Parole chiare sull'articolo 18 - Basta con le ipocrisie: siamo stanchi di essere bastonati e ingannati

Indietro, avanti tutta

È da cinque anni che viene portato avanti il tentativo di introdurre nelle fabbriche la libertà legalizzata di licenziare i lavoratori indesiderati.

Si comincia nel febbraio 1997 con la proposta di legge De Benedetti (DS), che eliminava ogni possibilità di riassunzione e prevedeva solo un'indennità per i licenziamenti "illegittimi". Seguiranno i suggerimenti di G. Giugni (marzo '98), A. Accornero e Larizza della Uil (novembre '99); poi altre due proposte di legge (marzo 2000) dei riformisti dell'Ulivo e degli ex-fascisti di AN; quindi le "idee" di T. Boeri per finire con l'ipotesi del ministro A. Marzano su sollecitazioni della Banca d'Italia. Per tutti i gusti e sotto tutte le bandiere...

Ora che prerogativa del Governo Berlusconi è la lotta per le libertà (dei capitali, dei loro proprietari e faccendieri, dalle rogatorie al falso in bilancio, eccetera), dopo la libertà di assumere lavoratori nei modi più forcaioli si deve far valere anche giuridicamente la libertà di licenziare senza lacci e laccioli di alcun tipo. La giustificazione sarebbe quella di "poter creare nuovi posti di lavoro"...

Ciò che è falso e ciò che è vero

Cominciamo col smascherare la prima grande ed ipocrita bufala, quotidianamente portata avanti dai gestori del capitale. Secondo costoro, a causa dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori applicato alle aziende con più di 15 dipendenti, i capitalisti "trascorrono le notti insonni" (presidente della Confindustria in TV) - non potendo sviluppare le loro imprese e aumentare i dipendenti, poiché poi gli verrebbe impedito di poter licenziare il personale superfluo nel caso di un calo della domanda del mercato. O, addirittura, secondo un altro industriale, "quando un operaio ruba".

Questa è una colossale falsità, poiché proprio nel caso di crisi aziendali (figuriamoci per i furti) gli industriali possono già licenziare a piacer loro e l'articolo 18 non lo impedisce affatto. Persino i Sindacati lo ammettono e Cofferati (bontà sua) riconosce le "espulsioni per una ragione oggettiva". La "ragione" dei capitalisti, s'intende.

L'articolo 18, dunque, riguarda soltanto i licenziamenti definiti senza "giusta causa", fatti cioè su arbitraria o mistificata decisione del "datore di lavoro" (guai a chiamarli "padroni"). Si limita soltanto a stabilire che se un lavoratore, licenziato per ingiustificate motivazioni, si rivolge ad un giudice e questi sentenzia che ha ragione, il "datore di lavoro" deve riassumerlo.

Talmente chiaro, che i ricorsi sono annualmente poche decine mentre le aziende licenziano o costringono comunque ad andarsene, con mille sotterfugi, chiunque non aggrada loro o li disturba. Oltre, naturalmente, alle centinaia di migliaia di licenziamenti "normali" che da anni riducono costantemente l'occupazione nelle grandi e medie imprese (meno 2 / 3% all'anno).

Una questione di intimidazione politica

Ma perché, dunque, tanto accanimento sull'abolizione dell'articolo 18, un'abolizione (come dice Umberto Agnelli che nei salotti dell'IFI cura il patrimonio di famiglia) "pressoché priva di grandi effetti pratici"? Con il rischio - e sempre Agnelli che parla - di "oscurare un clima sindacale caratterizzato complessivamente da una buona operatività"? Francamente, non abbiamo mai avuto dubbi sul fatto che l'operatività sindacale fosse "buona" per gli industriali. Molto meno per gli operai.

Chi lavora in fabbrica - non certo ministri, parlamentari, opinionisti e tutti coloro che vivono, direttamente o indirettamente, sulle spalle della forza-lavoro sfruttata dal capitale - sa molto bene a quali prepotenze, discriminazioni e ricatti devono già sottostare molti operai, uomini, donne e giovani, se vogliono mantenere il proprio momentaneo lavoro. Persino non assentandosi per malattia.

A questo punto, la ragione per cui si vuole ufficialmente abolire l'articolo 18 è soprattutto politica ("un fatto di principio", dice Berlusconi), una dimostrazione di forza da parte borghese. Non è un capriccio, un errore o una cattiveria del potere dominante. Il quale approfitta del momento ritenuto favorevole per alzare la voce e le mani, per far capire a tutti chi comanda, per intimidire definitivamente chiunque voglia difendere i propri interessi e quelli dei compagni sui luoghi di lavoro. Al limite, costringendo i lavoratori a nascondere le proprie "idee" in fabbrica, a far scena muta nelle assemblee, a non scioperare per paura di essere "segnati", discriminati, subire rappresaglie e quindi, presto o tardi, messi alla porta dove altri, senza lavoro e più "sottomessi", bussano per entrare.

Il capitale in crisi vuole liberamente disfarsi di chi lo disturba, tenendo tutti sotto la minaccia costante del licenziamento individuale e quindi della condanna alla disoccupazione, operando così una "selezione scientifica" dei lavoratori. Una selezione nel vivo della pratica, dopo quella a cui si è sottoposti durante le assunzioni. Questo avviene in molti casi anche oggi, ma si vuole operare alla luce del sole, con diritto giuridico, affermando anche legalmente che il licenziamento per qualunque motivo è sempre una giusta causa per il capitale.

Si tratta, insomma, di dare libero sfogo all'appetito di un dominio assoluto sui lavoratori. Si comincia con un primo assaggio e poi, come si dice, bocca mia fatti capanna. Poiché soltanto un fesso può escludere la definitiva soppressione dell'articolo 18 anche - in seguito - per le aziende dei cosiddetti "garantiti".

L'esempio del "patto di Milano"

Nel febbraio del 2000, con la scusa di dare un posto di lavoro agli immigrati e ai disoccupati ultraquarantenni, Cisl e Uil firmarono col sindaco Albertini un accordo discriminante per lavori ridotti, temporanei e sottopagati. In due anni si sono avute 533 assunzioni (solo poco più di un centinaio gli extracomunitari): un risultato pratico fallimentare ma con effetti politici notevoli. L'intesa ha fatto da apripista per la liberalizzazione del mercato del lavoro (flessibilità dei contratti a termine) con la frammentazione del mercato del lavoro (e dei salari individuali) in un via vai di lavoratori, occupati per qualche mese, in "attesa" per altri. Tutti normalizzati e regolati come subordinati, parasubordinati, atipici ed autonomi. Tutti con il loro bel "diritto di cittadinanza", conquistato nella "società delle pari opportunità", progetto comune di destra e "sinistra".

Ancora una volta, fa da puntello a queste operazioni la loro logica: dal momento che solo 10 milioni di lavoratori sono "coperti" dall'artico 18, ed altri 13 milioni non lo sono, perché mai non si dovrebbero "scoprire" tutti"? (W. Passerini, Corsera Economico). Questa sarebbe la vera democrazia ed eguaglianza sociale!

Il falso interesse comune

Il Paese ha bisogno di riforme liberalizzatrici - ci raccontano - "nell'interesse di tutti". Un interesse che comprenderebbe l'efficienza produttiva delle aziende, la loro razionalizzazione e modernizzazione, per assicurare competitività e - non lo si dice, ma è l'essenziale - profitti remunerativi. Che vanno nelle tasche di chi licenzia e non certo di chi viene licenziato.

Sentite il Direttore generale della Banca d'Italia, Fazio:

Per rispondere alle necessità di sviluppo e di progresso dell'economia [cioè del capitalismo] vanno abolite le tutele di cinquant'anni fa.

Aggiunge S. Romano sul Corsera:

Le condizioni economiche e sociali dell'Italia non sono più quelle di trent'anni fa, quando fu scritto lo Statuto dei lavoratori.

Evidentemente sono peggiorate, in nome di un progresso e di una modernizzazione che seminano maggiore povertà e ingiustizia sociale.

Ma se provate a parlare, per esempio, a Fazio di una diminuzione del suo stipendio o della sua pensione da nababbo, lo vedrete infuriarsi come una tigre. (È già accaduto poco tempo fa.) Sono i lavoratori che si "arroccherebbero egoisticamente in difesa di insani privilegi, trincee di ferri arrugginiti, battaglie sbagliate". Prova ne sia - continuano a raccontarci - che nel tempo hanno vinto "le ragioni dei veri riformisti": abolizione della scala mobile, smantellamento dello Stato sociale, riforma delle pensioni, introduzione di lavori flessibili, eccetera.

Se avessimo dato retta ai capitalisti ed ai loro reggicoda, avremmo potuto godere tutte queste delizie già da lungo tempo, e di altre saremo gratificati dando ascolto oggi al buon papà Silvio e alla sua vasta parentela. Domani poi si vedrà chi prenderà il suo posto per farci ingoiare altre pillole amare.

Un punto fermo: Qualunque sia lo schieramento politico a sostegno dei vari Governi, questi non sono altro, che Comitati per la cura degli interessi del capitale e della classe borghese. Per questo, ciò che da tutte le forze politiche, deve essere obbligatoriamente portata avanti è la progressiva demolizione dello Stato sociale e la diffusione della precarietà e mobilità del lavoro, del sottosalario, dell'aumento dei carichi di lavoro, dello strapotere padronale. Lo esige, senza altre vie d'uscita, la crisi che in tutto il mondo colpisce il capitalismo e imbarbarisce la società borghese. Il riformismo, la pretesa di modificare gradualmente l'ordinamento politico-sociale dominante attraverso concessioni parziali e piccoli miglioramenti, ha cessato storicamente di essere praticabile da quando il capitalismo è entrato in una delle sue più gravi crisi. Il capitale non può più concedere ma può soltanto togliere; ogni sua "riforma" costituisce un peggioramento delle condizioni di esistenza della classe operaia e delle masse proletarie.

Questo sta accadendo da anni in tutto il mondo, dove la massa della miseria è in continuo aumento a fronte di una sterminata ricchezza concentrata nelle mani di un ristretto numero di persone. Con le colossali potenzialità produttive di beni e servizi che il progresso scientifico e tecnologico mette a disposizione, gli stessi economisti borghesi ammettono che due o tre ore di lavoro al giorno - per tutti gli uomini e le donne abili - soddisferebbero in abbondanza i bisogni dell'intera umanità. Ma questo non si può realizzare fino a quando dura il modo di produzione capitalistico e i suoi rapporti economici, fondati sul valore di scambio, il denaro, il mercato, il profitto e il capitale.

Padri contro figli, occupati contro disoccupati?

Dunque, siamo allo scandalo dei padri snaturati che scioperano contro i figli - dice Berlusconi - i quali, poiché i genitori non si vogliono far licenziare per soddisfare le necessità del capitale, resteranno senza possibilità di occupazione. La logica degli "esperti", infatti, pretenderebbe che l'occupazione si crei licenziando, così come la miseria di miliardi di esseri umani nel mondo si dovrebbe alleviare solo aumentando i profitti e le ricchezze accumulate da qualche milione di privilegiati individui. Fra cui, con 16 miliardi e 717 milioni di lire di solo imponibile annuo, ben figura il Cavaliere d'Italia.

Al posto della lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori (che non esisterebbe più, secondo gli...sfruttatori, o meglio soltanto loro possono praticarla contro gli sfruttati) vi sarebbe un'egoistica contrapposizione tra generazioni, gli anziani contro i giovani. Generazioni di proletari, sia chiaro, e non di borghesi, essendo questi, giovani o anziani, tutti saldamente occupati a far quattrini.

Non accettando di rinunciare ai loro privilegi, posti di lavoro fissi, salari elevati e pensioni eccessive, gli operai più anziani non permetterebbero così ai capitalisti di concedere a tutti lavori precari, salari dimezzati e pensioni "fai da te"... I disoccupati e i lavoratori precari o in nero sarebbero perciò una conseguenza della egoistica indifferenza dei lavoratori delle grandi fabbriche. Ancora per poco però, poiché per loro fortuna stanno per essere redenti dal ministro Maroni in veste di giustiziere sociale. L'opera sarà completata quando anche i salari dei "privilegiati" saranno "contenuti" allo stesso livello di quelli di cui godono i lavoratori precari e flessibili. Solo così - la beffa continua - i disoccupati troverebbero lavoro, saltuario e sottopagato (altrimenti diventerebbero a loro volta dei...privilegiati), consentendo finalmente alle aziende di poter diminuire l'alto costo del lavoro che li penalizza, senza dover portare le loro imprese in quei paesi dove i proletari non hanno le esose pretese dei viziati operai italiani. Talmente esose che "le aziende in Europa più produttive e più redditizie sono quelle italiane". (Lo dichiara l'industriale Fumagalli, elettrodomestici Candy, sul Corsera). Col bel risultato che il potere d'acquisto di salari e stipendi nel 2001 è diminuito del 3 / 4%. È aumentato invece quello degli "onorevoli" parlamentari e senatori: oltre 20.000 euro al mese, più rimborsi vari.

Infine, se gli operai "anziani" e quelli che "chiacchierano", "contestano" o "rendono troppo poco", insomma fanno i "pelandroni", potranno essere liberamente licenziati, questo in fondo in fondo sarà fatto anche per il loro bene. Saranno anch'essi, al pari di tutti i giovani già...flessibili, "liberi di cambiare lavoro e non più legati al medesimo posto per tutta la vita". Potranno liberamente andare a pescare o giocare a carte. Il posto di lavoro fisso, come già ebbe a dichiarare D'Alema, non esisterà più per nessuno. È una conquista della modernità. Beffa delle beffe, e sempre per dar lavoro ai giovani, ecco la proposta di innalzamento dell'età pensionabile, quando le aziende considerano spremuto come un limone - ed in effetti tale è - un operaio che supera la cinquantina.

Conclusione: al posto di un giovane disoccupato, costretto a farsi mantenere dai genitori, avremo degli anziani genitori senza lavoro e con figli a carico. E tutti si estingueranno sereni e felici (la classe operaia non esiste più!), per la gloria eterna del capitalismo globale.

Attorno alla riforma delle pensioni

Restiamo un momento al capitolo pensioni per rimarcare ciò che si legge nei remoti angoli delle pagine dei giornali: in soli tre anni, da un deficit di 600 milioni di euro, l'INPS andrà in pareggio per l'anno in corso. Grazie alle "restrizioni" - provvidenziali per l'"interesse del Paese" ma non per quello dei proletari - varate dai Governi di centro-sinistra, che hanno migliorato di 1.500 milioni di euro le previsioni di catastrofe dei conti previdenziali. Anche se con la "decontribuzione" in favore delle aziende e contro i giovani assunti, altri buchi si apriranno nel prossimo futuro.

Quanto al famoso milione al mese (516 euro) strombazzato dal Cavaliere, i ministri Tremonti e Maroni continuano a parlare di due milioni 200 mila pensionati interessati all'aumento, ma all'appello mancano centinaia di migliaia di domande. Con i cavilli delle autocertificazioni, del calcolo dei redditi complessivi di coppia, ecc. saranno in molti a trovarsi a mani vuote, figurando tra quella categoria di "privilegiati" (cioè poco oltre 500 euro al mese) che starebbe portando il Bel Paese alla rovina. E il Governo Berlusconi se la caverà con un esborso ridotto rispetto ai previsti 4.200 miliardi di lire.

Nessuna meraviglia se il 50% dei giovani è in preda al pessimismo e non riesce ad immaginarsi un altro futuro se non quello di precarietà e instabilità (indagine Acli, novembre 2001). L'altra metà vive con l'incubo della formazione permanente e dell'aggiornamento continuo, nel nome della flessibilità sostenibile e governabile. Fino a qualche anno fa c'era chi si riempiva la bocca di politiche di sviluppo e di politiche attive del lavoro, col miraggio del "pieno impiego"; oggi c'è da leccarsi le dita anche solo per una speranza di qualche mese di lavoro all'anno. Ammesso che il mercato tiri e le aziende restino "competitive", altrimenti - come ci ripetono ogni giorno - saremo tutti emarginati. "Loro" investiranno i capitali all'estero, là dove altri proletari sono ridotti a farsi sfruttare per la metà dei nostri salari, e noi ci affideremo alla divina provvidenza. Anche se questa, da come vanno le cose nel mondo capitalistico, sembra in tutt'altre faccende affaccendata.

Il gioco delle tre tavolette: fra destra e "sinistra", dove sono gli interessi dei lavoratori?

Il Governo di centro-destra accusa i Sindacati e i colleghi di centro-sinistra di non stare più a quel gioco di solidarietà nazionale e di politiche dei sacrifici, che cominciò a sfasciare lo Stato sociale (pensioni, sanità, scuola pubblica) ed a peggiorare le nostre condizioni di lavoro e di vita. In questo non si può dargli certamente torto, salvo una precisazione: la sinistra borghese fa finta di opporsi oggi al completamento di un comune disegno, ma sa benissimo di non poter fare niente di diverso stando lei al Governo, se non un maggior uso di...vaselina.

Il percorso è obbligato per tutti coloro i quali si rifiutano di mettere in stato di accusa l'intero sistema economico nelle sue strutture essenziali.

Questo è il momento per cominciare ad aprire occhi ed orecchie, per renderci conto che i nostri reali e concreti interessi di proletari, e non di indifferenziati "cittadini", fanno a pugni con quelli che, da destra e da "sinistra", tutti pretendono di indicarci e di obbligarci a seguire.

Proprio nell'alternanza dei vari Governi e con i consensi degli stessi Sindacati (nessuno si è mai rifiutato di firmare patti e "riforme", giudicati soddisfacenti), hanno preso corpo quelle tipologie contrattuali flessibili che ci stanno incatenando - a cominciare dalle giovani generazioni - alle superiori esigenze del capitale. Lavoro intermittente (cioè solo quando serve al padrone), contratti individuali (al ribasso, nel nome della libertà personale), lavori interinali (in affitto, addirittura non di un solo operaio, ma già si parla di blocchi di gruppi di lavoratori), part-time (lavoro a basso costo e per tempi limitati). Tutto questo - in Italia come in Europa, USA e mondo intero - sarebbe progresso e modernizzazione al seguito dell'affermarsi del miglior mondo possibile, quello del capitale, del mercato e del profitto. Per chi protesta o si azzarda ad indicare la possibilità di un superamento definitivo di questa organizzazione produttiva e sociale al limite della barbarie, giù legnate. Fino all'imposizione: taci, il terrorismo ti ascolta. Un terrorismo da criminalità organizzata, che fa stranamente la sua comparsa nei momenti più opportuni per richiamare all'ordine e all'obbedienza chi s'intestardisce a protestare o si rifiuta di collaborare "democraticamente" alla pacifica tosatura del gregge.

Salvo usare lo stesso terrorismo - come fece il Cavaliere ai tempi dell'assassinio di D'Antona, da lui definito come "un regolamento di conti all'interno della sinistra" - quale arma di propaganda politica della propria fazione di destra contro quella di "sinistra", e viceversa.

Un quadro a fosche tinte

"Spostare l'asse delle garanzie dalle fabbriche alla società" (Tremonti), significa rispondere alle esigenze di sopravvivenza delle aziende, cioè di questo assurdo modo di produrre e distribuire unicamente affinché il capitale ottenga margini di profitto. Il capitale reclama il diritto di impiegare forza-lavoro, in qualità e in quantità, quando gli dà profitto. Altrimenti si chiude baracca e burattini e ci si dedica alle speculazioni finanziarie. Da dove vengano, in questo caso, le somme guadagnate in un frenetico giro di migliaia di miliardi, i premi Nobel dell'economia non ce lo spiegano.

Lo Stato (che sembrava dovesse scomparire nel delirio ideologico del liberismo) "deve assicurare all'aziende fondamentali vantaggi: buona burocrazia, buon sistema fiscale, buon mercato del lavoro" (S. Romano, Corsera). Ma tutto ciò che è "buono" per il capitale, è cattivo per i lavoratori! A cominciare dalla riforma del sistema fiscale che da progressiva si farà regressiva, alleggerendo le imposte,dal 50 al 33% per chi supera i 200 mila euro all'anno!

Le contraddizioni sempre più esplosive del sistema capitalistico, le crisi che imperversano e le feroci lotte concorrenziali sui mercati mondiali, impongono flessibilità, precariato, salari ridotti: un lavoro usa e getta per i più fortunati e per gli altri ci pensi la società. E qui si concretizza la beffa finale: poiché questa società - fino a prova contraria - è divisa in classi, cioè in cittadini che possiedono solo la propria forza-lavoro per venderla all'altra classe, ai cittadini che possiedono il capitale e vivono sui profitti (industriali, commerciali e finanziari) che ottengono dall'impiego-sfruttamento della forza-lavoro, chi paga le cosiddette "protezioni sociali"? Sempre e unicamente la classe operaia, l'unica che produce ogni valore. A parte il fatto concreto che, da anni, gli attacchi allo "Stato sociale" hanno fatto scomparire buona parte di quelle "garanzie sociali" strappate dalle lotte dei lavoratori. E pagate con il proprio salario differito (prelievi fiscali e trattenute varie dalla busta paga), anche in favore di ampie stratificazioni della piccola e media borghesia, dedita all'evasione fiscale. Questa è la verità, e vale più che mai per quello che si sta preparando ancora in aiuto al capitale.

Da una parte si esalta una possibile riduzione della disoccupazione (manipolando le statistiche secondo il modello americano che, anche con poche settimane di lavoro, considera tutti occupati); dall'altra parte - in vista di altre bastonate - si prospettano le carote di ammortizzatori quali gli assegni di disoccupazione (40% dell'ultima retribuzione) da sei mesi a un anno. Fra i punti del contendere, vi è la definizione dello "stato di disoccupazione" e la gestione dei sussidi da parte delle categorie produttive e delle parti sociali. Come, allettante obiettivo per i Sindacati, nella gestione dei pensionamenti integrativi.

Ma come al solito, occorrerebbero soldi - da 4 a 5 migliaia di miliardi di euro - per sostenere quella disoccupazione che, o fa comodo al capitale, o al capitale stesso viene imposta dalla crisi che lo sta attanagliando. Soldi che si vuol togliere dalla previdenza (pensioni), da anni indicata come la fonte di tutti i mali della società, e spingendo gli operai (con lavori e salari precari) a risparmiare ed investire nella previdenza privata, cioè dando più forza alle speculazioni finanziarie e borsistiche. Speculazioni che hanno bisogno di masse enormi di denaro e che reclamano di poter mettere le mani sui "risparmi", TFR compreso, dei lavoratori.

Una esibizione di retorica, demagogia ed ipocrisia

Abbiamo visto di quale livello siano le argomentazioni portate avanti nel tentativo di convincere i lavoratori sulla "bontà" delle solite riforme-stangate. Lo spettacolo è a dir poco indecente e dimostra quanto più abile sia stata e possa essere, per vocazione storica, la sinistra borghese nello svolgere lo stesso sporco lavoro.

È comunque comune ad entrambi gli schieramenti politici borghesi il ricorso - nel sostegno delle proprie obbligate "scelte" economiche e sociali - alla "scommessa". Da decenni si è scommesso sui risultati positivi, per un successivo miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita delle masse proletarie, delle politiche di sacrifici e di tagli. Tutte le previsioni sono fallite; gli unici risultati sono stati quelli della conservazione e del rafforzamento degli strumenti di sfruttamento ed oppressione a favore del capitale. Un aiuto prezioso a mantenere in vita un modo di produzione e distribuzione alle prese con una crisi strutturale che si aggrava di anno in anno.

Oggi si torna a "scommettere" puntando, con l'abolizione dell'articolo 18, su una crescita dell'occupazione di centinaia di migliaia di unità in pochi mesi. Ma basta leggere, fra le quinte del teatrino propagandistico, i saldi programmatici della finanza pubblica per constatare come le più rosee previsioni, per quanto riguarda un aumento tendenziale dell'occupazione, non superano l'1% come media annuale: A condizione che la crescita del Pil sia annualmente, e più che ottimisticamente, di almeno un 3%.

Un'altra "scommessa", quella sul lavoro sommerso, registra il totale fallimento dei provvedimenti varati nei primi 100 giorni di Governo. Si prevedeva un recupero fioscale di 7.200 miliardi di lire, ma l'incasso è stato a tutt'oggi di soli 803 milioni. Dovevano venire alla luce 900.000 lavoratori in nero; ne sono emersi 430 (quattrocentotrenta).

A questo punto, dal ministro dell'economia al ministro delle attività produttive, e dintorni, arrivano battutine al limite del demenziale e di questo tipo: "È meglio lavorare con un contratto o essere disoccupato? È meglio essere occupati, anche senza reintegro, o disoccupati? Apriamo la stagione dei cambiamenti creando nuove forme di difesa del lavoro. Eleviamo, nelle moderne condizioni di oggi, la dignità del lavoro e la fiducia dei giovani"...

La loro più seria giustificazione sarebbe in conclusione questa: estenderemo il sistema di protezione (art. 18) di cui godono solo i lavoratori delle grandi imprese. Come? Togliendo la tutela dell'articolo 18 ai lavoratori delle imprese che dovessero aumentare il limite attuale dei 15 dipendenti!

Difendiamoci dagli attacchi del capitale

Noi non seminiamo illusioni sulla possibilità di riconquistare ciò che ci è stato tolto, oppure di costruire un qualche "mondo possibile" attraverso una "più giusta regolamentazione" dei meccanismi del mercato e dello sfruttamento del lavoro. Neppure facciamo credere che abbattendo questo Governo le cose per noi possano andare meglio. Queste sono trappole politiche che dobbiamo criticare e respingere, poiché ad altro non ci porterebbero che alla conservazione di questo sempre più assurdo modo di produzione e distribuzione, con le sue sempre più insopportabili conseguenze.

La necessità indispensabile è quella di unire tutti i lavoratori in una solidarietà concreta di classe, nella lotta contro gli attacchi che ci vengono sferrati da chi a tutti i costi vuole difendere questo sistema, le sue ricchezze, i suoi privilegi e il suo potere. Non saremo mai uomini e donne liberi ed eguali, mai più costretti a invocare un lavoro salariato, precario e flessibile per sopravvivere, fino a quando non ci libereremo definitivamente del capitalismo, del suo catastrofiche sviluppo e delle sue insanabili crisi. Fino a quando non troveremo la forza per uscire dalla barbarie della società divisa in classi.

Il futuro ci appartiene e la sua realizzazione dipende soltanto da noi.

Partito Comunista internazionalista