Alla radice di un fallimento - Un'economia nella morsa del debito e del dollaro

La crisi economico-finanziaria dell'Argentina è esplosa in tutta la sua drammaticità lo scorso dicembre. Un paese che potenzialmente potrebbe essere tra i più ricchi del pianeta è stato letteralmente affamato dalla criminale logica del profitto. Milioni di proletari argentini in tutte le città del paese hanno preso d'assalto negozi e supermercati per non morire di fame, riproponendo nel nuovo millennio scene che il capitalismo pensava di non dover più offrire. Si può morire di fame non solo in Africa, in India e in tanti altri angoli del pianeta ma anche in un paese a media industrializzazione come l'Argentina.

La crisi economico-finanziaria argen-tina ovviamente non è un fulmine a ciel sereno nel panorama del capitalismo mondiale ma è solo l'ultimo episodio di una lunga catena di fallimenti di interi paesi. Solo per ricordare i casi più recenti ed eclatanti, negli ultimi anni il primo paese a subire un vero e proprio tracollo economico è stato il Messico, nel dicembre del 1994, una crisi che ha trascinato nel baratro l'intero continente sudamericano (il cosiddetto effetto tequila), poi nel 1997 le tigri asiatiche e via via Russia, Brasile e Turchia. Le conseguenze sociali di tali crisi sono state drammatiche, con milioni di proletari letteralmente scaraventati nella fame più nera.

A differenza degli altri paesi colpiti dalle precedenti crisi, l'Argentina non può essere accusata dal Fondo monetario internazionale di non aver seguito le ricette neo-liberiste prescritte essendo stato in questi ultimi anni il più fedele osservatore delle indicazioni provenienti dagli istituti finanziari mondiali. Per comprende fino in fondo la crisi argentina è opportuno soffermarsi sulla politica economica negli ultimi quindici anni. Dopo la fine della dittatura militare nel 1983 l'Argentina vive una fase congiunturale con un'inflazione che in alcuni momenti ha superato addirittura il 5000%. Fenomeno inflattivo che si origina negli Stati Uniti quando i tassi d'interesse fissati dalla Federal Reserve portano il dollaro a rivalutarsi nei confronti di tutte le altre monete, in particolar modo di quelle dei paesi latinoamericani.

Nella seconda metà degli anni ottanta l'economia dell'America Latina ed in particolare dell'Argentina è stata colpita da una gravissima recessione economica che ha contratto il prodotto interno lordo dell'1,5%; per l'Argentina la caduta del Pil è stata addirittura del 6,2%. Crollo della produzione e iperinflazione sono state due miscele esplosive che hanno letteralmente affamato il proletariato argentino e latino americano in genere.

Agli inizi degli anni novanta la borghesia argentina per frenare l'inflazione e tutelari gli interessi del grande capitale finanziario cambia radicalmente la propria politica economica. Con l'elezione alla presidenza della repubblica di Carlos Menem e la nomina a ministro dell'economia di Domingo Cavallo, la borghesia argentina intraprende la strada della dollarizzazione dell'economia introducendo il sistema del "currency board". Con una legge costituzionale si è stabilito che il valore del peso argentino è pari ad un dollaro statunitense. Per garantire la parità della moneta argentina con il biglietto verde la banca centrale ha assunto l'impegno a detenere nelle proprie casse tanti dollari quanti sono i pesos circolanti sul territorio nazionale.

Secondo i progetti della borghesia argentina la stabilizzazione monetaria avrebbe dovuto favorire l'afflusso di capitali stranieri, con i quali ristrutturare l'obsoleto apparato produttivo. Per mantenere l'equilibrio finanziario bisognava bilanciare l'afflusso di capitale finanziario dall'estero con un aumento delle esportazioni e con i proventi derivanti dalla privatizzazione di tutte le attività produttive pubbliche. Nonostante l'Argentina in questi anni sia stata letteralmente invasa da una massa di capitale finanziario dall'estero, pochissimi sono stati gli investimenti destinati alle attività produttive. I capitali sono confluiti in Argentina non per essere investiti nelle attività produttive ma esclusivamente per essere investiti in borsa o in titoli di stato i quali garantivano tassi d'interesse di gran lunga più remunerativi rispetto a quelli dei paesi europei a degli Stati Uniti. Se nello schema della borghesia argentina le esportazioni avrebbero dovuto costituire una voce importante per l'equilibrio finanziario del paese nella realtà si sono via via ridotte nel corso del decennio. La parificazione del peso con il dollaro ha reso le esportazioni argen-tine sempre meno competitive nei paesi dell'America latina. Infatti, a causa della rivalutazione del dollaro le merci argentine sono diventate sempre più care sui mercati internazionali. Se a tutto ciò aggiungiamo che la crisi messicana e quella del Brasile ha ridotto di molto il potere d'acquisto dei due maggiori partners commerciali dell'Argentina, si può benissimo immaginare come le esportazioni siano crollate negli ultimi anni. La perdita di competitività delle merci argentine non è stata recuperata con un incremento della produttività in quanto la ristrut-turazione dell'apparato produttivo non è in realtà mai partito.

La parità tra la moneta argentina e il dollaro se da un lato ha effettivamente ridimensionato il fenomeno inflattivo, dall'altro lato ha prodotto l'inde-bitamento dell'intero sistema argentino. Alla fine del 2000 l'indebitamento totale del paese (stato, provincie e settore privato) superava i 200 miliardi di dollari. Il pagamento degli interessi ha provocato un indebitamento ancora maggiore, poiché l'Argentina è ormai costretta a chiedere in prestito capitali per pagare gli interessi del proprio debito. In una prima fase l'indebitamento è stato onorato grazie ai proventi derivanti dalle privatizzazioni delle imprese pubbliche e con una fortissima contrazione del costo del lavoro e un drastico taglio allo stato sociale. Interi settori produttivi sono stati di fatto svenduti dallo stato argentino a imprese straniere, le quali hanno realizzato nel corso di anni profitti per miliardi di dollari. In Argentina tutto è stato privatizzato, dall'industria alle ferrovie, dalla compagnia aerea ai servizi demografici. Oggi in Argentina anche il rilascio delle carte d'identità è affidato ad un'impresa privata. Ma il grande gioco delle privatizzazioni si è giocato intorno alle pensioni, affidate dallo stato ai fondi pensione. È in tale contesto che si comprende meglio come la dollarizzazione e le privatizzazioni dell'economia argentina siano state delle scelte strategiche della borghesia per assecondare i processi d'accumulazione. Grazie alla privatizzazione i fondi pensioni si sono trovati per le mani una massa di capitali gestiti in precedenza dallo stato. Per il semplice fatto di raccogliere e investire tali fondi, le società finanziarie percepiscono una commissione di gestione del 30%, mentre dagli investimenti in titoli del debito pubblico percepiscono interessi elevatissimi. In altri termini i fondi pensione hanno avuto gratuitamente dallo stato i soldi destinati alle pensioni ed in precedenza gestiti direttamente dallo stesso stato; si beccano una commissione di gestione del 30% e infine prendono dallo stato, al quale hanno prestato tali soldi, interessi usurai.

Questo meccanismo basato sulla dollarizzazione e privatizzazione dell'economia è stato funzionale alla borghesia argentina per alimentari i processi d'accumulazione. I bassi saggi di profitto presenti nel settore industriale ed agricolo hanno spinto la borghesia argentina a compensare tali saggi con le attività speculative, innescando un meccanismo che ha portato l'intero paese al fallimento. Negli anni novanta le strutture produttive anziché essere ristrutturate e rese più competitive sui mercati internazionali, per la politica dell'alto costo del denaro sono state letteralmente abbandonate o svendute dallo stato a multinazionali straniere, con la conseguenze che il tasso di disoccupazione ufficiale è passato in pochissimi anni dal 3 al 30%. La povertà è diventato un fenomeno di massa tanto che ben 16 milioni di argentini, su un totale di 37 milioni, vivono sotto la soglia della povertà. La crescita esponenziale del debito estero e la concomitante recessione economica ha determinato una situazione esplosiva in base alla quale lo stato argentino non è più in grado di onorare i debiti precedentemente contratti. Gli investitori internazionali, consci del pericolo di una prossima svalutazione, si sono affrettati a spostare in aree meno remunerative ma più sicure i propri investimenti. Solo negli ultimi sette mesi dello scorso anno sono stati ritirati dalle casse delle banche argentine capitali per un valore di 18 miliardi di dollari, mentre a lasciarci le penne sono stati sempre i piccoli risparmiatori che in base al provvedimento di fine anno possono mensilmente prelevare dalle banche solo 250 dollari.

A differenza di quanto affermano i vari esponenti del riformismo la responsabilità di tale fallimento, dunque, va ricercata più che nelle ruberie praticate dalla classe politica nella logica del capitale. L'arricchimento personale d'importanti uomini politici come Menem e Cavallo, la corruzione di un'intera classe politica sono fenomeni reali che non possono essere negati, ma che da soli non spiegano affatto il fallimento dell'Argentina. La dollariz-zazione e la privatizzazione non sono state una scelta fra tante altre possibili ma una strada obbligata per il capitalismo argentino per compensare con la rendita finanziaria la caduta dei saggi di profitto presenti nelle attività produttive.

Dopo aver letteralmente affamato il proletariato e ampi strati di piccola borghesia con la dollarizzazione, il capitalismo argentino s'appresta a sferrare un altro duro colpo alle masse di diseredati svalutando il peso del 30% rispetto al dollaro. Secondo i piani del nuovo presidente il peronista Eduardo Duhalde saranno create due monete: una a cambio fisso con il dollaro (con un rapporto di 1,30 pesos per dollaro) da utilizzare per il commercio con l'estero e una seconda moneta per il mercato interno a fluttuazione libera. In tal modo gli interessi delle multinazionali sono garantiti da un cambio fisso, mentre per il proletariato la svalutazione sarà senza freni con tutte le conseguenze del caso. Nel tentativo di ottenere dal Fondo monetario internazionale un prestito di 2 miliardi di dollari il nuovo governo si è impegnato a tagliare salari, stipendi e pensione del 15%, la moneta utilizzata per il pagamento sarà ovviamente quella a fluttuazione libera e non prevedendo alcuna forma di recupero del potere d'acquisto che si perderà a causa dell'inflazione che si determinerà con la svalutazione. Come si vede, dollariz-zazione o svalutazione, neo-liberismo o politica keynesiana, è sempre il proletariato a pagare il costo più elevato della crisi del capitalismo.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.