Il petrolio e la guerra imperialista

Nella lotta per il controllo del petrolio non c'è ragione che possa giustificare l'appoggio da parte del proletariato a qualcuno dei contendenti. In Serbia come in Iraq, in Europa come negli Stati Uniti l'unica pratica antimperialistica possibile è il disfattismo rivoluzionario.

La volontà statunitense di impedire che i paesi della Comunità europea si diano, oltre alla moneta, anche un apparato militare e una politica estera comuni; quella di estendere la Nato ai paesi dell'Est europeo e relegare definitivamente la Russia al ruolo di pura comparsa; le contraddizioni fra i paesi dell'Euro e la loro comune necessità di non essere tagliati fuori da un'area di importanza geostrategica e l'aspirazione serba a svolgere in essa un ruolo da potenza sub-regionale sono sicuramente tutte ragioni che hanno pesato non poco sulla decisione della Nato di attaccare la Serbia, ma probabilmente sia se prese singolarmente che nel loro insieme non sarebbero mai state sufficienti a scatenare i bombardamenti se a esse non si fosse aggiunta la lotta per il controllo del petrolio.

Attraverso i Balcani, infatti, con opportuni oleodotti e gasdotti, attraversando la Serbia e il previsto canale Reno/Danubio, è possibile trasportare il prezioso combustibile direttamente dal Caucaso, (in particolare dal Kazakistan, accreditato di una potenzialità estrattiva di oltre 700 mila barili al giorno) fino nel Mar del Nord e, attraversando il Kosovo, direttamente nel bacino del mediterraneo consentendo ai paesi europei di poter fare a meno delle forniture mediorientali.

In apparenza ciò sembra dare ragione a chi sostiene che questa guerra, come quella del Golfo, corrisponda all'esigenza degli Usa e di tutti gli altri paesi industrializzati dell'Occidente di disporre di petrolio e di gas a costo zero e in quantità illimitata per cui per indebolire il fronte dell'imperialismo non c'è altro da fare che schierarsi con la Serbia o con l'Iraq anche se trattasi di paesi altrettanto capitalistici quanto quelli che li attaccano.

Al di là del fatto che anche se le cose stessero così ci sarebbe lo stesso molto da discutere sulla coerenza rivoluzionaria di una simile tesi, l'assunto secondo cui da una parte gli Stati Uniti e tutto l'insieme dei paesi industrializzati dell'occidente sono accomunati dall'interesse di mantenere basso il prezzo del petrolio e i paesi produttori da quello opposto, è del tutto incongruente con i dati che ci vengono offerti dalla realtà. Se prendessimo per buona questa tesi, infatti, le guerre per il petrolio che si sono succedute nel corso degli ultimi trenta anni resterebbero del tutto inspiegabili visto che gli Stati Uniti e i paesi occidentali avrebbero potuto raggiungere il loro scopo senza che sparassero anche un solo colpo di fucile. Per una serie di ragioni, a cominciare dalla colossale crisi debitoria che assilla sin dai primi anni Ottanta i paesi produttori e li costringe a immettere quantità crescenti di petrolio sul mercato, per finire con il ristagno del ciclo economico mondiale, il petrolio oggi abbonda come mai in passato tant'è che il suo prezzo ha raggiunto, prima dell'attacco Nato alla Serbia, il minimo storico degli ultimi ventidue anni e potrebbe scendere ancora molto al di sotto dell'attuale prezzo, che è di circa dieci dollari al barile, se solo si consentisse, per esempio, all'Iraq di vendere liberamente il suo visto che insieme a quello saudita è fra quelli con un costo di estrazione fra i più bassi del mondo (circa 4 dollari al barile).

Similmente, inspiegata e inspiegabile resterebbe, per esempio, la posizione della Gran Bretagna che in quanto paese produttore con un costo di estrazione fra i più alti al mondo, dovrebbe avere tutto l'interesse a mantenere i prezzi piuttosto elevati e quindi a schierarsi contro gli Stati Uniti e invece è sempre con essi in prima fila a bombardare a destra e a manca. E contraddizioni simili non mancano neppure nel fronte dei paesi produttori. L'Arabia Saudita, per esempio, proprio in questi giorni ha minacciato ferro e fuoco per costringere i paesi membri dell'Opec ad accettare una riduzione delle rispettive quote di mercato allo scopo di favorire il rialzo del prezzo; eppure è uno degli alleati più fedeli degli Stati Uniti che invece secondo la tesi in discussione hanno un interesse opposto. In realtà è vero invece che gli Usa hanno da molti anni a questa parte lo stesso interesse della Gran Bretagna e dell'Arabia Saudita e cioè un prezzo del petrolio più alto di quello che si avrebbe senza i loro interventi armati.

In un mercato come quello del petrolio in cui il costo di estrazione, e quindi il prezzo di produzione, sono influenzati da molti fattori naturali, il prezzo per il quale si realizza il massimo profitto è diverso da zona a zona per cui non è affatto detto che un prezzo altissimo comporti per tutti i produttori gli stessi vantaggi; è molto probabile invece che un prezzo elevato, inducendo una riduzione della domanda, determini una contrazione dei profitti dei produttori che hanno un prezzo di produzione più basso e maggiori potenzialità produttive. Per ogni produttore c'è insomma solo un prezzo per il quale il profitto risulta massimizzato, quindi solo con un grande sforzo di fantasia è possibile immaginare i paesi produttori come un blocco accomunato dal medesimo interesse. Altresì per i paesi consumatori le conseguenze delle variazioni del prezzo del petrolio variano a seconda della loro diversa potenza industriale e soprattutto finanziaria.

A meno che non si pensi che a Riad, a Londra e a New York non abbiano mai letto un manuale di economia e non conoscano neppure la legge della domanda e dell'offerta da queste evidenti incongruenze non possiamo non dedurre che l'importanza del controllo petrolio e delle sue vie va ben oltre il semplice rifornimento a basso prezzo.

L'interesse per il petrolio, in quanto materia prima indispensabile in quasi tutti i processi produttivi, ovviamente, rimarrà sempre, ma già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, con la nascita sulla piazza di Londra del mercato off-shore dei cosiddetti petrodollari, il mercato del petrolio è diventato il primo vero mercato finanziario "globale" e il suo prezzo uno e fra i più importanti parametri macroeconomici dell'economia mondiale. Con il prezzo del petrolio interagiscono i tassi di interesse, il mercato dei cambi, il finanziamento del debito, la bilancia commerciale, la bilancia dei pagamenti di tutti i paesi del mondo. Il suo controllo consente quindi di stare al centro di tutti i processi di produzione e di tutte le forme di appropriazione del plusvalore e, fra queste ultime, in particolar modo di quelle che si basano sulla produzione e la circolazione del capitale fittizio.

Per chi occupa questa posizione il problema è di individuare in relazione all'andamento del proprio ciclo economico e di quello dei suoi concorrenti, il prezzo per il quale di volta in volta la rendita finanziaria risulti ottimizzata; vitale è quindi il controllo delle oscillazioni dei prezzi non un prezzo che tende costantemente al ribasso. Se per gli Stati Uniti (nella cui valuta si esprime il mercato del petrolio e gran parte del commercio e della finanza internazionali), per esempio, la rendita finanziaria risulta, in relazione al deficit della bilancia commerciale e alla necessità di contenere i tassi di interessi, ottimizzata con un dollaro sopravvalutato, allora è quasi certo che il loro interesse sarà per un rialzo del prezzo del petrolio e viceversa nel caso che l'andamento del ciclo economico determini la necessità di soddisfare altri parametri macroeconomici.

È sbagliato e completamente falso ritenere dunque che gli Stati Uniti abbiano, e con loro allo stesso modo tutti gli altri paesi occidentali, un comune interesse a disporre sempre e solo di un petrolio a "costo zero" e in quantità illimitate e tutti all'unisono si comportino di conseguenza. È davvero difficile immaginare che l'apertura di una via che consentirebbe di trasportare il petrolio dal Caucaso al Mar del Nord e nel bacino del Mediterraneo saltando a piè pari tutto il Medioriente e il Golfo Persico, avrebbe per tutti le stesse conseguenze. È più probabile invece che essa favorendo lo nascita e lo sviluppo di un mercato del petrolio espresso in "petroeuro", potrebbe condurre al rimescolamento di tutte le attuali alleanze in cui non solo gli Stati Uniti e L'Europa (intesa come area euro) andrebbero difficilmente d'accordo, ma anche i paesi produttori sarebbero spinti a seconda dell'area valutaria in cui i loro investimenti finanziari trovano la migliore remunerazione a rivedere la loro collocazione e a dividersi fra loro come e più di quanto non lo siano già oggi.

Nel mondo moderno un forte apparato industriale, il controllo o il possesso delle materie prime restano pilastri insostituibili del dominio imperialistico; ma se non si possiedono anche gli strumenti che consentono di controllare e interferire con i processi di formazione e ripartizione della rendita finanziaria si è ineluttabilmente destinati alla decadenza e alla emarginazione economica. È dunque l'appropriazione parassitaria di plusvalore il motore della guerra imperialistica; per fermarla, dunque, non c'è altro modo che tentare di incepparlo con il rilancio su scala internazionale della lotta di classe per cui in Serbia come in Iraq, in Europa come negli Stati Uniti l'unica pratica antimperialistica possibile è quella del disfattismo rivoluzionario

GP

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.