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“Normalizzazione” sindacale in Corea
Il 30 agosto i lavoratori della Hynday nella città di Ulsan hanno respinto per 17.123 voti contro 9.360 la proposta di accordo raggiunta dai sindacati dopo una lunga lotta che li ha visti impegnati nella occupazione dello stabilimento dal 20 luglio al 25 agosto. La richiesta originale della Hynday del taglio di circa 8 mila posti, che aveva scatenato la protesta operaia, è stata ridimensionata con l’accordo di fine agosto a 277 licenziamenti. I lavoratori l’hanno respinta. Non ne conosciamo, al momento, gli ulteriori sviluppi.
Il 3 settembre invece 10 mila poliziotti hanno attaccato a Seul i sit-in di protesta presso sette stabilimenti della Mando Machinery, il maggior produttore di componenti auto in Corea del Sud. I lavoratori, in sciopero dal 17 agosto, manifestavano contro i mille licenziamenti richiesti dalla azienda e contro alcune provocazioni della polizia nei giorni precedenti (arresto di cinque sindacalisti) e la manifestazione era stata indetta dai sindacati stessi.
Lo stato di tensione fra sindacati e governo non deve trarre in inganno. I sindacati avevano firmato nel febbraio di quest’anno un accordo, insieme a governo e padronato, con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) che subordinava il prestito di soccorso alla economia coreana di 58,35 miliardi di dollari al varo di una legge che facilitasse le ristrutturazioni attraverso licenziamenti di massa. Era stato già evidente, a chi guardasse con obiettività di classe, che il sindacato si era mosso come tutti i sindacati nel mondo oggi: con la preoccupazione tutta rivolta verso la sanità della economia nazionale (ovvero del capitale nazionale), nel più sovrano disinteresse per il destino dei lavoratori. Ovviamente l’accordo venne fatto digerire dicendo che i sacrifici sarebbero stati distribuiti. Ora che la legge che ne conseguì viene applicata, e le imprese si sono già liberate di qualcosa come i sindacati fingono di lamentare che invece di distribuirsi, tutti i sacrifici sono scaricati sui lavoratori. In realtà i sindacati, anche lì, si stanno impegnando a contenere, canalizzare la rabbia e la protesta proletaria che naturalmente si leva.
In questo senso possiamo parlare di normalizzazione sindacale: i sindacati che nelle lotte di due anni fa si erano presentati come i radicali difensori degli interessi di classe e per il riconoscimento dei quali centinaia di migliaia di operai erano scesi in piazza e si erano scontrati con la polizia, sono gli stessi che un anno dopo hanno firmato l’accordo capestro e che ora organizzano scioperi farsa per far “scaricare” gli operai mentre la legge taglia-posti sta operando a pieno regime.
Bolivia lotte contro gli aumenti
Il primo ottobre s’è stato sciopero generale in Bolivia contro gli aumenti dei prezzi di acqua, elettricità e telefoni, seguiti ai processi di privatizzazione dei servizi prima pubblici.
Il 2 ottobre a El Alto si è svolta una dimostrazione di protesta di 10 mila persone che ha bruciato l’effige del capo dell’Ente Elettrico che ha appoggiato le privatizzazioni. La nuova Electropaz è ora in mano a una compagnia spagnola, mentre la Aquas le Illimani è controllata da una compagnia d’origine francese.
Colombia: sindacati in lotta e guerriglia alla trattativa
Dal 30 settembre continuano le mobilitazioni e gli scioperi in Colombia contro gli aumenti dei prezzi dovuto all’introduzione dell’IVA e il proposto aumento generalizzato dei salari di un mero 14 per cento contro il 18,5 per cento di inflazione ufficiale.
Nel momento in cui scriviamo (7 ottobre) è in corso uno sciopero a tempo indeterminato iniziato oggi e indetto dalle tre principali organizzazioni sindacali del paese compresa la Federazione Unitaria dei Lavoratori, guidata dai “comunisti”. I sindacati hanno annunciato una grande manifestazione a Bogotà per il 14 ottobre. Ma già dal 30 settembre sono in sciopero nazionale i lavoratori della Compagnia Elettrica. Nel frattempo il presidente Pastrana sta chiedendo al parlamento la delega piena di poteri quale condizione per imporre il piano “di risanamento economico” da una parte e per trattare dall’altra con la opposizione armata delle FARC (Forze armate rivoluzionari di Colombia) e dell’ELN (Esercito di liberazione nazionale).
È evidente che le ragioni profonde delle lotte operaie (a prescindere dalla loro attuale direzione politica controrivoluzionaria, da parte dei sindacati) da una parte e la guerriglia dall’altra, non hanno nulla in comune.
La crisi globale di ciclo avanza, mordendo più duramente nei paesi della periferia; i proletari mostrano qua e là una propensione alla lotta e che fanno i terribili rivoluzionari armati? Vanno a trattare su chi e come gestire gli “interessi nazionali”.
Sud Africa: tutto come prima
La composizione della forza lavoro del Sudafrica è rimasta invariata dopo tre anni dalla vittoria dell’ANC e di Mandela, secondo un rapporto dell’ufficio statistico nazionale del 6 ottobre, ma la disoccupazione è fortemente aumentata.
Alla fine del 1997 la disoccupazione ufficiale assommava a 2,24 milioni di persone, pari al 23 percento delle forze di lavoro attive. Nel 1994, anno delle elezioni, la disoccupazione era al 20 per cento.
Il tasso di disoccupazione dei neri è otto volte più alto di quello dei bianchi” ha detto il capo dell’Ufficio statistico, Mark Orkin
Il rapporto, che è il primo del genere in Sudafrica, non indica se e quali variazioni ci siano state nella distribuzione della disoccupazione, ma la cosa è per noi di minor interesse. Quel che conta è che la disoccupazione complessiva (e ufficiale) è aumentata. La fine dell’apartheid non ha minimamente segnato un miglioramento della condizione di classe. Proletari neri e bianchi erano sfruttati allora, e ancor più lo sono adesso. Le libertà civili contano ben poco se la crisi del sistema economico nel quale le si vuol concepire - invariato rispetto al passato razzista - implica disoccupazione e fame.
Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #10
Ottobre 1998
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