Condizioni e lotte operaie nel mondo

Ungheria

Da più di vent’anni il processo di privatizzazione dei servizi pubblici sta procedendo spedito di pari passo con una sempre più marcata internazionalizzazione del capitale; proprio in questi giorni si moltiplicano anche in Italia le ipotesi di cessione a grossi gruppi esteri di due aziende che per anni hanno rappresentato due pilastri delle partecipazioni statali del nostro paese: Telecom e Alitalia.

La gestione statale dell’economia non ha mai concretamente rappresentato un passo in avanti verso il socialismo, è però coincisa con la lunga fase di crescita del dopoguerra e viene quindi spesso associata erroneamente ad un livello di vita più alta per i lavoratori. Questo fenomeno è stato particolarmente rilevante nei Paesi dell’Europa Orientale dove, dopo la caduta del muro di Berlino, la privatizzazione delle imprese statali ha permesso al capitale occidentale di realizzare ottimi affari...ovviamente sulle spalle dei lavoratori.

In Ungheria gli operai del comparto elettrico stanno organizzando uno sciopero, praticamente senza preavviso che dovrebbe avere luogo nella prima metà del mese di Aprile. La spinta a scendere in piazza è stata data dal mancato rinnovo del contratto nazionale di lavoro dovuto ad una divergenza molto marcata sulle condizioni economiche: a fronte di una richiesta di incremento salariale tra l’8% e il 10% l’associazione dei datori di lavoro del settore elettrico ha risposto con una offerta del 5.5%.

Lo sciopero sarà preceduto da manifestazioni di fronte alle ambasciate francesi e tedesche, all’agenzia per le privatizzazioni (APV) e alle sedi delle compagnie private tedesche e francesi che detegono il controllo dei distributori di elettricità ungheresi.

Questa mobilitazione, data la delicatezza del settore, è sicuramente da salutarsi come un fatto importante così come è importante che si individuino gli intrecci del capitale internazionale e le speculazioni sottostanti; è però evidente il pericolo che manifestazioni di questo tipo vengano strumentalizzate dai sindacati e indirizzate contro non tanto in senso classista ma piuttosto in senso nazionalista.

Argentina

Più di quattro milioni e mezzo di argentini, quasi la metà della forza lavoro complessivamente occupata nel Paese, lavora in nero, senza alcun diretto a ferie pensione o malattia. È un dato agghiacciante frutto della gravissima crisi economica del 2001; la relativa crescita degli ultimi anni è stata in grado solo di intaccare superficialmente il fenomeno, non certo di modificarlo realmente.

Questo vero e proprio esercito di lavoratori senza alcun diritto è ormai divenuto un elemento strutturale nell’economia argentina ed ha permesso non solo di recuperare quote di profitto a fronte di una drastica riduzione dei salari ma anche di spezzare la classe operaia in due tronconi dalle condizioni di vita e di lavoro ben differenti e anche con possibilità di lotta nell’immediato ben diverse.

In questo contesto di insicurezza estrema si sono verificati nelle ultime settimane diversi episodi che, seppur lontani dalle lotte del periodo di massima crisi, ci mostrano un proletariato ancora non del tutto rassegnato.

I dipendenti pubblici della provincia di Buenos Aires sono scesi in sciopero contro il governatore Solà domandando una nuova scala salariale che partisse da un minimo di 2.400 pesos al mese (circa 850 dollari) e che fosse legata all’indice nazionale del costo della vita.

Anche i dipendenti della sanità pubblica sono scesi in sciopero chiedendo oltre a condizioni salariali migliori, anche l’assunzione di 1.500 nuovi lavoratori e la stabilizzazione dei precari come rimedio ad un carico di lavoro ormai inaccettabile e ad un probabile collasso delle strutture dovuto alla scarsità di personale. Stanno protestando con scioperi e manifestazioni anche i professori dell’Università nazionale di Argentina con sede a Rosario, chiedono innanzi tutto un raddoppio dello stipendio d’ingesso che è oggi di poco superiore ai 250 dollari al mese, cioè la metà del reddito considerato necessario alla sopravvivenza di una famiglia media.

Sempre a Buenos Aires sono in agitazione i dipendenti della metropolitana che, per contenere gli effeti del carovita, chiedono un aumento salariale del 20%.

Iran

Anche nella repubblica islamica dell’Iran alcuni settori di lavoro dipendente cercano a fatica ma con determinazione di difendere i propri interessi. Lunedì 5 marzo 100.000 insegnanti della capitale sono scesi in sciopero, la lotta è proseguita l’8 marzo quando in 10.000 si sono recati a picchettare il palazzo del parlamento a Teheran. Oltre a un miglioramento dei salari i manifestanti chiedevano maggiori libertà e la parità tra uomini e donne. Alle manifestazioni si sono uniti anche molti studenti e cosa ancor più rilevante molti operai di fabbrica che lottavano per l’ottenimento di diversi mesi di salari arretrati.

Il movimento degli insegnanti ha avuto una portata tale da costringere alla chiusura molte scuole in tutto il paese. In un paese come l’Iran dove la repressione istituzionale è a livelli altissimi e le organizzazioni sindacali veramente indipendenti dal regime sono deboli e marginali, sembra che la protesta degli insegnanti si sia organizzata e si sia estesa in modo spontaneo. La repressione non si è però fatta attendere; si ha, infatti, notizia di centinaia di arresti già avvenuti.

Tom

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.