Bush prepara il secondo attacco all'Iraq

In gioco c'é la difesa degli interessi dell'imperialismo americano

È difficile trovare definizioni adeguate all'attuale politica internazionale americana. Protervia, arroganza, uso indiscriminato della forza, spregio nei confronti degli avversari e assoluta mancanza di rispetto verso i cosiddetti alleati sono le prime che vengono alla mente. Nulla di nuovo, certo, se non fosse che questa feroce aggressività trova nella crisi economica interna un enorme elemento d'accelerazione. Tra i tanti punti d'applicazione di questa ferocia c'è ancora la questione Iraq. In tutta l'amministrazione Bush, il coro che spinge verso l'intervento è unanime nonostante l'atteggiamento negativo degli alleati sia europei che arabi.

Le strumentali accuse nei confronti di Saddam Hussein, tanto speciose da apparire ridicole se non rozze e infantili, hanno un solo scopo: quello di giustificare nei confronti dell'opinione pubblica interna e internazionale un nuovo attacco militare nel quadro di un rafforzamento americano nell'area petrolifera più importante, contro Europa e Russia sia nell'immediato che, soprattutto, in proiezione futura.

Secondo l'amministrazione americana il Rais di Baghdad sarebbe un pericolo per l'umanità, pronto ad usare le fatidiche armi a distruzione di massa, una sorta di novello Hitler in versione medio orientale. Sarebbe quindi un dovere morale abbattere il suo regime per dare libertà al popolo iracheno e sicurezza al mondo intero. Barzellette, ma se così fosse i primi a dover essere puniti sarebbero tutti i Governi americani che si sono succeduti dal 1980 a oggi. L'Hitler in questione è stato pagato, armato, politicamente coperto e giustificato per ben otto anni durante la guerra contro L'Iran, perché questo rientrava nelle strategie americane. All'epoca Saddam non si macchiò soltanto della violazione del diritto internazionale invadendo il confinante Iran, combatté la guerra dei missili sulle città contro la popolazione civile iraniana, organizzò la cosiddetta guerra delle petroliere affondando qualsiasi nave da trasporto che entrasse nel Golfo persico per approvvigionarsi del prezioso oro nero iraniano, commise atroci delitti contro l'umanità, tra cui l'uso di armi chimiche, sia contro la popolazione nemica sia contro la propria di origine curda, senza che i Governi Usa e l'Onu intervenissero, anzi con la loro soddisfatta approvazione. Va ulteriormente sottolineato come le famigerate armi chimiche provenissero dai laboratori americani e inglesi e che il loro uso, lungi dall'essere condannato, era esplicitamente consentito se non addirittura stimolato dalle stesse abbondanti forniture. Sul finire della guerra del Golfo, quando l'apparato militare iracheno era stato quasi completamente distrutto, centrali chimiche comprese, e tutti gli osservatori pensavano che sarebbe stato imminente l'attacco a Baghdad e allo stesso Rais, le cose andarono ben diversamente. Mentre le popolazioni sciite del sud e quelle curde del nord, in ottemperanza peraltro dell'appello all'insurrezione invocato dallo stesso Governo di Washington, si contrapposero in armi al regime di iracheno, i responsabili militari americani hanno consentito che Saddam Hussein reprimesse nel sangue le due opposizioni. Per raggiungere i due fronti dell'opposizione sciita e curda le armate di Saddam hanno dovuto passare attraverso le linee Onu, e solo con il consenso dei responsabili americani ciò sarebbe potuto accadere. Non solo, nell'occasione le truppe irachene si sono giovate dell'appoggio aereo americano che ha reso più semplice e sbrigativo il lavoro di repressione.

Anche in questo caso la spiegazione è semplice, all'imperialismo americano interessava eliminare dalla gestione petrolifera la variabile irachena ma non l'uscita di scena di Saddam. La sua presenza fisica e politica in zona consentivano agli Usa di giustificare la loro presenza militare in tutta l'area, presenza che non si è attenuata nemmeno a 11 anni di distanza. Dall'Arabia Saudita allo Yemen, Dall'Egitto agli Emirati arabi Uniti, la presenza militare americana a difesa della sua gestione del petrolio persico rimane una costante.

Ma allora perché oggi, così insistentemente, l'amministrazione Bush minaccia un nuovo attacco all'Iraq con il dichiarato proposito di eliminare Saddam? La risposta risiede nella nuova situazione di crisi che l'economia Usa sta attraversando. La guerra del Golfo doveva garantire all'imperia-lismo americano il controllo del petrolio attraverso una rete d'alleanze con i paesi arabi produttori e imporre la cogestione dei prezzi e delle quantità di vendita con la propria presenza politica e militare. Significava ribadire a tutti i produttori di pretendere come forma di pagamento il dollaro che avrebbe consentito all'economia americana di far affluire verso di sé ingenti quantità di capitale finanziario da gestire in parte nelle attività speculative e in parte in un processo di ristrut-turazione e di rilancio della propria economia che ormai, da due decenni, subiva il peso della maggiore compe-titività giapponese ed europea.. I settori individuati all'epoca erano quelli legati all'alta tecnologia, al settore alimentare e ai servizi, mentre avanzava a lunghi passi il progetto di smantellamento dello stato sociale e di attacco alle condizioni normative e salariali della forza lavoro interna. Dopo dieci anni, pur avendo raggiunto tutti gli obiettivi prefissati, il capitalismo americano si è prodotto in una delle più profonde crisi economiche del dopo guerra. I dati sono impressionanti. Il Nasdaq, ovvero quella parte della Borsa di Newyork che quota proprio i titoli relativi alle imprese legate alla produzione di prodotti tecnologici ha perso in pochi mesi il 70% della sua capitalizzazione. Ben prima dell'11 settembre erano entrate in profonda crisi colossi che operavano nel settore energetico come la Enron o a quello dei trasporti aerei come la maggior parte delle Compagnie americane.

Le privatizzazioni nei settori dei servizi, dell'energia elettrica, clamorosi gli episodi di blak out in California, si sono rivelati un disastro. L'indebitamento delle famiglie, delle imprese e dello Stato, sommato a un debito nella bilancia dei pagamenti con l'estero che si avvia a toccare i 500 miliardi di dollari, il mancato, quanto auspicato, aggancio con la maggiore competitività europea sia nei settori dell'economia tradizionale sia in alcuni dell'alta tecnologia, il flop della new economy e il crollo delle borse, hanno indotto l'amministrazione Bush ad intensificare l'unica politica efficace, quella della violenza e dell'aggressione. In questo settore, per il momento, non hanno rivali. Il crollo dell'Urss e la debolezza militare d'Europa e Russia hanno aperto praterie immense all'aggressività americana. Si va dal più arrogante protezionismo all'intervento militare nei settori strategici per il controllo dei flussi commerciali e finanziari, di quelli legati allo sfruttamento delle materie prime, una su tutte quella relativa alla commercia-lizzazione del petrolio che comporta un esborso di petrodollari pari a 800 miliardi di dollari all'anno.

L'obiettivo è sempre lo stesso, i concorrenti da battere anche. Ciò che è cambiato dal 91 è la dimensione planetaria dell'intervento, la sua intensità, i punti di applicazione e i nuovi approdi alla escalation militare. Un esempio è quello dell'Afganistan (petrolio caspico) e l'altro è ancora quello dell'Iraq. L'idea dell'amministrazione Bush di eliminare definitivamente il regime di Saddam Hussein si basa sul "nuovo" assunto che solo l'uso della forza possa alleviare i problemi di sopravvivenza dell'economia americana. Nonostante gli sforzi, la norma-lizzazione dell'Afganistan è ancora di là da venire, l'alleato saudita si è dichiarato non disponibile a mantenere i contingenti militari americani sul suo territorio. Le vicende politiche interne alla monarchia dei Saud rendono sempre meno affidabile quello che fino a pochi mesi fa era considerato l'alleato arabo numero uno. Non per niente l'amministrazione Bush ha "improvvisamente" scoperto che 15 tra i 19 presunti dirottatori dell'11 settembre sono di nazionalità saudita, che da quel paese provengono i finanziamenti verso i maggiori centri operativi dell'integra-lismo islamico e che, non ultimo, la stessa Al Qaeda possa aver usufruito della magnanimità finanziaria del Re Fahd o dei suoi collaboratori. Nella strategia americana ciò significa che occorre stringere i tempi. Al presidente Bush, pressato dalle lobby petrolifere e militari, preoccupato dalla eventualità che il regime di Saddam, come da anni dichiarato, possa vendere il suo petrolio in cambio di euro e non di dollari, creando un pericoloso precedente imitabile da Iran, Libia e altri paesi petroliferi non allineati alla strategia americana, non rimane che la carta di un nuovo attacco militare con lo scopo di eliminare Saddam, il suo governo per sostituirlo con uno nuovo, debole, e per questo più facilmente controllabile.

L'operazione è tremendamente rischiosa, incassato un piccolo assenso da parte del Kuwait e dal contraddittorio atteggiamento inglese, prima no e poi si, tutto il mondo arabo ha risposto negativamente. Un nuovo attacco nei confronti dell'Iraq metterebbe in seria difficoltà tutti i governi dell'area che avrebbero enormi difficoltà a mantenere nei ranghi le rispettive popolazioni. Si butterebbe benzina sul fuoco delle opposizioni integraliste con il pericolo di trasformare una guerra di settore in una guerra d'area dagli imprevedibili sviluppi sia per gli equilibri raggiunti, sia per la sopravvivenza politica delle stesse borghesie petrolifere.

No, hanno risposto i Russi, i Cinesi e gli Europei che hanno ben chiaro il progetto americano. Anche per questo l'operazione che era stata preventivata per giugno è stata rimandata a data da destinarsi. Non è nemmeno certo che avvenga, di sicuro la grave crisi economica e finanziaria che sta attraversando la società americana spinge verso soluzioni di guerra che appaiono essere l'unica arma efficace al mantenimento di una supremazia che inizia a fare acqua da tutte le parti.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.