Globalizzatori e globalizzati a braccetto - Il doppio gioco del riformismo

L'ideologia riformista - come qualsiasi altra espressione ideologica - benché viva nel mondo delle idee, affonda le sue radici nei materiali rapporti di classe, esprimendo la visione del mondo (in ultima analisi: gli interessi) di determinati strati e classi sociali. Inoltre, ha le sue ricadute sulla struttura della società ossia, col tempo, diventa essa stessa una forza materiale che concorre a trasformare, o comunque a influenzare, la realtà; non solo, in un certo senso, vive di vita propria, cioè non scompare di colpo col venir meno delle condizioni storiche che l'hanno prodotta, ma, a volte, proprio allora sembra acquisire una rinnovata vitalità, quasi a voler smentire l'interpretazione materialistica dei fatti sociali. Invece, solo chi utilizza in modo goffo e approssimativo gli strumenti del materialismo storico può cadere in questo abbaglio, dato che la realtà, a saperla ben guardare, conferma pienamente il metodo di analisi che abbiamo fatto nostro e, quindi, la nostra prassi politica.

Esempio lampante di queste considerazioni è la crescita in ogni parte del mondo dei movimenti anti-globalizzazione, che, come abbiamo tante volte sottolineato (anche in questo numero del giornale), si caratterizzano per un'impostazione teorico-pratica nettamente riformista; ciò vale sia per i gruppi più dichiaratamente moderati, sia per quelli verbalmente più radicali e meno propensi - per così dire - a lasciarsi impressionare dagli imponenti concentramenti di polizia schierati a difesa dei summit internazionali. Infatti, nonostante le apparenze, la teoria (e la pratica) riformista è un "filo d'Arianna" che attraversa e lega tanto i "pacifisti" quanto gli "arrabbiati", su su fino alle aule parlamentari e, addirittura, alle stanze del potere politico. Per rendersi conto che non stiamo affatto esagerando, basterebbe fare mente locale alle manifestazioni di simpatia o, comunque, d'interesse, che Rifondazione Comunista riserva a Jospin, capo del governo francese e faro di quella "sinistra plurale" che, in un modo o nell'altro, è un punto di riferimento per il partito di Bertinotti & Co. Ma anche il Manifesto, cassa di risonanza del riformismo nostrano e internazionale - quindi del "popolo di Seattle" - considera il borghesissimo primo ministro francese un interlocutore privilegiato, tanto da riservargli uno discreto spazio sul numero di luglio della Rivista del Manifesto. Lasciando da parte questo saggio, per altro molto interessante perché può essere legittimamente considerato il manifesto dell'imperialismo europeo, prendiamo in considerazione un articolo, pubblicato dal Manifesto del 20 giugno, che sintetizza un rapporto sull'evoluzione dell'imposta progressiva sul reddito, in Francia e negli USA, steso da uno dei consiglieri economici di Jospin. La tesi di fondo di questo rapporto, fatta propria da Jospin medesimo (nonché dal Manifesto), è che una forte diminuzione delle imposte sui redditi più alti non solo accresce le disuguaglianze sociali (il che è evidente a tutti, n.d.r.), ma, alla lunga, costituisce un freno per l'economia intera, privandola degli stimoli necessari a migliorarsi, impedendo alle nuove generazioni di imprenditori di farsi strada, in breve, soffocando il dinamismo economico con il rafforzamento delle rendite di posizione dei grandi gruppi e dei grandi patrimoni. A sostegno di questo punto di vista vengono presentati dei dati sull'andamento dell'imposta progressiva sul reddito, nei paesi citati, lungo il XX secolo. Ne risulta che durante certi periodi storici le imposte si sono mantenute su livelli molto alti (addirittura toccavano il 90% negli USA degli anni '40/'50), mentre in altri la tassazione dei redditi più alti diminuiva in modo sensibile. La conclusione dei "nostri" riformisti è che la politica fiscale si basa su "una scelta eminentemente politica" (il Manifesto, cit.), quindi, si suggerisce tra le righe, basterebbe un governo di sinistra, magari "plurale", per invertire questa tendenza, naturalmente nel rispetto più assoluto dei meccanismi basilari del modo di produzione - e di distribuzione - capitalista. Una volta di più il riformismo si pone e si propone come il vero "curatore" degli interessi complessivi della borghesia, mettendo in guardia i singoli borghesi sui pericoli che una scelta fondata su un'eccessiva "ingordigia" individuale può far correre all'intera società. Ora, diamo pure per scontato che un certo margine di discrezionalità possa essere presente nelle scelte di politica economica, un margine entro il quale si muovono eventualmente le componenti "soggettive" delle diverse bande borghesi in base ai mutevoli rapporti di forza. Tuttavia, detto questo, gli indirizzi di politica fiscale non sono mai dettati da pure scelte politiche o, per meglio dire, quelle scelte politiche rispondono alle necessità dettate dalla base economica. È superfluo aggiungere che sono sempre e comunque scelte di classe, volte cioè alla difesa esclusiva degli interessi della borghesia e meno che mai dei "cittadini" genericamente intesi.

Il riformismo, invece, con la sua classica visione rovesciata del mondo, pensa che la politica preceda e determini l'economia, così che la relazione tra imposizione fiscale e andamento economico appare capovolta. Da almeno vent'anni a questa parte, in ogni angolo del mondo, la tassazione sui capitali e sulle rendite parassitarie è progressivamente calata, ma non perché la borghesia sia diventata improvvisamente più taccagna o perché le "destre" siano andate al governo - tant'è che governi di sinistra si muovono nella stessa direzione - bensì perché l'abbassamento delle imposte sui grandi capitali è un tentativo, tra gli altri, di frenare la caduta tendenziale del saggio del profitto, il cancro che corrode alle fondamenta il capitale. I dati riportati da Manifesto sono dunque illuminanti, sì, ma solo se non vengono letti con l'ottica rovesciata e deformante del riformismo. Infatti, c'è una forte coincidenza tra l'andamento dell'imposta progressiva sul reddito e le fasi di crisi storica del capitale. Negli USA degli anni '40/'50 quell'imposta era molto alta, ma anche il saggio di profitto lo era, e l'economia americana era lanciata a tutto vapore grazie alla II guerra mondiale e alla guerra di Corea. Allo svolto degli anni '60, cioè ai primi segnali rallentamento, è proprio il democratico Kennedy - il "sogno americano" fatto persona - a progettare i tagli alle tasse sui grandi patrimoni e il rilancio della spesa pubblica con la guerra del Viet Nam, messi poi in atto concretamente dal suo successore Johnson. Ma né l'abbassamento delle aliquote fiscali né i massicci finanziamenti statali alle industrie (in primo luogo a quelle del settore militare) cioè la politica keynesiana, poterono impedire il manifestarsi della crisi del ciclo di accumulazione con la rottura degli accordi di Bretton Woods decisa dall'amministrazione Nixon. Da allora, c'è stata appunto una costante e progressiva discesa dell'imposta sui redditi più alti, ma ciò non è bastato e non basta a risolvere i problemi di fondo dell'economia americana e internazionale, che, al contrario, si sono aggravati. La crescita statunitense degli anni '90, oltre a essere in gran parte un bluff, si basa in ogni caso sullo strapotere imperialistico (finanziario e militare) americano, cioè su una condizione di privilegio che Europa e Giappone non possono, per il momento, vantare. Naturalmente, come dicevamo più su, anche in Europa - per rimanere nella metropoli del capitale - i vari governi hanno sostanzialmente adottato la medesima politica fiscale, si chiamino essi Thatcher o Blair, D'Alema o Berlusconi, Juppé o Jospin. Già, anche quest'ultimo che, lo ricordiamo in chiusura, ha la faccia tosta di scrivere che occorre imboccare una politica economica "al servizio della solidarietà sociale" (La Rivista del Manifesto, n.19/2001), ha deciso di ritoccare di nuovo al ribasso i tassi di prelievo fiscale sui grandi patrimoni (il Manifesto, cit.).

Insomma, mentre Rifondazione, il Manifesto con Tute Bianche e affini mobilitano le masse su parole d'ordine di ridistribuzione del reddito e della ricchezza, contemporaneamente vanno a braccetto (criticamente, ci mancherebbe altro...) con chi la ricchezza la ridistribuisce, sì, ma sempre verso l'alto.

Oggi, queste considerazioni circolano solo in ambienti molto minoritari, ma quando cominceranno a diventare patrimonio comune del "popolo di sinistra" (e non solo), il riformismo dovrà guardare preoccupato i giorni che verranno.

cb

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.