una sorta di riproposizione degli schemi della guerra fredda, era che la Russia di Eltsin potesse ripercorrere i sentieri imperialistici che videro le “gesta” dell'Urss di Stalin e di Brezniev. Da qui l'uso parsimonioso degli aiuti finanziari, la loro subordinazione a una serie di norme restrittive vincolanti sia in termini economici che politico-sociali. Non ultimo “l'invito” ad abbandonare i tre paesi baltici senza mai più interferire sul piano militare.

Gli Usa volevano che apparisse chiaramente a Eltsin, ma anche ai loro partner occidentali che la fine della guerra fredda non significava il tramonto militare delle due maggiori potenze imperialistiche, ma solo di una. Non per niente, dopo aver “suggerito” in aprile (data dello stanziamento dei fondi alla Russia) il ritiro dai paesi baltici degli avanzi della Armata Rossa, Bush lo ha ripetutamente ribadito sul finire del '92, proprio quando gli Usa davano dimostrazione di forza e di onnipresenza imperialistica in Somalia e nel solito Iraq di Saddam Hussein.

Alcune osservazioni

In conclusione, sotto l'amministrazione Bush, gli aiuti finanziari dell'occidente a favore della Russia si sono risolti in poca cosa e con molte pretese di condizionamento.

A parte le richieste di allineamento politico e di “professione” ideologica, quello che salta agli occhi è l'incongruenza tra l'entità del prestito, il suo parsimonioso concedersi, e gli obiettivi da raggiungere grazie al prestito stesso. Incongruenza in parte voluta e in parte frutto di errori di valutazione. la volontarietà stava nella scelta di non concorrere più di tanto alla ripresa economica dell'ex nemico numero uno. L'errore di aver sottovalutato l'ampiezza e la gravità della crisi sovietica, le sue ripercussioni sociali, pensando come Eltsin e più di Eltsin che il tutto si sarebbe potuto fare in breve tempo accelerando i meccanismi di passaggio dalla economia di Piano a quella di mercato. Altro errore quello di aver subordinato il “grosso” dei finanziamenti alla realizzazione, anche se parziale, di quegli obiettivi che avrebbero potuto essere raggiunti, forse, solo con l'aiuto dei finanziamenti stessi, ma di ben altra portata.

Infine, ed è l'errore più grave, nell'aver creduto e spinto a credere, che il guaio maggiore sofferto dall'economia sovietica fosse nel suo essere statale, controllata e pianificata. Per cui il rimedio avrebbe dovuto essere subito e nel più breve tempo possibile la destatalizzazione dell'economia. Più imprese venivano privatizzate, non importava come ma solo in quanto tempo, più ci si avvicinava ai meccanismi del “libero” mercato e meno problemi avrebbe avuto la depressa economia russa. Lo slogan “meno Stato meno crisi, più privato più benessere” sembrava essere l'unico possibile sia per i perestrojcanti rampanti che per le teste d'uovo degli organismi finanziari internazionali.

La foga di abbandonare l'economia di Piano, sedicente socialista, in realtà la più ferrea delle gestioni del capitalismo di Stato, ha fatto passare in secondo piano una serie di passaggi intermedi di irrinunciabile importanza.

In primo luogo la già più volte citata difficoltà della riconversione privatistica della produzione senza la presenza, anche se minima, degli organismi finanziari creati allo scopo (ovvero una avviata riforma del credito e dei suoi istituti: banche in grado di concedere crediti agevolati, fondi speciali di intermediazione tra lo Stato e i privati, enti finanziari, cooperative d'intrapresa finanziaria ecc.).

Poi, il non aver preso in considerazione il fatto che, qualsiasi movimento economico dallo Stato al privato, qualsivoglia struttura finanziaria di accompagnamento, non potevano prescindere dalla presenza dello Stato. Proprio perché muoventesi da una realtà di Piano la privatizzazione avrebbe dovuto giovarsi di più supporti economico-finanziari che solo lo Stato avrebbe potuto mettere in essere e che nessuna entità privata, peraltro inesistente, avrebbe potuto sostituire. Solo la smaniosa cecità dei dirigenti russi e la interessata preoccupazione di Bush e degli organismi finanziari internazionali potevano glissare su di un fatto fondamentale: o lo Stato si sobbarcava l'onere di prendere per mano la nascente iniziativa privata, creandole, per quanto possibile, il ter‑

reno favorevole, oppure le privatizzazioni sarebbero rimaste prevalentemente sulla carta o destinate nel breve periodo al più drammatico fallimento.

Infine è mancata la consapevolezza che in qualsiasi struttura sociale capitalistica, sia in versione privatistica, sia tendente a un progressivo disimpegno dello Stato in economia, come nel caso in questione della Russia post sovietica una rilevante quota parte delle attività economiche e del capitale finanziario finiscono per essere appannaggio dello Stato o dei suoi più contigui organismi. A maggior ragione se i fattori della produzione sono devastati dalla crisi economica, se mancano i presupposti finanziari alla destatalizzazione delle maggiori imprese produttive, se l'aspirante borghesia privata non è riuscita a saldare il conto con quella statale e se il tutto manca della indispensabile cornice rappresentata da sufficienti finanziamenti all'apparato produttivo e alti contenuti tecnologici da proporre al processo di ristrutturazione.

Stalinismo-antistalinismo-neostalinismo, ovvero il destino della Russia tra vetero e neo conservazione capitalistica

Sempre nel fatidico '92, sotto la gestione Gajdar, quando i risultati, secondo le ottimistiche previsioni dell'Apparato, avrebbero dovuto arrivare numerosi e importanti, l'economia russa precipitava nel baratro di una progressione negativa infinita. I dati statistici avevano senso solo se accompagnati dal segno negativo. Di mese in mese, e la cosa durava ormai da troppo tempo, il PNL, gli investimenti in tutti i settori, la produttività, la massa dei profitti ed il saggio del profitto era un continuo precipitare. Molto peggio di quanto succedeva ai tempi di Gorbacev. Gli unici indici a segno positivo riguardavano l'astronomico esplodere dell'inflazione, della disoccupazionem del deficit statale.

La cura Gajdar, basata sull'accelerazione delle riforme e su dosi massicce di “aperture al mercato”, non solo non stava dando frutti ma aveva portato l'economia e la società a uno stato di prostrazione che nemmeno i suoi più accaniti detrattori osavano immaginare.

Meno si produceva, più i prezzi delle merci salivano e più le piazze rischiavano di gonfiarsi di folle proletarie inferocite. Più il governo Gajdar mostrava la corda, più l'opposizione politica alzava la testa cavalcando i dissesti della crisi economica e il malumore delle masse.

Già a ottobre del '92 un gruppo di Sindacati Autonomi presenti in cinquanta regione della Russia hanno chiesto lo stop alla politica del primo ministro Gajdar. Hanno rivendicato uno stipendio minimo garantito e indicizzato alla svalutazione del rublo e che i prezzi dei beni di prima necessità venissero bloccati a un livello non superiore ai 15 rubli. In seguito la protesta si estese alla richiesta di dimissioni del primo ministro quale responsabile della manovra economica e delle sue nefaste conseguenze. Era la prima volta che Gajdar, l'economista e politico sul quale Eltsin aveva puntato le sue carte, veniva messo così pesantemente in discussione dall'opposizione politica e da una consistente parte della popolazione.

A livello di Palazzo lo scontro andava proponendosi tra il presidente Eltisin, il suo vice Rutskoj e il presidente del Parlamento Khasbulatov. In ballo il potere e due diversi modi di interpretarlo. Da una parte gli esponenti politici della neo borghesia, dichiaratamente anti “comunisti”, fautori di un sistema economico e politico istituzionale di tipo anglosassone. Liberista all'eccesso in campo economico, presidenzialista su quello istituzionale. Convinti sostenitori della necessità delle riforme e della loro veloce applicazione. Dall'altra i vetero stalinisti in doppia versione. Quelli dichiarati che scendevano a manifestare nelle piazze con i ritratti di “baffone” confusi con quelli di Lenin, con slogan del tipo “si stava meglio, ma molto meglio, quando si stava peggio”. Quelli camuffati, nascosti nelle pieghe del potere istituzionale (parlamento, ministeri, esercito, sino alla vice presidenza della Repubblica) fautori non di una restaurazione di modello brezneviano ma di uno stato sociale di ispirazione neo social democratica alla svedese. Nel mezzo, oggetto della contesa, la politica economica e il suo contenuto riformistico (privatizzazioni, liberalizzazione dei prezzi, smantellamento della economia di piano ecc.). Un significativo scampolo dello scontro tra le due fazioni borghesi lo si è avuto in Parlamento, il 2 dicembre '92 tra Gajdar e l'opposizione dei deputati “conservatori”. Il primo ministro, ormai alla vigilia del suo giubilamento, in una sorta di arringa difensiva, si assumeva tutte le responsabilità, ma rivendicava il merito di aver fatto 'tutto ciò' che era necessario fare per portare la Russia verso l'economia di mercato, di essere stato uno degli interpreti della “seconda rivoluzione” di questo secolo in terra russa. E per quanto concerneva il problema delle privatizzazioni e della liberalizzazione dei prezzi, Gajdar insisteva sulla loro accelerazione. Occorreva procedere a tappe forzate perché, al minimo rallentamento, si rischierebbe di precipitare in un sottosviluppo di livello africano.

Dall'altra parte gli si rispondeva che grazie alla sua politica economica, alle riforme strutturali, all'esasperata accelerazione di questi processi, la Russia era già arrivata a livelli di sottosviluppo africani.

Lo scontro non era nuovo, neanche la gran parte degli interpreti. Di nuovo non c'era nemmeno l'aggravarsi delle condizioni economiche e i salari da fame. Ma l'atmosfera sociale sempre più pesante incominciava a scalfire la popolarità di Eltsin e Gajdar e a far guardare con meno fiducia alla politica delle grandi riforme. In quegli stessi ambienti popolari (peraltro mai particolarmente estesi) dove si era fatta strada la speranza della grande luce del post “comunismo” stava tornando il buio. I prezzi continuavano a salire. Il potere d'acquisto dei salari a diminuire. Nel dicembre con un salario medio pari a 13 mila rubli, circa 26 dollari, si potevano comprare 4/5 chili di carne o 3/4 chili di salame. Una dozzina di uova poteva arrivare anche a 350 rubli, mentre un filone di pane a 45. Se queste erano le gioie del libero mercato, beh ... qualcuno cominciava a ripensarci.

Di nuovo c'era che nella maggioranza dei 150 milioni di russi prendeva corpo l'idea che, tutto sommato, le smanie di Eltsin e le realizzazioni di Gajdar potevano attendere o addirittura essere fermate. Di ciò ha tratto linfa l'opposizione istituzionale, coloro cioè che dagli scanni del Parlamento o dalle sedi burocratiche periferiche invocavano sì una ristrutturazione, una modificazione anche radicale dei vecchi schemi produttivi, ma all'interno della economia di Piano, o comunque in presenza di una organizzazione sociale nella quale fosse ancora chiara e importante la presenza dello Stato.

Ciò non deve far pensare a una ripresa della lotta di classe o a movimenti sociali di particolare intensità. Le masse, sfiduciate e disilluse, si sono comportate con apatia e disinteresse. Quando le piazze si sono riempite per le manifestazioni contro l'ascesa dei prezzi e a difesa dei salari, le masse non hanno mai posto la questione politica, non sono ripartite per una riacquisizione, anche se iniziale e parziale, di una strategia autonoma di classe. Hanno manifestato contro uno stato di cose, hanno reagito istintivamente alle affamanti condizioni sociali, al progressivo sfacelo, alla disoccupazione, ma non hanno mai posto la questione in termini di contrapposizione di classe.

Questo stato di cose permetteva ai vetero-neo stalinisti dell'opposizione di ingaggiare con Eltsin un braccio di ferro sulle prospettive future della politica delle riforme, sulla assunzione dei pieni poteri del Presidente e, perché no, sul Presidente stesso. Lo scontro di Palazzo, che aveva come scenario lo sfascio completo dell'economia e la miseria più nera per la stragrande maggioranza dei lavoratori, ha avuto come primo, temporaneo risultato, la vittoria di Khasbulatov e del Parlamento che hanno imposto al Presidente le dimissioni del suo primo ministro Gajdar.

Nel gioco delle parti (parti borghesi) completamente fuori e contro gli interessi proletari, si sono espresse linee di tendenza politiche i cui unici punti di applicazione, sia in nome delle improrogabili necessità delle riforme, sia improntate a una parziale o totale restaurazione del vecchio regime, riguardavano il potere e la sua gestione.

Che Gajdar cadesse era nella logica delle cose. Se Eltsin, pressato dall'opposizione e politicamente penalizzato dallo sfascio economico sociale in cui continuava a versare la Russia post sovietica, doveva gettare in mare qualcosa o qualcuno per mantenere il controllo della nave, questo qualcuno non poteva essere che il suo primo ministro facendogli assumere il ruolo di capro espiatorio. Pagato lo scotto, in seconda battuta, il nuovo Zar della “sola” Russia si è preso la sua rivincita imponendo al Parlamento di Khasbulatov e a 100 milioni di elettori russi un referendum su di sé, sui suoi poteri speciali e sulla “vexata questio” della politica delle riforme. Il 25 aprile del 93 avrebbe dovuto essere la data e l'appuntamento al quale Eltsin intendeva presentarsi, fiducioso non solo della vittoria ma di un consenso plebiscitario.

La prima è arrivata il secondo no. Il successo è consistito nel fatto che il 60% dei votanti si è espresso in favore di Eltsin ridando ossigeno alle speranze di potere della neo borghesia privatistica le cui quotazioni erano scese notevolmente in basso nei mesi precedenti il referendum. Il mancato consenso plebiscitario si è consumato in una serie di numeri negativi preoccupanti. Innanzitutto, in termini assoluti, il Presidente ha perso ben 5 milioni di voti rispetto alle elezioni politiche di circa un anno prima. Come dire che cammin facendo ha perso consenso e voti nelle file di coloro i quali avevano avuto fiducia, o più semplicemente avevano riposto le loro speranze, nell'uomo “nuovo” e nella sua politica economica.

Il secondo dato, ancor più allarmante del primo, riguardava il numero dei votanti. Solo il 60% degli aventi diritto si è recato alle urne. Per cui i consensi si riducevano al 60% del 60% dell'intero corpo elettorale. In termini numerici ne è venuto fuori che se 36 milioni di cittadini russi hanno votato per Eltsin, 64 milioni o non lo hanno votato o hanno ritenuto che quel referendum e quel dualismo politico tra il Presidente e il Parlamento, non riguardasse da vicino i loro interessi.

Ancora una volta cioè, le grandi masse si sono eclissate dietro un paravento di indifferenza e disillusione tanto più robusto e arginante quanto più lontane apparivano i riferimenti programmatici di una politica genuinamente classista. Niente è più mortificante e politicamente paralizzante della mancanza di una coscienza di classe, di un programma e di una organizzazione partitica in grado di fondere le istanze di lotta scaturenti dall'obbiettività della situazione economica con gli obiettivi che competono alle masse proletarie.

Nell'attuale Russia niente di tutto questo esiste e si muove. A fronte di una delle più gravi e devastanti crisi economiche, dal secondo dopoguerra in avanti, non si sono manifestate consistenti risposte di classe, tantomeno si sono proposti partiti od organizzazioni di tipo rivoluzionario.

Anche negli scontri del primo maggio '93 nella Piazza Rossa di Mosca tra i dimostranti antiregime e gli “Omon” delle squadre antisommossa volute da Eltsin, oltre alla rabbia e alla determinazione allo scontro di qualche migliaio di manifestanti esasperati dalle affamanti condizioni economiche e dalle “ambizioni” presidenziali, di programma politico ce n'era ben poco. Non solo, ma in quel percorso politico, caratterizzato da una falsa partenza (la presunzione che l'Urss fosse una realtà comunista), il neo-stalinismo si è presenhtato come unica alternativa politica possibile allo sconquasso creato dal riformismo antisalinista di Eltsin e compagni.

La crisi dell'Urss, dello stalinismo proposto nelle vesti del realizzatore e difensore del comunismo, aveva creato le premesse per il suo contrario, l'antistalinismo quale rimedio al progressivo sfaldarsi della società “comunista”.

Con il perdurare e l'aggravarsi della crisi sotto la gestione dell'ala radicale dei perestrojcanti, in assenza di prospettive politiche in quei momenti e in quelle condizioni di disorientamento considerate percorribili, il neo stalinismo si è riproposto quale unica alternativa possibile all'ulteriore, gravissimo, inarrestabile ultimo collasso sociale.

Stalinismo-antistalinismo-neostalinismo sono al momento i passaggi di questo perverso circolo. Quando la classe non c'è o c'è parzialmente, quando non si muove o se si muove lo fà in direzioni che non le sono consone, non solo rinuncia a essere l'antagonista sociale, in qualsivoglia veste si presenti l'avversario di classe (gestore del capitalismo di Stato o privato, espressioni della vetero e neo conservazione), ma finisce per diventare oggetto di manovra dell'avversario di classe.

La nuova amministrazione Clinton e gli aiuti finanziari alla Russia

Il neo Presidente degli Stati Uniti, appena insediatosi alla Casa Bianca si è ben guardato dal ripetere gli errori dell'amministrazione Bush sulla controversa questione degli aiuti finanziari alla Russia di Boris Eltsin. Già nei primi mesi del '93, quando la lotta tra il Presidente russo e Khasbulatov minacciava sfracelli sociali con il rischio che le forze politiche del neo stalinismo potessero riproporsi alla gestione del potere o di condizionarlo pesantemente, con tutte le conseguenze del caso, Clinton aveva operato la sua scelta. Gli aiuti alla Russia di Eltsin dovevano essere erogati, e in misura sufficiente, prima che fosse troppo tardi. Troppo tardi, s'intende, per i destini della economia di mercato, per la ancora tenue rete di condizionamenti occidentali, per i problemi futuri di allineamento politico all'occidente, per gli interessi planetari dell'imperialismo americano.

Nei due ravvicinati incontri del G7 a Vancouver e a Tokyo, la diplomazia americana ha insistito perché il mondo occidentale, attraverso i suoi organismi finanziari come il FMI, la Banca Mondiale e la Banca europea per la ricostruzione dell'Est, si esponessero in favore della Russia in tempi brevi e in termini consistenti. Al contrario del precedente prestito di 24 miliardi di dollari erogato solo al 40% e indirizzato prevalentemente al contenimento del deficit statale, della inflazione e verso il fondo per la convertibilità del rublo, l'attuale esborso di circa 35-40 miliardi di dollari dovrebbe essere orientato a sostenere alcuni settori dell'economia, la politica delle privatizzazioni e l'acquisto di derrate alimentari e di beni di prima necessità.

Il tutto nonostante che, secondo i dati dello stesso FMI, gli sforzi di Eltsin non abbiano prodotto significativi miglioramenti in economia né passi avanti sul terreno delle conquiste sociali. Nel solo '92 la Russia ha subito una caduta del suo PNL del 18,5%. Le privatizzazioni, nonostante le “sparate” di Gajdar, sono rimaste al palo e la produzione dei beni di consumo continua a essere latitante, attorno al -25%.

Lo stesso Camdessus, presidente del FMI, si è espresso favorevolmente annunciando l'esborso di 30 miliardi di dollari in cinque anni.

Va immediatamente osservato come, sotto la spinta degli Usa, non solo l'entità delle cifre sia notevolmente aumentata, ma che l'erogazione dei crediti non sia più subordinata al raggiuntimento pregiudiziale di obiettivi strategici, il cui successo peraltro, non poteva prescindere dagli stanziamenti stessi. I finanziamenti voluti da Clinton mancavano di questa pregiudiziale e avevano degli obiettivi ben mirati e concreti. Quali le ragioni di un simile cambiamento di rotta, sempre che le realizzazioni seguano le aspettative?

Un primo motivo a “tanta” magnanimità risiedeva nel residuo potenziale militare russo. Ancora 1400 testate nucleari giacevano nei magazzini russi, e se con Eltsin gli accordi di non proliferazione nucleare erano giunti a buon punto, la stessa cosa non era ipotizzabile con i suoi avversari. Da qui un sostegno finanziario finalizzato al rafforzamento dell'amministrazione riformista per non correre inutili rischi con una controparte neo stalinista tutta da scoprire ed eventualmente da ammansire con tutti i costi del caso.

Sul medesimo terreno c'era da tamponare le stesse propensioni militari-commerciali di Eltsin. I “curatori fallimentari” della “azienda” Russia, dovendo fare i conti della sopravvivenza, si erano accorti che l'unica merce esportabile, anche se parzialmente obsoleta, era quella militare e che le uniche imprese in grado di produrre erano quelle del settore militare. Anche nel '92 non erano mancati buoni affari con la Cina, con l'Iran e persino, anche se per sentieri molto tortuosi, con la belligerante Serbia.

A quel punto prendeva corpo il teorema di Clinton. Gli aiuti finanziari, sufficienti e tempestivi, avrebbero convinto più facilmente il debitore Eltsin a soprassedere alla vendita di armi soprattutto a favore di quei paesi che per una serie di motivi, tutti di per sé evidenti, non rientravano nelle grazie americane. Meno armi uscivano dagli arsenali russi e minori preoccupazioni avrebbero travagliato i sonni del presidente americano.

In assonanza col teorema: meno armi russe sul mercato commerciale, meno preoccupazioni nelle strategie imperialistiche americane, un secondo obiettivo discendeva dalla intensificazione dei prestiti internazionali. Nelle prospettive della nuova amministrazione americana la fine della guerra fredda doveva significare una parziale ma consistente diminuzione degli investimenti militari a favore di quelli civili.

Tra le poche eredità positive della precedente amministrazione, il Presidente Clinton ha ricevuto e potenziato l'idea di tentare, anche se con almeno due decenni di ritardo, il lancio di un mega processo di ristrutturazione che colmasse, almeno in parte, la distanza tecnologica che separa l'economia americana da quella giapponese e tedesca.

I settori di intervento tanti, quattro su tutti. Il siderurgico, il metalmeccanico con particolare riferimento all'industria automobilistica, quello dell'alta tecnologia e della biotecnologia con impiego nell'agricoltura e nel settore energetico. Allo scopo, già l'amministrazione Bush aveva pilotato verso il basso il costo del danaro diminuendo drasticamente il tasso di sconto e con l'operazione “tempesta nel deserto” era riuscita a controllare l'area e il prezzo del greggio in termini favorevoli al progetto americano. A Clinton il compito di completare l'opera trovando i fondi federali sufficienti a far decollare il grande progetto.

L'impresa era tanto più facile quanti più miliardi di dollari potevano essere stornati dalle spese militari. La fine della guerra fredda doveva, anche per i bilanci americani, aprire le porte a una parziale riconversione di tendenza. E il tutto si sarebbe presentato in discesa se le vendite di armi da parte della Russia fossero cessate, grazie anche ai finanziamenti internazionali.

Giocata sul tavolo delle ridefinizioni imperialistiche nell'ambito dei mercati commerciali e finanziari, stava la terza ragione della “magnanimità” di Clinton.

Dopo il crollo dell'Urss la Germania aveva iniziato un'opera di penetrazione nell'Est e nella Russia in particolare. La tecnologia e il capitale finanziario tedeschi si sono fortemente proposti in Ungheria e Cecoslovacchia, nella siderurgia e nella metalmeccanica. In Russia è avvenuta la stessa cosa. Mossasi per tempo, già ai tempi di Gorbacev, la Germania aveva dato vita a importanti joint ventures nei settori chiave della economia russa, le uniche ad avere una qualche rilevanza.

Alla nuova amministrazione americana tutto questo non era di particolare gradimento. La preoccupazione era che il governo Kholl estendesse la sua influenza politica ed interferenza economica nell'ex Est europeo e nella stessa Russia, ingigantendo la sua leadership nella Europa occidentale con grave danno per le ricomposizioni delle crepe imperialistiche apertesi dopo il crollo dell'Impero sovietico.

Anche in questa occasione la magnanimità nei confronti di Eltsin aveva come scenario l'interesse americano di limitare le progressioni tedesche nell'Europa, sua occidentale che orientale. Ovvero che importanti segmenti del mercato internazionale cadessero, senza colpo ferire, nelle mani di uno dei due più agguerriti avversari.

Con Clinton la smania americana di riguadagnare il tempo perduto, cioè cioè di ridurre i margini di distanza, in termini tecnologici, produttivi e quindi di possesso di quote di mercato, nei confronti di Germania e Giappone, ha fatto sì che persino strutture intoccabili come la Cia venissero ridisegnate. Secondo i nuovi piani, cessato l'allarme “comunismo”, le modalità di impiego della più grande ed efficiente delle “intelligence” americane, dovevano orientare la sua operatività più sui mercati commerciali e finanziari, che non su quello tradizionale del confronto diretto con un avversario che non esisteva più. Il che non deve far pensare a una Cia completamente stravolta nelle sue abitudini e nei punti di applicazione del suo agire, piuttosto ad una “intelligence” più duttile, più capace di rispondere alle sollecitazioni della nuova situazione interna ed internazionale. Lo stesso Clinton, appena salito alla Casa Bianca ha voluto un ricambio dei suoi quadri dirigenti, troppo legati ai vecchi schemi della guerra fredda. Per cui la Cia rimane quella struttura in grado di operare in qualsiasi “covert action”, di provocare destabilizzazioni politiche in qualsiasi paese o sotto qualsiasi latitudine, ma secondo i nuovi criteri, deve saper anche diversificarsi nei settori legati alla produzione e alla commercializzazione delle merci. Deve imparare a muoversi anche nei luoghi deputati alle grandi transazioni di capitale finanziario, essere operativamente presente in quei settori che sono funzionali alle esigenze della economia e della finanza americane.

Di questo scenario, nuovo per dimensioni e approcci, gli aiuti internazionali alla Russia, anche in chiave antitedesca, fanno organicamente parte. Pagare la Russia, renderla in qualche modo meno dipendente dai capitali e dalle tecnologie tedesche, aiutarla a essere un partner competitivo e non subalterno a Bonn, rimaneva uno dei punti di maggiore interesse della nuova strategia americana in Europa.

In più, ma questo poteva essere considerato soltanto un corollario ai punti precedenti, i buoni uffici americani presso gli organismi finanziari internazionali, potevano anche preparare il terreno per accordi bilaterali su questioni di import-export che sotto la poco illuminata gestione Bush non erano nemmeno stati presi in considerazione.

Aria nuova dalle parti della Casa Bianca e del Pentagono. L'equipe democratica di Clinton si è posta l'obiettivo di risalire la china della recessione economica, di riguadagnare margini di competitività nell'ambito della economia reale, di sanare gli spaventosi deficit ereditati da dodici anni di sconsiderata, capitalisticamente parlando, reaganomics. Un tassello di questo improbo, tardivo e per molti aspetti improbabile programma, accanto al mega processo di ristrutturazione interno, alla riproposizione degli Usa quale unica grande potenza militare in grado di intervenire in qualunque angolo del mondo, è rappresentato dalla nuova politica estera nei confronti della traballante Repubblica Russa della gestione eltsiniana.

Fabio Damen

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.