L'Afghanistan "liberato". Un anno dopo

Un anno dopo la guerra contro l'Afghanistan e la cacciata dei talebani del governo, gli ammazzamenti fra le fazioni rivali sono all'ordine del giorno. Indisturbati continuano i traffici di droga e perfino Bin Laden e il mullah Omar, i mostri, i nemici mortali degli Usa sarebbero vivi e vegeti e, ora a cavallo ora in motocicletta, andrebbero in giro per il mondo a organizzare attentati contro il grande impero del "Bene", gli Usa e i loro alleati. La popolazione civile continua normalmente a morire di fame e a tirare la vita, come si diceva un tempo, con la paglia e i denti.

Le donne, poi. Bisognava liberarle a qualunque costo da quell'orribile burqa simbolo della perdita di ogni libertà! Ma anche le donne, quelle stesse donne, volenti o nolenti, indossano ancora il burqa. Insomma, tutto è come prima o quasi, né poteva essere diversamente. La guerra, e ormai è evidente anche a un cieco, non è stata combattuta né contro il fanatismo dei talebani né per liberare le donne dal loro orribile burqa, ma per il controllo del petrolio del Caucaso. Ed, infatti, è ancora il controllo di quel petrolio che continua a tenere banco.

A Tengiz, nel Kazakistan occidentale, giacciono circa 25 miliardi di barili, sfruttati da un consorzio internazionale capeggiato dall'americana Chevron. Nel giacimento di Karachaganak si stimano 500 miliardi di metri cubi di gas e 300 milioni di tonnellate di olio e condensati. Altre riserve per 50 miliardi di barili si calcolano a nord del Caspio, e sono affidate a Shell, British gas, Exxon Mobil, Total Fina Elf ed Eni; a sud, nell'Azerbaigian, è già operativa la produzione di 130 mila barili giornalieri (400 mila nel 2005 e un milione nel 2010), con la presenza della BP Amoco; altre riserve per 4,4 miliardi di barili si trovano nel Caspio russo.

Poiché il petrolio non si consuma in loco, fra popolazioni stremate dalla miseria e dalla fame, che apprezzerebbero molto di più un sorso d'acqua potabile, diventa fondamentale, dopo l'estrazione, il controllo politico-militare delle rotte delle pipeline e degli sbocchi verso cui convogliare il greggio da vendere ad amici e nemici - se si è in pacifica fase di affari - ma da negare ai secondi quando il libero commercio è ai ferri corti. Il ruolo imperialistico degli USA e della loro colossale rendita in petrodollari, e le alleanze che si stanno disegnando, dipendono dallo sfruttamento di queste importanti risorse e dai loro strategici passaggi, ad Oriente come ad Occidente.

Mosca trasporta il greggio da Baku al terminal di Novorossiisk sul Mar nero, in accordo momentaneo con l'Iran che controlla le pipeline verso il Golfo Persico. È pronto anche l'oleodotto Caspian Pipeline da Tengiz (Kazakistan) a Novorossiisk, con sei milioni di tonnellate annue in mano a Chevron, le compagnie statali russe, British gas ed Eni.

Su rotte diverse si muovono o vorrebbero muoversi altri concorrenti al lauto banchetto, fra cui la BP Amoco con il progetto di un oleodotto dall'Azer-baigian attraverso la Turchia anatolica fino al porto di Ceyhan (terminale nel sud mediterraneo turco). Un costo di tre miliardi di dollari, con Washington e le multinazionali petrolifere in primo piano.

Le zone attraversate sono altamente a rischio e richiederebbero un controllo politico e militare affidabile. Meno costosi sarebbero passaggi attraverso l'Iran, che figura però come "Stato canaglia" e che ha recentemente stipulato con Mosca un accordo per rifornimenti bellici di oltre 300 milioni di dollari annui. Gli USA hanno sempre prediletto la rotta afgana verso i porti pakistani e i mercati occidentali, tagliando fuori Russia e Iran e con la propria marina militare a fare buona guardia nel mare Arabico.

La posizione strategica dell'Afghanistan era ed è sempre più che evidente, tanto più se si guarda alla Cina, ad est, o all'India, a sud. Entrambe sempre più avide di petrolio e gas naturale, mentre si stanno affievolendo le capacità di estrazione del petrolio di alcuni pae - si produttori Opec.

Quando, quattro anni fa, una delegazione di talebani fu ricevuta a Washington dal Dipartimento di Stato americano e dai big della compagnia petrolifera americana Unocal, si trattò un colossale affare da due miliardi di dollari: la costruzione di una pipeline di 1450 km con altri partner, fra cui la saudita Arabian Delta Oil company. Nelle tasche dei talebani poteva finire una quota annuale da 100 milioni di dollari, in aggiunta a quanto già intascavano, assieme alle borghesie del Pakistan, per il commercio di droga. In quegli anni, inoltre, la Unocal aveva finanziato con circa 20 milioni di dollari alcune "istituzioni benefiche" talebane. Ma a quel punto entrava in scena Osama bin Laden e la sua multinazionale Al Qaeda, col proposito di allungare le mani sui giacimenti petroliferi - "dono di Allah ai mussulmani" - dell'intera penisola arabica, il ventre petrolifero del pianeta. Un ventre talmente prolifico di fonti energetiche e quindi di dollari (o di euro?) da scatenare un gigantesco scontro d'interessi sia locali, nazionali, e sia interimperialistici senz'altra via d'uscita - per il capitalismo e le sue durature libertà - che una catena di esplosioni belliche.

Ora che in Afghanistan, dopo bombe e missili, sono arrivati gli americani e a capo del traballante governo c'è un certo H. Karzai che - guarda caso - è stato a suo tempo consulente della Unocal quando questa studiava la costruzione di un gasdotto, a Islamabad è stato firmato a fine maggio un accordo che rilancia il gasdotto Tur-kmenistan-Pakistan via Afghanistan. Potrà trasportare annualmente 30 miliardi di metri cubi fino al porto pakistano di Gwadar per successivi trasporti in Giappone, Estremo Oriente e Occidente di quelle riserve di gas naturale che, solo a Daulatabad, ammontano a 6.500 miliardi di metri cubi. Lo studio di fattibilità del gasdotto è stato presentato il 16 settembre alla Banca per lo sviluppo asiatico. Anche se la Unocal non dovesse partecipare direttamente alla realizzazione del progetto, gli Usa sono presenti con Halliburton, Exxon Mobil, Conoco e altre compagnie; inoltre hanno eliminato la concorrenza della saudita Delta Oil. Il corridoio, dove si spera di poter costruire un oleodotto, è presidiato militarmente dagli Usa e dai suoi alleati, con l'esclusione dei russi. Ma non tutto va secondo i piani americani di un anno fa. Quando iniziarono i bombardamenti a tappeto, gli Usa - con la scusa della caccia al fantasma di bin Laden - ritenevano di poter ristabilire l'ordine che a loro faceva più comodo nel giro di pochi mesi. Dell'importanza strategica della loro terra sono consapevoli, però, anche i cosiddetti signori della guerra afghani e così, fatti fuori i talebani, la lotta per il controllo del territorio è ripresa con rinnovata intensità.

Gli USA mostrano i muscoli, oltre che le mazzette di dollari, ma una cosa è sganciare bombe da diecimila metri di altezza e un'altra è combattere sul territorio un nemico che è perfino difficile individuare.

Lo stesso Karzai si è salvato da un agguato mortale tesogli dai sui amici-rivali solo per puro caso. In realtà dai mujaheddin ai talebani, loro figli spirituali, per finire alle turbolenti fazioni borghesi del "libero" Afghanistan (oggi più che mai lastricato di mine, ricoperto di fosse comuni e abbandonato da circa sei milioni di abitanti) la posta era - e rimane - quella di mettere mano sui futuri diritti di transito dei flussi di gas e petrolio. Washington e le compagnie petrolifere, che sullo sfruttamento delle riserve energetiche del Caspio hanno già investito la modesta cifra di 30 miliardi di dollari, non possono rinunciare al controllo delle risorse energetiche e di quelle finanziarie che ne derivano.

Lo sforzo militare duraturo non potrà, dunque, che proseguire e la popolazione civile afghana continuerà a morire stremata dalla miseria e da ogni sorta di violenza.

dc

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.