Globalizzazione e imperialismo

VI Congresso del Partito

Nella tesi Crisi e Imperialismo, presentata e approvata al nostro ultimo congresso (1983), a proposito dei possibili sbocchi che avrebbe potuto avere la crisi economica esplosa nei primi anni '70, si legge:

La linea di tendenza è chiara: non siamo in presenza di una crisi congiunturale che possa risolversi in un arco di tempo più o meno lungo, ma in presenza di una crisi economica permanente il cui epilogo non potrà essere che un nuovo conflitto mondiale.

Ora, se assumiamo la rottura degli accordi di Bretton Woods come il punto di svolta che segna la fine della fase ascendente del ciclo di accumulazione capitalistica avviatosi con la chiusura della seconda guerra mondiale, sono complessivamente ventisei anni che la crisi si trascina senza che il terzo conflitto mondiale sia esploso. È evidente che avendo dato alla crisi, in quanto crisi di ciclo, una dimensione di fase e non una temporale definita, la previsione resta valida per tutta la durata della crisi; ma ciò non esclude che un certo scostamento tra la previsione e gli eventi attesi si è pur verificato né deve costituire un alibi per bendarsi gli occhi e aspettare che la previsione si avveri quasi fosse una profezia. Sarebbe una rinuncia al materialismo dialettico per approdare alla più banale dialettica formale: un metodo che non ci appartiene e che lasciamo volentieri alla folta schiera di meccanicisti che purtroppo affolla anche l'area della sinistra comunista.

La distruzione dei capitali in eccesso, originandosi la crisi dalla loro sovraccumulazione, resta con tutta evidenza l'unica soluzione borghese della crisi, l'unica che possa consentire il passaggio da un ciclo di accumulazione all'altro; su questo non ci sono dubbi visto che l'intera teoria marxista delle crisi, come abbiamo avuto più volte modo di dimostrare, ha trovato proprio negli accadimenti di questi ultimi anni ampia conferma. Non c'è dunque nulla da inventare o da scoprire; ma occorre soffermare la riflessione su tutti quei processi che hanno consentito fin qui un decorso della crisi per molti aspetti imprevisto. Per alcuni versi, si tratta di fenomeni già descritti dalla critica marxista del capitalismo, ma che mai si erano manifestati in modo così netto e avuto la centralità che oggi hanno.

Tralasceremo in questa sede l'implosione dell'ex impero sovietico in quanto, pur costituendo una delle causa essenziali della mancata esplosione del terzo conflitto mondiale, è stata, dal nostro partito, nel corso di questi ultimi anni, un'esperienza già ampiamente sottoposta al vaglio della critica marxista. Qui ci soffermeremo, invece, su quei fenomeni emersi con forza negli ultimi anni e più strettamente inerenti la gestione economica e finanziaria della crisi in quanto preannunciano mutamenti rilevanti nell'insieme dei rapporti fra capitale e lavoro e interessanti prospettive per la ripresa della lotta di classe.

Come è noto Marx nell'esaminare la legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto aveva già colto e posto in evidenza la forte spinta che tale tendenza imprime alla internazionalizzazione del capitale; ma solo la moderna rivoluzione tecnologica ha consentito a questa tendenza di esprimersi nel modo più compiuto dando una fortissima spinta a quel processo di globalizzazione dell'economia che la propaganda della borghesia presenta come il futuro toccasana di tutto i mali del mondo, il nuovo Eldorado per il quale non c'è sacrificio che non valga la pena d'essere fatto.

La globalizzazione industriale

L'introduzione della microelettronica nei processi produttivi, a differenza di quanto è avvenuto in passato con altre tecnologie, non ha determinato la nascita di nuovi settori produttivi; ma la distruzione sia assoluta sia relativa di un gran numero di posti di lavoro. Per la prima volta nella storia del capitalismo moderno, a un nuovo stadio tecnologico non è corrisposto, seppure dopo una crisi più o meno lunga, un allargamento della base produttiva che consentisse, insieme alla crescita della produttività del lavoro, una crescita quantitativa della forza-lavoro impiegata nei processi produttivi. Le tecnologie basate sulla microelettronica sono risultate infatti tecnologie essenzialmente sostitutive di manodopera e, contrariamente alle attese, non hanno dato vita a nuovi settori produttivi. Non potendo aumentare, per questa ragione, la massa del plusvalore mediante la crescita del numero dei lavoratori occupati, Il meccanismo di compensazione del saggio medio del profitto è risultato in qualche modo zoppo e ha dovuto far leva sull'incremento del plusvalore assoluto e relativo prodotto da una quantità di forza-lavoro in permanente contrazione. Ne è scaturita una corsa forsennata all'incremento del plusvalore assoluto mediante l'allungamento della giornata lavorativa e di quello relativo mediante l'incremento del grado di sfruttamento della forza-lavoro senza precedenti in questo secolo. La risultante è una spinta permanente alla svalutazione del valore della forza-lavoro, a una profonda modificazione del mercato del lavoro e a una nuova divisione del lavoro su scala planetaria.

La rivoluzione dei mezzi di telecomunicazione e la semplificazione del lavoro, conseguente all'automazione sempre più spinta, hanno reso possibile il trasferimento di importanti segmenti produttivi in aree con un costo del lavoro estremamente basso e l'utilizzazione di manodopera sempre meno qualificata e meno costosa anche nei processi produttivi più complessi. Ne è risultata, oltre alla svalutazione della forza-lavoro, la generalizzazione di una struttura salariale estremamente flessibile che consente alle imprese di modulare l'impiego della manodopera e la sua remunerazione agli andamenti alterni del mercato.

La stessa contrattazione collettiva, fortemente voluta, all'indomani della seconda guerra mondiale, dalla borghesia internazionale (quella statunitense in testa) per garantire stabilità e continuità alla programmazione monopolistica, è ormai superata e al suo posto sta prendendo sempre più piede una sorta di contrattazione individuale che mira a rimuovere ogni vincolo che impedisca al prezzo della forza-lavoro di scendere in relazione a una domanda di gran lunga inferiore all'offerta. Il fenomeno è così forte che ormai riguarda anche il salario indiretto oggetto di un attacco che punta allo smantellamento di istituti quali l'assicurazione sociale contro la vecchia (pensioni) ormai comunemente ritenuti diritti acquisiti per sempre.

Ma se, per un verso, il processo di svalutazione permanente del valore della forza-lavoro ha egregiamente supplito la mancata compensazione della diminuzione del saggio medio del profitto mediante la crescita numerica degli operai impiegati nella produzione, per un altro ha accentuato la contraddizione medesima poiché ha favorito sempre più proprio gli investimenti sostitutivi di manodopera. La ristrutturazione e la riorganizzazione capitalistica hanno di conseguenza assunto una dimensione ancora più ampia. La riduzione relativa e assoluta della manodopera ha determinato un calo della domanda globale in molti settori strategici e ha posto un problema di mercato enorme a tutti i più grandi produttori. Divenendo sempre più ristretti i singoli mercati nazionali, ha assunto un'importanza crescente quello internazionale per cui si è scatenata una forsennata lotta per il suo accaparramento che non accenna ancora a placarsi. L'incremento forsennato della competitività è dunque l'imperativo che orienta le scelte strategiche di tutti i maggiori paesi industrializzati. Ma più competitività significa sempre più automazione; più automazione, ulteriore crescita del capitale costante e riduzione assoluta e relativa di quello variabile per cui la contraddizione che alimenta la caduta del saggio del profitto tende a riproporsi su scala allargata e le spinte alla mondializzazione si fanno più potenti. Ma anche più grande risulta essere la massa di capitale che non trova sufficiente remunerazione nei normali processi produttivi e si sposta verso la speculazione finanziaria.

La globalizzazione finanziaria

Mille e trecento miliardi di dollari si muovono ogni giorno alla velocità della luce da una parte all'altra del mondo alla ricerca di un profitto. Per avere un'idea della grandezza di questa massa di capitale basti pensare che le banche centrali dei paesi OCSE messe assieme ne muovono non più di 350. Nella classifica delle prime dieci imprese del mondo, ai primi cinque posti figurano ormai stabilmente solo imprese finanziarie e in special modo i grandi Fondi-pensione statunitensi e giapponesi. Soltanto dieci anni fa invece il posto era saldamente occupato da grandi imprese industriali.

Dall'abbandono degli accordi di Bretton Woods, la dilatazione del mercato finanziario è stata incessante e ormai vi è più innovazione nei prodotti finanziari che in quelli industriali. In particolar modo, il mercato valutario, con la creazione del mercato delle opzioni sulle valute nato nel 1982 negli Stati Uniti grazie a un'apposita legge (la legge sulle transizioni sui contratti a termine, Il Future Trading Act), ha subito un totale sconvolgimento. Con la creazione di questi nuovi prodotti, i grandi gruppi finanziari di fatto sono in grado d'intervenire nella determinazione delle dimensioni della massa monetaria di esercitare su di essa quel controllo che un tempo era di esclusiva pertinenza degli Stati e delle relative banche centrali. Grazie al controllo che essi possono esercitare sulla massa monetaria, tutto il processo di formazione dei prezzi su scala internazionale è nelle loro mani, ovvero nelle mani di un ristretto numero di società mobiliari, banche e fondi-pensioni. In forza di ciò la cosiddetta economia reale soggiace alla rendita finanziaria ed è continuamente sollecitata a incrementare la quota di plusvalore da destinare alla speculazione.

La speculazione finanziaria che fino a tutti gli anni ottanta aveva avuto per oggetto soprattutto le oscillazioni dei prezzi delle merci, ora è esercitata su quelle delle valute. Il calo del saggio d'inflazione registrato negli ultimi anni nei maggiori paesi industrializzati, contrariamente a ciò che affermano i governi rivendicandone il merito, è, per esempio, il risultato dello spostamento della speculazione dalle borse merci a quelle valutarie.

Le valute sono simboli e possono essere spostate con estrema velocità da una parte all'altra del mondo determinando il crollo o la scalata verso l'alto delle quotazioni di una moneta anziché di un'altra nel volgere di pochi secondi; di conseguenza è più facile, per chi controlla masse consistenti di capitale finanziario, intervenire sulle quotazione dei cambi e lucrare consistenti extra-profitto. Ma si tratta pur sempre solo di spostamento di plusvalore da un capitale all'altro e non di produzione di un plusvalore aggiuntivo per cui la divaricazione fra i valori monetari e quelli reali delle merci prodotte permane e l'inflazione, che questa divaricazione esprime, anziché scemare si trasferisce dai prezzi delle merci a quelle delle valute e specificatamente dalle valute forti a quelle più deboli. Di fatto con questo movimento le valute più forti, ovvero i capitali più grandi si appropriano di quote di plusvalore senza colpo ferire e senza sporcarsi le mani nella produzione di merci. Più in generale, è tutto il processo di distribuzione della ricchezza che viene dettato da questo movimento cosicché quote sempre più grandi di plusvalore vengono fagocitate dalla rendita finanziaria e il proletariato internazionale è chiamato con frequenza quotidiana a stringere la cinta per salvare l'economia nazionale dagli attacchi della speculazione e tranquillizzare i cosiddetti Mercati le cui valutazioni sono ormai come quelle del papa: infallibili e inappellabili. In realtà, l'appropriazione parassitaria è divenuta la forma predominante di appropriazione di plusvalore e il dominio del rentier, descritto da Lenin, non è mai stato così totale e articolato come ai giorni nostri.

Il pensiero unico dominante

Gli economisti, gli intellettuali e i politici borghesi, salvo rare eccezioni, prospettano con la globalizzazione la definitiva affermazione sul mercato mondiale della libera concorrenza. Si sostiene, con assordante insistenza, che potendosi realizzare con la globalizzazione un mercato unico su scala planetaria, la libera concorrenza non avrà più limiti di sorta e sarà finalmente perfetta come nei manuali scolastici per cui, completato il processo, l'equilibrio economico sarà determinato naturalmente dal libero gioco della domanda e dell'offerta. E poiché la lotta per il raggiungimento di tale equilibrio esclude le imprese meno competitive, la globalizzazione dell'economia sarà anche il trionfo della razionalità e dell'efficienza, della democrazia e del benessere.

Con essa si avrà la migliore allocazione delle risorse e la migliore distribuzione del reddito, includendovi ovviamente anche i salari. Domina incontrastato il pensiero del laissez-faire e si invoca continuamente la liberalizzazione di questo o quel settore, la privatizzazione di questa o quell'impresa, l'abolizione di ogni ostacolo che possa limitare il movimento dei capitali, di ogni protezione sociale (Welfare Reform) e di ogni regola che limiti lo sfruttamento della forza-lavoro. L'editorialista di Le Monde Diplomatique, Ignacio Ramonet, ha definito questo il pensiero unico dominante, e non si è sbagliato; a questo pensiero infatti è impossibile muovere qualsiasi obiezione; né occorre essere marxisti per essere messi al bando o essere trattati come vecchi arnesi di un passato ormai sepolto: basta fare riferimento a Keynes e la furia neo-liberista si scatena. Ma solo in apparenza il neo-liberismo è l'ideologia del laissez-faire: il mondo è troppo cambiato perché vi sia qualcuno che possa sul serio scambiare Manchester con la Silicon Valley e un telaio a vapore con uno a controllo numerico.

L'ideologia oggi dominante è in realtà l'ideologia del capitalismo monopolistico giunto al suo stadio più elevato.

La liberalizzazione dei mercati così come l'abolizione di ogni regola e la rimozione di ogni ostacolo al movimento dei capitali è divenuta vitale alla sopravvivenza del sistema perché senza di essa non sarebbero possibili i giganteschi processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali che la globalizzazione implica. Per stare sul mercato globale occorrono dimensioni almeno continentali; altrimenti non si è competitivi. Non si sta, per esempio, sul mercato delle Telecomunicazioni, dove operano i grandi colossi statunitensi con dimensioni transcontinentali, con le dimensioni di una Stet o di una Telecom; occorre che se ne mettano insieme almeno tre di Stet e di Telecom. Ed ecco dunque la necessità della loro privatizzazione per favorirne l'accorpamento con altre imprese affinché nasca un gruppo di dimensioni almeno continentali. E così è per le banche, per le industrie e per gli Stati.

Lo stato a due dimensioni

Insieme alla liberalizzazione del mercato, il pensiero dominante reclama con altrettanta insistenza l'alleggerimento dello Stato nazionale. Si parla di Lean-State e si descrive un stato discreto, con poco potere e poche funzioni: guardiano della libera-concorrenza e garante che a tutti vengano assicurate pari opportunità. Ma anche qui l'ideologia dominante, come per i processi di concentrazione delle imprese, reclama la disarticolazione dello stato nazionale non perché, come immaginano alcuni teorici del localismo, si vuole un mondo di liberi stati in libero mercato, ma perché, dati i livelli di concentrazione e centralizzazione dei capitali, lo stato nazionale non è più in grado di assolvere coerentemente ad alcuni dei suoi suo compiti fondamentali. Affinché i grandi gruppi monopolistici possano essere competitivi sul mercato mondiale devono poter partecipare alla spartizione della rendita finanziaria per cui lo Stato di riferimento deve essere capace di assicurare una gestione efficiente e accorta delle grandi variabili macro-economiche e in particolare della massa monetaria. Uno Stato con una massa monetaria di piccoli dimensioni non è in grado di fronteggiare le onde d'urto della speculazione internazionale a cui espone l'intera sua economia. Nel 1987, il finanziere statunitense Andy Krieger, servendosi delle opzioni sulle valute, vendette allo scoperto l'intera massa monetaria della Nuova Zelanda realizzando a spese di quella Banca Centrale lauti guadagni. Ora, se si tiene conto che Krieger poteva muovere solo 700 milioni di dollari sul miliardo e trecento milioni di dollari che quotidianamente si muovono sui mercati finanziari internazionali, è facile rendersi conto che in un'economia globalizzata, dominata dal grande capitale finanziario, non è lo Stato in quanto tale che non ha più ragione di esistere, ma è lo Stato di piccole dimensioni che non può sopravvivere. Il processo di disarticolazione degli Stati nazionali cui stiamo assistendo non prelude, dunque, a un indebolimento dello Stato, ma una sua diversa articolazione in ragione della costituzione di aree valutarie di dimensioni almeno continentali.

Lo Stato che si delinea è uno Stato leggero e decentrato a livello nazionale; ma potente e fortemente centralizzato a livello continentale: è lo Stato dei grandi gruppi monopolistici transnazionali.

I nuovi equilibri imperialistici

All'indomani del crollo del muro di Berlino e poi di tutto l'ex impero sovietico, la propaganda borghese nei suoi peana annunciava l'alba di una nuova era. Non più guerre perché l'ultima guerra era stata vinta; né miseria perché, liberato il mondo dal male del comunismo, il fiore del benessere sarebbe sbocciato in ogni luogo; né dittature perché il capitalismo è sinonimo di libertà. Qualcuno negli States parlò addirittura di fine della storia.

Come era facile prevedere, queste aspettative sono andate tutte deluse: permangono le guerre, la miseria e la libertà mai come ora appartiene esclusivamente alla borghesia e ciò che più conta è che non sono cessati i conflitti interimperialistici.

Ma anche di fronte a una smentita così clamorosa, la propaganda della borghesia non demorde. Oggi, i suoi cantori sostengono che sarà la Globalizzazione economica la fossa della guerra e, sempre dagli States, qualcuno dice che se guerre ci saranno ancora nel prossimo futuro, queste non potranno che essere guerre fra civiltà e culture diverse; ma mai più scontro d'interessi materiali. Secondo questo punto di vista - che è poi quello dominante - la trasformazione in atto che vede i grandi gruppi monopolistici assumere una configurazione transnazionale, una volta che si sarà dispiegata in tutta la sua pienezza, renderà impossibile identificare una grande multinazionale sulla base della nazionalità. Gli affari correranno lungo, da e per ogni luogo costituendo un'unica grande rete in cui ogni maglia è presupposto dell'altra e quindi sarà interesse di tutti evitare che si producano smagliature.

L'immagine, nonché affascinante, contrasta nettamente con la realtà. La realtà, come abbiamo visto, dice, invece, che il successo di un gruppo monopolistico presuppone almeno i seguenti requisiti:

  1. la dimensione, che deve essere almeno continentale;
  2. la capacità di allocare nelle varie parti del mondo le sue attività in modo ottimale rispetto al rapporto produttività/costo del lavoro;
  3. la capacità di compensare i bassi saggi di profitto con la realizzazione di congrui extra-profitto;
  4. un'area sicuramente egemonizzata capace di assorbire una quota certa della produzione.

Ora, se si riflette attentamente ci si accorge che ognuno di questi requisiti implica una solida base di riferimento. In particolar modo, la realizzazione di extra-profitto impone il riferimento a una moneta capace di lottare sul mercato internazionale per la spartizione della rendita finanziaria tanto più che l'inarrestabile caduta del saggio medio del profitto, come abbiamo visto, continuerà a far crescere la dimensione e il numero dei capitali che non troveranno remunerazione adeguata nell'investimento direttamente produttivo. Lo scontro per l'appropriazione parassitaria di plusvalore si farà pertanto sempre più duro e il villaggio globale, sarà sempre più piccolo per il numero crescente di vampiri che lo abitano. E già oggi, benché sulla scena sia rimasta una sola superpotenza, la lotta per la conquista di posizioni egemoniche semina morte e terrore in ogni angolo del mondo. Dal Caucaso all'Afganistan; dagli Urali ai Balcani; in Medioriente, per tutto il continente africano, nell'America latina non c'è una sola striscia di terra che non sia martoriata dalla guerra generata dai conflitti d'interesse fra le diverse fazioni imperialistiche. Certo siamo lontani dalla costituzione di blocchi imperialistici equivalenti quello statunitense o, per meglio dire, facente capo all'area valutaria del dollaro; ma a cosa mira la costruzione della moneta unica europea? E i grandi investimenti tedeschi in Russia? E l'espansione giapponese nel Sud-Est asiatico? L'Europa e in particolar modo la Germania da una parte e il Giappone dall'altra, sono di fronte a un bivio: o aggregano forze capaci di contrastare il blocco del dollaro, che ormai comprende praticamente l'intero continente americano, o sono condannati a subire la supremazia americana che in ultima istanza vuol dire cedere all'area del dollaro quote crescenti di plusvalore correndo il rischio d dover assistere prima al declino e poi al proprio collasso economico e finanziario.

Su questa strada, la Germania è già a metà dell'opera: ha praticamente esteso l'influenza del marco su tutta l'Europa dell'est e, benché in condominio con gli Usa, in buona parte dei Balcani. Sono di fatto nell'area del marco anche l'Olanda, il Belgio, la Danimarca, l'Austria e la Svezia. Ha accresciuto la sua influenza sull'Iran e in alcune zone dell'Africa, ma tutto ciò non basta. Ha contro un mercato, un esercito e uno stato che da solo è già da qualche secolo tutto questo. Per pareggiare le forze, occorrerebbe che l'intera comunità europea si costituisse in un'unica area continentale con un'unica moneta di riferimento e forse anche allora i conti non tornerebbero. I destini del mondo dipendono anche dagli sviluppi della crisi russa: se ciò che ne uscirà sarà in grado di giocare un proprio ruolo o sarà una cosa talmente ridimensionata che non potrà fare altro che allearsi con qualcuno più forte di lei; da ciò che farà il Giappone in Asia e, dalla Cina. Soltanto le statistiche tanto generali quanto false del Fondo monetario internazionale possono infatti spacciare quello che accade in Cina come un gigantesco processo di sviluppo economico in contraddizione con le tendenze dell'economia mondiale. In realtà, la Cina è, per certi versi, l'equivalente della Russia in Asia: un groviglio immane di contraddizioni pronto a esplodere al primo stormir di fronde.

È difficile anticipare se il complicato puzzle riuscirà a comporsi; ma le spinte che provengono dal mondo dell'economia premono per la costituzione di almeno altre due grandi aree monetarie, oltre a quella del dollaro e, attorno ad esse, di almeno altrettanti stati-continentali o sistemi di alleanze anche transcontinentali in lotta fra loro per il controllo dei meccanismi di estorsione della rendita finanziaria. Chi rimarrà piccolo o non crescerà abbastanza è destinato a rimanere schiacciato.

Solo astraendo da queste spinte, ovvero astraendo dalle contraddizioni immanenti al processo di accumulazione capitalistica, e in via del tutto ipotetica, si può immaginare un mondo senza conflitti. La stessa tendenza alla costituzione di nuove aree monetarie porta con sé fortissime spinte alla separazione delle aree economiche più forti da quelle più deboli. Esse tagliano trasversalmente gli stessi stati nazionali e in alcuni casi alimentano tensioni che possono condurre anche alla loro rottura (vedi l'ex Yugoslavia) e/o a guerre interimperialistiche tanto laceranti e devastanti da vanificare le stesse spinte alla integrazione continentale.

Dall'esame fin qui fatto ci pare emerga con sufficiente chiarezza che la previsione della guerra come unica soluzione borghese della crisi alla prova dei fatti non può ritenersi né sbagliata né superata. I processi di ristrutturazione capitalistica tuttora in corso se da un lato hanno reso possibile il gigantesco processo di svalutazione del valore della forza-lavoro con cui è stata attenuata la diminuzione del saggio del profitto e alimentata la rendita finanziaria; dall'altro, non rimuovendo le contraddizioni che la originano, hanno dato alla crisi una dimensione unitaria su scala planetaria e uno spessore che rendono sempre più problematica la sua gestione con i soli strumenti dell'economia e della finanza per cui il ricorso alla violenza distruttrice si farà sempre più frequente e insostituibile.

La prospettiva della guerra non cessa, dunque, neppure in assenza di blocchi equivalenti in lotta fra loro. Si tratterà di guerre cosiddette di bassa intensità, di conflitti locali, di religione o tribali, ma sempre di guerre interimperialistiche. Una sorta di guerra permanente, un immenso buco nero in cui, distruggendosi, cadono in numero crescente uomini, cose e pezzi di civiltà fino alla totale barbarie.

Conclusioni

Un proletariato ingabbiato dal sindacato nella logica delle compatibilità, sfatto dalla corruzione stalinista e permeato, per la presenza nel suo seno di una consistente aristocrazia operaia, dai modelli di vita della piccola borghesia, è risultato incapace di opporre alla ristrutturazione capitalistica la benché minima opposizione.

Ma i segni di una profonda modificazione dei rapporti fra le classi si fanno ogni giorno più nitidi.

Se nella fase di espansione di questo ciclo di accumulazione gli elevati saggi di profitto hanno favorito nella metropoli capitalista la formazione dell'aristocrazia operaia e l'allargamento dei ceti medi tanto che, almeno nei paesi metropolitani, i modelli di vita della piccola-borghesia sono stati fatti propri anche dalla stragrande maggioranza del proletariato assicurando stabilità ed equilibrio al sistema; ora le stesse ragioni che spingono alla svalutazione permanente del valore della forza-lavoro e alla crescita dell'appropriazione parassitaria, impongono una costante riduzione delle quote di plusvalore prima destinate alle attività svolte dalla piccola borghesia e all'aristocrazia operaia. L'informatizzazione, inoltre, ha investito anche il lavoro di ufficio e professionale e rese superflue numerose attività legate alla distribuzione. In quella commerciale è addirittura la piccola e media impresa in quanto tale a risultare obsoleta cosicché nel processo di scomposizione e ricomposizione delle classi è ormai prevalente, su scala planetaria, la tendenza alla proletarizzazione della società. Sono così forti queste spinte che, nel vano tentativo di frenarle, vediamo, con sempre maggior frequenza, vasti settori della piccolo borghesia, aderire anche ai richiami più radicali provenienti dalla conservazione (regionalismo, secessionismo, leghismo ecc.) tanto che, soprattutto se la crisi economica dovesse precipitare, non è da escludere un loro utilizzo in chiave apertamente reazionaria. Ma i processi di proletarizzazione insieme a quelli di unificazione delle forme di sfruttamento rappresentano anche le condizioni obbiettive più favorevoli perché una grande forza comunista internazionalista possa vedere la luce e nel suo porsi come sicuro punto di riferimento classista, favorire almeno per una parte di essi l'approdo al polo proletario.

Il problema che ci sta di fronte è definire come e quale contributo può dare una sparuta avanguardia come la nostra affinché il processo di ricostruzione del partito rivoluzionario internazionale esca dalle sabbie mobili in cui è impantanato. Sotto il peso dell'accresciuto sfruttamento il proletariato prima o poi si muoverà.

Milano, 25-27 Aprile 1997

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.