La crisi della Fiat

Per effetto della crisi economica generale e per la crescente concorrenza internazionale, le vendite di auto della Fiat non danno segni di ripresa. I debiti consolidati presso Unicredito, Sanpaolo-Imi e Deutsche Bank (che hanno accordato un finanziamento di altri 3 miliardi) superano i 30 miliardi di euro; la divisione auto, valutata 12 miliardi di euro nel marzo 2000, ha bruciato in due anni 2.500 miliardi di euro. Oggi potrebbe valere poco più di 7 miliardi, dopo la cessione del 34% di Ferrari a Mediobanca e di Teksid e Magneti Marelli. L'ipotesi di una svendita alla General Motors, come da accordi del 2000, prende forza; nel frattempo, la Fiat guarda alle grandi opere pubbliche (alta velocità, passanti ferroviari, metropolitane), dove negli ultimi 10 anni ha già incassato 10.000 miliardi di lire.

Con una sovracapacità di produzione del 20 - 30%, per i lavoratori le conseguenze sono durissime: chiusura di 18 stabilimenti (i sindacati si consolano: "solo due in Italia"...), taglio di oltre 3.000 posti di lavoro, in maggior parte occupati da operai cinquantenni mandati in prepensionamento (e poi si dovrebbe lavorare fino a 70 anni!), nuova cassa integrazione e lavoratori interinali rispediti a casa. Sono inoltre coinvolti nella crisi 10.000 operai dell'indotto torinese, mentre negli stabilimenti all'estero gli esuberi sono circa 6.000. Tutto il resto a seguir: altri tagli e altra cassa integrazione straordinaria.

Nel solo 2001 i lavoratori del gruppo Fiat sono scesi da 221.000 a 199.000; negli ultimi 15 anni sono scomparsi 90.000 posti di lavoro. Il costo del personale è sempre più basso e oggi incide sul fatturato per il 14,1%. In compenso, l'ex amministratore delegato, Canterella, riceve dopo sei anni di attività una liquidazione di 10 milioni di euro e una quota complessiva di altri 9,3 milioni divisa in rate trimestrali per i prossimi vent'anni.

Come sempre, i sindacati e i partiti della sinistra borghese non sanno e non possono far altro che invocare rilanci tecnologici del prodotto-merce auto, da "discutere" con la dirigenza Fiat. Assieme agli "studiosi" del settore si lamentano per le politiche industriali sbagliate e recriminano su quote di mercato perse. La Fiom chiede all'assemblea degli azionisti Fiat "di avviare al più presto una trattativa che salvaguardi per l'Italia (la Patria chiama!) la produzione di auto. Siamo di fronte ad un problema nazionale che richiede un'appropriata politica industriale e un adeguato piano finanziario".

Gli pseudo comunisti di Rifondazione, unendosi al coro che accusa il gruppo Fiat per le sue "strategie industriali e commerciali sbagliate" e lodando l'efficienza produttiva e il marketing delle altre case automobilistiche, incita il popolo: "Salviamo il lavoro e quindi la Fiat". Salariato e sfruttato, il primo, capitalista la seconda.

Tutti a spremersi le meningi - invano - per "capire come si è arrivati alla crisi, e per non ricadere negli errori fatti innumerevoli volte e cercare soluzioni vere". Fermo restando, per antagonisti come Bertinotti e soci, che "bisogna investire per fare della Fiat-auto uno dei gruppi in campo nella competizione mondiale" e sollecitare "piani industriali credibili per rilanciare la fascia alta del mercato", per soddisfare i desideri dei clienti borghesi. Poco importa come si svolga questa competizione, quali siano i costi pagati e da pagare - in termini di sfruttamento e peggioramento delle condizioni di vita presenti e futuri - per gli operai italiani, tedeschi, francesi, americani, brasiliani, polacchi, ecc.

Tocca poi al Manifesto (quotidiano che a sua volta si spaccia per "comunista") disegnare una gioiosa prospettiva che ripaghi un presente di lacrime e sudori: "L'auto può rendere più liberi e felici" - recita un editoriale del 20 giugno. "È un volano dello sviluppo e crea occupazione (sic!) . Sarebbe criminale lasciare morire un secolo di lavoro, un conglomerato di cultura, di saperi, di professionalità e progettualità". Siamo perciò tutti chiamati alla difesa dell'azienda di papà Agnelli, dei suoi prodotti e dei suoi bilanci di entrate e uscite. Mai più in rosso, giurano gli "antagonisti"...

Anche perché - precisa l'editoriale, in competizione con i concessionari Fiat - "l'auto privata fa parte dell'altro mondo possibile per cui ci battiamo: l'auto per ogni nucleo familiare". Sia pure a suon di cambiali. Nulla a che vedere col nostro mondo, quello della realizzazione del programma comunista.

I trotskisti di Bandiera Rossa rintanati in Rifondazione brancolano - con le loro "esperienze di ispirazione marxista e anticapitalista" - attorno ad "una politica industriale di settore, nella cornice della creazione di un distretto nazionale dell'auto", Opponendosi (per l'impossibilità di "chiedere alla famiglia Agnelli di fare la sua parte e aprire il portafoglio per rilanciare l'auto") alla riduzione dei posti di lavoro e all'utilizzo di ammortizzatori sociali con "l'utilizzo di strumenti quali i contratti di solidarietà". Ovvero, se non è zuppa è pan bagnato, o, se preferite, mal comune mezzo gaudio... Infine, e in casi estremi, vale l'appello ad "un diretto intervento pubblico per salvaguardare un settore che si ritiene strategico. Un intervento pubblico sulla proprietà e capitalizzazione dell'azienda", agitando la foglia di fico di un obiettivo che privilegi il trasporto collettivo dia un ruolo complementare a quello privato. Lasciando al loro posto - in pieno regime economico capitalista - i "produttori di autotrasporto, condizionandone le strategie e creando sviluppo e occupazione" (Bandiera Rossa, luglio e agosto). Più "antagonisti" di così non si può!

cd

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.