Wall Street e la New economy hanno fatto boom!

Nuovi attacchi si annunciano alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato

Lo scorso anno di questi tempi la marcia trionfale del Nasdaq, l'indice di borsa della cosiddetta New Economy, era l'argomento del giorno. Si scrivevano perfino libri per dimostrare che si era in presenza di nuove forme di produzione della ricchezza che i tradizionali sistemi econometrici non erano in grado di rilevare e che il mercato, invece, aveva scoperto in anticipo. A marzo, quando l'indice cominciò a scendere, si parlò di un calo fisiologico, dell'inevitabile aggiustamento dei prezzi dei titoli azionari in ragione del reale valore delle imprese così come il solito infallibile dio mercato andava decretando man mano che la naturale selezione operata dalla concorrenza separava il grano dal loglio ovvero le imprese sane da quelle malate o costituite a scopo esclusivamente speculativo.

I ritmi di crescita del Pnl statunitense, che le statistiche ufficiali valutavano intorno al 5,5 - 6%, sembravano, peraltro, non lasciare adito a dubbi visto che le sole spese per gli acquisti di computer e del relativo software contribuiscono per più di un terzo alla crescita reale del Pnl.

La concomitante svalutazione dell'Euro, voluta dalle autorità monetaria europee, ma attribuita a una presunta scarsa produttività del sistema "Europa" come conseguenza di un'eccessiva rigidità del mercato del lavoro che impediva al di qua dell'Atlantico un'equivalente crescita della New Economy, dava ulteriore credibilità alla tesi che negli Stati Uniti era stata trovata la formula magica della crescita inarrestabile e illimitata.

Ma dal marzo dello scorso anno a oggi, l'indice Nasdaq ha perduto più del 50%. In un solo giorno ha perduto il 14% e il crollo verticale si è arrestato solo perché Greenspan, il presidente della Federal Reserve, ha ridotto in due giorni di un punto e mezzo il tasso di sconto, cosa mai accaduta in precedenza. Nonostante quest'intervento straordinario della Fed, la tendenza al ribasso non si è invertita e anche se per ora è stato evitato il crollo verticale, sia il Nasdaq sia il Dow Jones continuano giornalmente a registrare perdite significative e ormai di New Economy e di nuovi parametri macroeconomici non parla più nessuno. Che dietro quel boom vi fosse una grossa bolla speculativa alimentata sia dall'interesse degli Stati Uniti a mantenere alte le quotazioni del dollaro per finanziare più agevolmente il deficit della loro bilancia commerciale e lo stratosferico indebitamento interno e sia da quello degli europei a un euro basso per favorire le loro esportazioni, è cosa ormai acclarata.

In verità, il campanello d'allarme che l'equilibrio che rendeva possibile la convivenza del dollaro forte con l'euro debole era già suonato sul finire dell'estate scorsa quando la bilancia commerciale dell'insieme dei paesi dell'euro, e in particolare della Germania, nonostante la continua crescita delle esportazioni, fece registrare un consistente passivo a causa dell'eccessiva svalutazione dell'euro conseguente al rialzo dei prezzi del petrolio e alla restrittiva politica monetaria della Fed.

A questo punto, gli europei che fino ad allora avevano fatto finta di nulla, improvvisamente si accorsero che gli Stati Uniti falsificavano i dati statistici avvalendosi, nella determinazione dei tassi di crescita del Pnl, del cosiddetto hedonistic pricing, un sistema di rilevazione statistico che consente di includere nella determinazione del Pnl, per esempio, oltre al valore dei computer effettivamente prodotti e venduti anche i loro miglioramenti di potenza.

Nel suo rapporto mensile dello scorso settembre, la Bundesbank rendeva noto che se anche la Germania e/o i paesi dell'euro avessero adoperato un sistema di calcolo simile, il confronto fra i tassi di crescita dei rispettivi Pnl avrebbe riservato non poche sorprese e accusava, più o meno esplicitamente, la Federal Reserve di falsificare i dati sul reale andamento dell'economia statunitense per attrarre dal resto del mondo i capitali necessari al finanziamento del loro doppio deficit e a sostenere sia i corsi di Wall Street sia quelli del dollaro.

Peraltro, negli Usa specularmente a quanto accadeva in Europa con l'euro debole, la politica degli alti tassi necessaria per mantenere alte le quotazioni del dollaro insieme all'incremento ormai stratosferico dei costi energetici, stava stremando l'industria nazionale troppo esposta alla concorrenza internazionale. La speranza era di poterle restituire competitività senza interrompere il flusso di capitali proveniente dall'estero (cosa che avrebbe potuto dare il via una crisi di insolvenza generalizzata con gravi conseguenze sull'intero sistema creditizio statunitense e mondiale), abbassando gradualmente i tassi di interesse.

I dati relativi all'occupazione (nel corso del 2000 sono stati persi oltre 650 mila posti di lavoro di cui più di 150 mila solo nell'ultimo mese dello scorso anno), all'andamento dei consumi e al rallentamento dell'edilizia, nel mese di dicembre hanno fatto svanire ogni illusione. Il cavallo è talmente stremato che avrebbe bisogno di una riduzione dei tassi ben più consistente di quelle fin qui effettuate dalla Federal Reserve, ma la cosa è tutt'altro che semplice. Nonostante permanga fra i tassi statunitensi e quelli europei un differenziale di 1,25 punti, in poco più di un mese, l'euro ha recuperato rispetto al dollaro circa il 15 per cento del suo valore e, secondo alcune previsioni, nel giro di un mese o due è destinato a raggiungere la parità. È evidente, pertanto, che i tassi di interesse statunitensi non possono scendere ancora di molto senza una corrispondente discesa di quelli europei o senza che il flusso di capitali provenienti dall'estero cambi strada o addirittura s'interrompa. D'altra parte, il prezzo del petrolio i cui rialzi sono sempre serviti a mantenere i tassi di interesse statunitensi più bassi di quanto avrebbero dovuto essere, sembra essersi assestato sui 24 - 25 dollari al barile e non si vede come possa crescere ancora visto che ormai, a causa degli acquisti speculativi dei mesi scorsi, ve ne sono scorte in ogni angolo del mondo e l'offerta supera di gran lunga la domanda.

Per il momento la Bce, la banca centrale europea, sta a guardare forte del fatto che i suoi attuali tassi di interesse e gli attuali prezzi del petrolio garantiscono un buon attivo della bilancia commerciale europea. Ma anche per essa non si annunciano sonni tranquilli; infatti, se la crisi negli Usa si dovesse aggravare è molto probabile che le esportazioni, che dalle diverse parti del mondo e in particolare paesi dal Sudest asiatico, ora si riversano in America, poi si riverserebbero sul mercato europeo rimettendo così in discussione gli equilibri macroeconomici appena riconquistati. L'Europa, infatti, non avendo un'economia strutturata sul deficit della bilancia commerciale, non può sostituirsi agli Stati Uniti, se non in misura molto ridotta e/o rinunziando all'appropriazione di quote significative della rendita finanziaria prodotta su scala internazionale e necessaria per integrare i bassi saggi di profitto industriali.

In un contesto simile è facile prevedere una fase di grande instabilità per tutta l'economia mondiale e il riacutizzarsi di tutte le tensioni interimperialistiche insieme a nuovi attacchi alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato internazionale.

In America, il neo presidente Bush ha già annunciato tagli ai già scarsi sussidi ai disoccupati e un'ulteriore riduzione della copertura sanitaria con lo scopo di spingere i disoccupati a cercare lavoro a qualunque salario. In Europa, non c'è partito che non abbia nel suo programma la deregolamentazione del mercato del lavoro e non si proponga di fare come in America. In Asia, si sa che tutto questo c'è già e in Africa non c'è neppure questo. E pensare che solo qualche mese fa secondo le previsioni degli economisti borghesi, questo doveva essere il secolo del trionfo del benessere e della pace.

gp

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.