“Il declino del capitalismo”, per grazia di dio e di un filosofo

Il crollo del muro di Berlino e la caduta dell’impero sovietico hanno fatto ritenere, per un certo periodo di tempo, che il capitalismo avesse vinto la sua storica guerra contro il “comunismo” e che avesse dinanzi a sé un’epoca di poderoso sviluppo, ma gli eventi successivi hanno clamorosamente smentito questa ipotesi e confermato che le contraddizioni del sistema, che si riteneva fossero state definitivamente superate, oltre che essere tuttora attive si sono addirittura ingigantite.

Non uno solo dei traguardi che si riteneva fossero ormai a portata di mano è stato centrato e la società caratterizzata dal progresso ininterrotto, dalla libertà e dal benessere generalizzato è già finita nel dimenticatoio, lasciando il posto a tragedie immani e a immani disastri come e più di prima. Dov’è il capitale senza il lavoro salariato che avevano immaginato gli ideologi e i tecnici borghesi? E dove lo sviluppo equilibrato delle forze produttive? E la pace?

Non occorre essere grandi filosofi per accorgersi che il mondo va in direzione apposta. La corsa che si è scatenata verso salari sempre più bassi è, più di mille analisi o di qualsivoglia teorizzazione, la pietra tombale che il capitalismo stesso ha posto sulla montagna di scempiaggini che i suoi corifei andavano e vanno sostenendo a proposito della fine del lavoro salariato e del suo sfruttamento.

Così la disoccupazione. Come la stessa borghesia ammette un suo contenimento è ipotizzabile alla sola condizione che sia aprano le porte alle forme più violente di sfruttamento quali il salario d’ingresso, l’uso flessibile, sia nello spazio che nel tempo, della forza-lavoro, il ritorno al caporalato ecc. cioè che il rapporto di dominio che subordina il lavoro al capitale si accentui ulteriormente. Altresì, il divario fra ricchi e poveri cosi come quello fra le diverse aree del pianeta anziché attenuarsi si è ulteriormente accresciuto e la fame nel mondo dilaga.

Ci sono più persone oggi nel mondo che soffrono la fame - si legge nel Rapporto Brundt della Commissione Mondiale per lo Sviluppo e l’Ambiente - di quante se ne siano mai avute nella storia dell’umanità e il loro numero aumenta.

Manier de Voir n 18 - Le Monde diplomatique

E ciò nonostante si sia registrata una crescita costante della ricchezza prodotta su scala planetaria.

In dollari del 1975, il prodotto mondiale nel 1900 è stato valutato pari a 580 miliardi di dollari (360 dollari pro capite); nel 1975 il prodotto mondiale è risultato pari a 6 mila miliardi di dollari (1500 dollari pro capite). Nel 1985 in dollari del 1985 il prodotto mondiale è risultato pari a circa 15 mila miliardi di dollari ( 3000 dollari pro capite).

M.V. op. cit. pag. 63

Della pace è meglio non parlarne visto quel succede in ogni angolo del pianeta, se non per rilevare che la guerra non si era mai avvicinata così tanto all’Europa occidentale come in questi ultimi tempi con la guerra nell’ex Yugoslavia.

Una smentita così netta delle aspettative sul futuro del capitalismo avrebbe dovuto riaprire il dibattito e la riflessione sul destino di questa formazione sociale. Ci si poteva legittimamente attendere che, almeno da parte di coloro che dicono di condividere le sorti delle classi deboli della società, venisse riaperta la discussione innanzitutto attorno alla natura dell’ex Unione Sovietica per stabilire una volta per tutte quanto fosse appropriato definire quella realtà socialista o, addirittura, comunista poiché, a nostro avviso, è tutto da dimostrare che l’esperienza conclusasi con il crollo dell’Unione Sovietica possa essere in qualche moda la prova provata del fallimento del marxismo e dunque del socialismo. Se non è stato il marxismo a essere sconfitto se ne deve dedurre, infatti, che il crollo dell’Urss non è la vittoria del capitalismo sul comunismo, come sostiene la propaganda borghese, ma al contrario è il fallimento di una particolare forma di capitalismo: il fallimento del capitalismo di Stato nell’ambito di un più generale processo di crisi e di decadenza che investe il capitalismo nella sua totalità.

Ne è scaturita invece una corsa al pentitismo più becero e nuove e più devastanti mistificazioni hanno preso il posto di quella stalinista. Proprio coloro che fino a ieri avevano esaltato il socialismo russo e bollato i suoi critici come nemici del socialismo e del marxismo, ora che la greppia che a iosa li ha nutriti si è svuotata, corrono senza pudore a prostrarsi ai piedi del presunto vincitore. Così come ieri, senza ritegno anche di fronte all’evidenza, si ostinavano a spacciare per socialismo il capitalismo di stato russo, oggi s’inchinano al capitalismo comunque sia e ne decretano l’insuperabilità nonostante il dilagare delle sue contraddizioni. Lo scopo evidente è quello di impedire al proletariato la verifica dell’attualità e della puntualità della critica marxista alla società borghese e la conseguente presa di coscienza della necessità storica di procedere al suo abbattimento.

Per impedire che ciò accada è stato aperto un vero e proprio fuoco di sbarramento che utilizza la canaglia ex stalinista e le mistificazioni da essa prodotte come base per attacchi ancora più sottili e sofisticati all’impianto teorico del marxismo.

Solo in apparenza, infatti, l’ultimo libro del filosofo Emanuele Severino “Il declino del capitalismo” (ed. Rizzoli, 1993) sembra voler procedere - come si legge nel risvolto di copertina - a “un profondo ripensamento di tale sistema”; in realtà, utilizzando il fallimento stalinista, anche egli punta a dare il colpo di grazie al marxismo e con esso a ogni concreta possibilità di costruire una società alternativa a quella attuale.

L’operazione è molto sottile e intellettualmente apprezzabile poiché paradossalmente essa muove dalla constatazione che il capitalismo è in profonda crisi e anzi è destinato a fare la fine del “comunismo” identificato con l’ex Unione Sovietica.

Da tempo vado indicando i motivi che fanno pensare che la discesa del capitalismo sia già cominciata. Non si tratta delle difficoltà in cui oggi si trova l’economia capitalista che prima o poi possono essere superate. Si tratta di qualcosa di ben più decisivo: un insieme di forze di diversa natura e potenza agisce con pressione costante per distogliere il capitalismo dal fine che gli è proprio; e questo significa che esse agiscono per trasformare il capitalismo in qualcosa che non è più capitalismo.

Op. cit. pag. 58-59

Escluse le contraddizioni d’ordine economico, per Severino, le forze che spingono il capitalismo verso il declino sono la Democrazia, il Cristianesimo e la Tecnica. Queste tre forze pur agendo per il declino del capitalismo sono in conflitto fra loro.

La democrazia moderna è laica e intende essere un semplice strumento per la realizzazione ottimale delle scelte politiche, neutrale e indifferente, come tale, rispetto ai valori della tradizione dell’Occidente, cristianesimo incluso. A sua volta la Chiesa respinge ogni libertà senza “verità”, e quindi si oppone all’essenza stessa della democrazia moderna.... Oggi la Chiesa chiede al capitalismo che lo scopo ultimo della produzione economica non sia il profitto privato, ma “il bene comune” della società, la Chiesa chiede al capitalismo - né più né meno- di non essere più capitalismo. Ed è quindi inevitabile che il dissidio tra mondo del capitale e mondo cattolico abbia ad aggravarsi sempre di più.

Op. cit. pag. 48

E oltre:

Il rapporto tra capitalismo, democrazia, cristianesimo è profondamente conflittuale e con la fine del comunismo questa conflittualità sta venendo sempre più in primo piano.

op. cit. pag. 59

Si potrebbe obbiettare che democrazia, cristianesimo e capitalismo hanno convissuto felicemente anche quando non vi era traccia di “comunismo” e questo non ha impedito al capitalismo di superare almeno tre grandi crisi strutturali e due guerre mondiali, senza che né il cristianesimo né la democrazia battessero ciglio. Questi due forze, in verità, non hanno mai avuto - né potevano avere - una loro vita autonoma rispetto ai rapporti di produzione vigenti e non si vede come sia possibile che possano costituire un pericolo per il capitalismo visto che si sono plasticamente modellate in relazione alle esigenze dello sviluppo capitalistico. Lo stesso Severino deve ritenere deboluccia la sua tesi visto che in definitiva il ruolo di becchino del capitalismo lo affida ad un terzo incomodo:

... tra queste forze si trova un convitato di pietra. Siede al loro tavolo; e anche se sono tutte convinte di potersene servire sarà lui a dominarle e a guidare il convito. Anche il socialismo reale sedeva allo stesso tavolo. E si è convinti che a liberarci da esso siano stati il capitalismo, la democrazia, il cristianesimo. Ma al tavolo siede anche la tecnica.

op. cit. pag. 59

È la tecnica il vero deus ex machina della storia, è la tecnica la grande forza che tutto distruggerà.

La tecnica cioè il sistema di strumenti organizzati secondo i criteri della razionalità scientifica e costituenti quella complessa struttura di prestazioni, non solo tecnologiche, ma anche giuridiche, burocratiche istituzionali, militari, sanitarie, scolastiche e certamente anche economiche, che formano l’apparato scientifico-tecnologico.

op. cit. pag. 87

Questo è per Severino il vero antagonista del capitalismo. Ma la tecnica da dove proviene? Non è essa stessa in relazione dialettica con la struttura economica e va là, dove, quando e come i rapporti economici dominanti indirizzano? Per esempio, la scelta per la produzione di energia elettrica mediante centrali termo-nucleare non è neutra rispetto ai rapporti di produzione vigenti. Soltanto in una società in cui l’energia è una merce e come tale viene prodotta e immessa sul mercato, il rischio che questo tipo di produzione comporta passa in secondo piano rispetto alle aspettative di profitto che la produzione e la vendita di energia alimenta.

È evidente che con altri rapporti di produzione la scienza sarebbe sollecitata allo studio di sistemi di produzione dell’energia d’altro tipo e la stessa organizzazione della distribuzione dell’energia obbedirebbe a logiche affatto diverse.

La tecnica non è neutra né autonoma né dispone di un suo progetto autonomo; se così fosse dovremmo riconoscere alla tecnica una esistenza autonoma dall’uomo e dal mondo, una sua dimensione trascendente il mondo fisico, una dimensione divina e, infatti, per Severino la Tecnica intanto è antagonista del capitale in quanto ha una funzione salvifica rispetto ai rischi di distruzione della terra che la produzione di merci comporta.

La convinzione che la forma attuale della produzione economica stia distruggendo la Terra prende sempre più piede anche se rimane ancora incerta la sua consistenza scientifica. [...] Ma la distruzione della Terra è la distruzione della base naturale della stessa produzione capitalistica. Il capitalismo sta cioè distruggendo se stesso.

op. cit. pag. 65

Per evitare la sua distruzione il capitalismo, sostiene Severino, deve ricorrere alla Tecnica poiché solo la tecnica può mettere a disposizione del sistema modi di produrre non inquinanti e quindi non distruttivi. Ma così facendo il capitalismo non obbedisce più alla logica del profitto ovvero modifica lo scopo della sua esistenza e modificando lo scopo della sua esistenza nega se stesso. Qui è da rilevare che Severino ammette che la contraddizione fra Tecnica e il capitalismo possa risolversi mentre nega che ciò debba necessariamente accadere per la contraddizione tra le classi sociali così come sostiene il marxismo.

... l’esistenza della contraddizione porta necessariamente [per Marx - ndr] al suo toglimento nella storia (cioè, nella fattispecie, al superamento della società capitalistica nella società senza classi) [...] per me la contraddizione può anche permanere, nel finito, come non tolta, ma il marxismo non riesce neppure a dimostrare che il capitalismo e la tecnocrazia siano in contraddizione.

op. cit. pag. 261

Non vi riesce per la semplice ragione che il marxismo non ritiene che la Tecnocrazia abbia una sua base autonoma e contraddittoria rispetto al capitalismo come rispetto a qualunque altra formazione sociale, ma sostiene che trattandosi di elemento della sovrastruttura è dialetticamente determinata dalla struttura economica. Per ammettere che la tecnica sia antagonista del capitalismo, è necessario sostenere che essa non sia, a sua volta, un fatto storico, ma trascende la storia. Per ammetterlo è necessario sostenere che la tecnica altro non è che la manifestazione della potenza di dio. Ed è ciò che Severino fa.

... l’esigenza di non distruggere la Terra è un avversario della volontà di profitto, che il capitalismo può neutralizzare affidando alla tecnica il compito di assicurare energie sempre meno inquinanti e cioè affidando la propria sorte e salvezza alla tecnica. Ma chi viene salvato deve assumere come scopo primario la potenza del salvatore. [...] Proprio perché la tecnica salva, chi è salvato non è salvato: ha perduto la propria anima, cioè il proprio scopo. Si può salvare la propria anima solo perdendola. [...] Lo scopo primario diventa così la potenza e il trionfo della grazia divina. Come distinta e autonoma rispetto alla Grazia, la salvezza dell’uomo diventa uno scopo subordinato, anzi, diventa uno scopo evitato. Così come diventa uno scopo evitato la volontà di profitto come distinta e autonoma rispetto alla potenza salvifica della tecnica. L’uomo aveva incominciato col voler salvare se stesso, e finisce col volere che sia fatta la volontà di Dio - o della Tecnica.

op. cit. pag. 91

Il destino del proletariato è dunque nelle mani del padreterno che a quanto pare non deve essere a sua volta insensibile alle esigenze di conservazione del capitalismo visto che gliele perdona proprio tutte. Che non si stia vedendo Beautiful anche lassù?

Uno scritto denso e provocatorio - si legge ancora sulla contro copertina -che dimostra come il capitalismo possa diventare il maggior nemico di se stesso.... un libro che avanza anche una sfida: è possibile, senza essere marxisti, riuscire là dove il marxismo è fallito?

Stando alle tesi dello stesso Severino l’impresa è vietata ai comuni mortali. La filosofia occidentale e il pensiero di Marx, secondo Severino, essendo parte integrante della filosofia occidentale poggia sull’errore che questa commette di considerare che:

le cose e gli aspetti del mondo, quanto a ciò che hanno di specifico e di proprio, provengano dal non essere e vi ritornino [...] è dunque tra le cose così intese - cioè caduche - che sussisterebbe la connessione per la quale esse dovrebbero stare unite necessariamente le une alle altre. [...] Ma se si crede che ciò che esiste provenga dal proprio non essere e vi ritorni, non è più possibile affermare alcuna connessione necessaria tra gli esistenti.

op. cit. pag. 258

Di conseguenza non ammettendo il marxismo un principio divino delle cose non è possibile neppure affermare l’esistenza di connessioni quali quella...

tra individuo e società, tra uomo e natura e, su questa base, tra uomo e lavoro, tra lavoro e mezzi di produzione, tra uomo e prodotto del lavoro.

op. cit. pag. 258

Ma se non sono possibili queste connessioni, anche le contraddizioni che da esse scaturiscono non sono vere. Il marxismo non solo non spiega il mondo, ma:

Per rilevare il senso autentico dell’autodistruzione del capitalismo non è necessario appoggiarsi al marxismo, anzi è necessario liberarsi dal marxismo e dalla radice stessa che alimenta l’intero pensiero dell’Occidente.

Ma se è soltanto ammettendo l’esistenza di dio che sono possibili connessioni fra gli uomini, e fra gli uomini e le cose, è evidente che le contraddizioni, che da queste connessioni scaturiscono, possono essere superate soltanto con il ritorno delle cose all’Essere, a dio. Le contraddizioni in ultima istanza non possono essere che tra le cose e il loro principio infinito e anche quella tra il capitalismo e la tecnica altro non è che la contraddizione tra il capitalismo e dio. Ma se la contraddizione è tra il capitalismo e dio, e dio è la potenza suprema, spetta solo a quest’ultimo stabilire quando e come il capitalismo dovrà cadere. Il carattere auto-distruttivo del capitalismo è vero soltanto e in quanto il capitalismo è relazionato con dio. La sua transitorietà, dunque, è tale solo rispetto all’infinito. Il capitalismo può crollare, ma può anche permanere. La contraddizione può, nel mondo finito, anche non “essere tolta” per cui il crollo del capitalismo è certo soltanto nell’infinito. Nel frattempo gli uomini che subiscono la violenza dello sfruttamento capitalistico che fanno? Debbono bussare alle porte del paradiso perché il padreterno la smetta di guardare Beautiful e si decida a occuparsi delle cose di questo mondo, o debbono agire concretamente contro la logica del profitto? Sarà anche filosoficamente inaccettabile la contraddizione tra capitale e lavoro, ma quando il capitalista, ora e qui, impone la riduzione del salario per incrementare il saggio del profitto, gli operai devono lottare o devono pregare il cielo affinché li faccia morire al più presto di fame così che si possano salvare nella grazia di dio?

Volta e gira, alla fine la lingua batte dove il dente duole. Il capitalismo in declino non fa paura fino a quando il suo crollo è affidato alla volontà di dio, ma se sul suo declino si articola un progetto politico per il suo abbattimento, quale quello marxista, ecco i filosofi attingere addirittura alla filosofia pre-aristotelica pur di invalidarlo. Ma lo voglia o no Severino, la contraddizione tra capitale e lavoro è vera e operante ed è proprio da essa che si origina la caduta tendenziale del saggio medio del profitto ovvero il declino del capitalismo e la base materiale della sua transitorietà. Ciò che lo rende, come tutte le cose di questo mondo, degno di perire. Sotto i colpi della rivoluzione proletaria.

Giorgio Paolucci

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