Afghanistan crocevia degli scontri imperialisti

Il dito e i missili indicano Kabul, ma la luna è un'altra

L'incredibile è successo, i templi del potere economico e politico americani sono stati profanati. Tremende le immagini, migliaia i morti. Tra le vittime non solo i simboli del potere: uffici commerciali, sedi bancarie e finanziarie, prestigiose residenze di corporations e di multinazionali, ma anche molti lavoratori. Impiegati, commessi, addetti alla manutenzione, camerieri, operai e vigili del fuoco. Chi sia stato non lo possiamo sapere, e forse, non lo sapremo mai. Una sola cosa è certa, che le indagini si sono immediatamente orientate verso la primula nera dell'integralismo islamico Osama Bin Laden, la sua organizzazione militare Al Qaeda ed il governo talebano dell'Afganistan che da anni lo ospita. Altrettanto certa la determinazione americana nel combattere con una lotta senza quartiere non soltanto le centrali del terrorismo, ma anche tutti quei governi che direttamente o indirettamente lo hanno favorito o coperto. Se così fosse, il primo governo ad essere incriminato dovrebbe essere proprio quello americano. I suoi servizi segreti hanno armato, finanziato e politicamente legittimato i maggiori "terrorismi" internazionali, Da quello ceceno e daghestano in chiave anti russa, a quello dell'Uck in Kossovo e Macedonia in chiave anti iugoslava prima e tedesca poi. Gli stessi Talebani e Osama Bin Laden sono rimasti sul libro paga della Cia sino al 1988, anno in cui, per le modificazioni strategiche nell'area, si è puntato al loro rovesciamento e all'incondizionato appoggio della Alleanza del nord del recentemente ucciso generale Massud che, precedentemente, veniva considerato come il nemico numero uno degli Usa in Afganistan, ma questo è un altro discorso che ci porterebbe troppo lontano.

Che Bin Laden, con la partecipazione del governo talebano, sia il responsabile degli attentati alle torri di New York e al Pentagono può essere. Che tra le pieghe dell'attento terroristico si possa intravedere una qualche corresponsabilità del governo americano, troppi sono i "buchi neri" della vicenda, dalla mancata presa in considerazione di un avviso di possibili attentati fornita dal Mossad, allo spaventoso ritardo con il quale si è messa in moto la macchina difensiva americana, 18 minuti tra il primo dirottamento sulla torre nord e il secondo, ben mezz'ora tra i primi due attentati e quello sul Pentagono, poco conta; la pista afgana era già stata tracciata, almeno dal 1998. I tragici avvenimenti hanno presentato su di un piatto d'argento la possibilità per il governo americano di giustificare la necessità di un intervento militare nei confronti di quei personaggi e di quel paese che hanno enorme importanza strategica nello scenario del petrolio caspico. Nulla di nuovo che già non si sapesse, se non che la crisi economica che attualmente mina l'economia americana, al pari di quella giapponese e tedesca, sta rendendo la normale competizione tra imperialismi forti e assestati (Usa) e in via di aggregazione (Europa), più intensa e cattiva. È nelle leggi del capitalismo che, quando le crisi economiche mettono in discussione i meccanismi di valorizzazione del capitale, l'aggressività aumenta sino ad inscenare episodi di guerra e di prevaricazione. In gioco c'è il controllo del petrolio caspico alla fonte in Kazachistan e il suo trasporto via pipe line verso l'oceano indiano. Il percorso, secondo le aspettative americane deve passare attraverso i territori del Turkmenistan, Afganistan e Pakistan, evitando il "nemico" Iran, così come l'altra pipe line, che da Tengiz in Kazachistan arriverà in Turchia (il progetto dopo la guerra del Kosovo è in via di attuazione) evitando il territorio russo. In un primo momento la strategia americana aveva puntato sul governo dei Talebani, poi considerando le difficoltà di questo governo a estendere su tutto il territorio la sua influenza politica, un quinto del paese era sotto il controllo delle truppe di Massud, il crescente isolamento a livello internazionale, l'inaffidabilità politica dei seguaci di Omar, hanno fatto scorrere di 360 gradi le lancette del quadrante politico afgano. Gli alleati di ieri sono diventati nemici, e i nemici della Alleanza del nord del generale Massud sono diventati degli ottimi alleati.

Il vero obiettivo, quindi, non è Osama Bin Laden, la sua rete terroristica internazionale (tanto coccolata e finanziata ai tempi della guerra contro l'Urss), e il governo dei Talebani che gli ha dato rifugio e ospitalità, ma il controllo del petrolio e l'esclusione di Russia ed Europa di ogni forma di ingerenza. Lo scenario di crisi internazionale ha imposto all'imperialismo americano la strada più breve e più violenta. Un monito di guerra a tutti quei regimi dell'area che non avessero capito bene come stanno le cose, e un avviso ai patners occidentali che anche il petrolio caspico, oltre a quello del Golfo, è di competenza americana. Si configura una guerra, indipendentemente da come verrà combattuta contro l'Afganistan, che ha il suo referente primo al di là dell'oceano atlantico, l'Europa e, per legge transitiva, la Russia che non ha mai rinunciato a rivendicare un suo ruolo nello sfruttamento e nella gestione del petrolio caspico in virtù di una sorta di prelazione nei confronti di un suo antico possedimento e a causa di una crisi devastante che ancora opera nella economia russa dopo il crollo dell'Unione sovietica. Il dito e i missili indicano l'Afganistan ma la luna è rappresentata dallo scontro tra Usa, Russia ed Europa sia sul terreno petrolifero, inteso come materia prima energetica, che su quello finanziario e monetario della rendita petrolifera, cioè se deve essere espressa ancora in dollari, in Euro o in rubli come sino a dieci anni fa. Non a caso il governo di Washington, dopo aver chiamato gli alleati della Nato a ratificare le sue intenzioni belliche nell'area asiatica come necessaria operazione di polizia contro il terrorismo integralista di Bin Laden, dopo aver invocato l'applicazione dell'articolo 5 dello statuto Nato, nel quale si recita che l'attacco a uno dei paesi membri configura un attacco alla sicurezza di tutti, ha tenuto a precisare che avrebbe fatto tutto da sé, come se la cosa riguardasse solo gli Stati Uniti e non gli alleati competitori.

Come dire che, una volta ricevuto l'avallo all'intervento militare, tempi e modi, ma soprattutto gli obiettivi strategici del conflitto, saranno di esclusiva pertinenza degli Usa. Al massimo il governo americano potrà accettare la presenza di truppe inglesi, la rappresentanza formale di qualche paese aderente alla Nato, ma null'altro che non sia l'uso delle basi militari e il consenso al sorvolo aereo degli spazi interessati. Le operazioni militari infatti, nonostante le sciocchezze che si sono dette: uso della bomba atomica, impiego di forze di terra su di un terreno che non le consente, bombardamenti a tappeto come contro l'Iraq, saranno improntate alla massima prudenza. L'obiettivo è quello di scalzare il governo dei Talebani sostituendolo con uno allineato e più affidabile nelle prospettive future. Per questo è sufficiente armare e sostenere l'Alleanza del nord che, nel momento in cui scriviamo, è già entrata in azione e si sta attestando alla porte di Kabul. Il secondo obbiettivo, in termini cronologici ma non strategici, è quello di creare una sorta di bastione difensivo degli interessi americani che prevede l'alleanza con tutti quei paesi che si trovano attorno ai giacimenti petroliferi e lungo il percorso dell'oleodotto. Sarà una azione di livello politico, di intelligence dei servizi segreti, senza escludere le maniere forti qualora le circostanze lo richiedessero. L'area interessata va dal Kazachistan al Pakistan lambendo il Kirghisistan e il Tagikistan come copertura ad est nei confronti della Cina. Il progetto americano è quello di stabilire una fitta rete di alleanze a copertura dei suoi interessi, esattamente come ha fatto con Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi uniti, Egitto, Giordania e Turchia a difesa della gestione del petrolio del Golfo. In questo caso non vale la mossa tattica di annientare un regime, come quello di Saddam Hussein, e di mantenerlo in piedi per usarlo come scusa di altri interventi nelle situazioni opportune, ma di liberarsi di un governo assolutamente inconciliabile con le strategie dell'area.

Chi pagherà le manovre dell'imperialismo americano saranno quelle decine di milioni di diseredati che hanno la sfortuna di trovarsi sul percorso di questi interessi. Milioni di Afgani, ma anche Pachistani, Tagichi e Chirghisi potranno patire la fame, più di quanta non ne abbiano già, subire le conseguenze di migrazioni bibliche, di deportazioni e di morte per fame e malattie.

F.D.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.