La democrazia che non c'é

Poco meno di venti anni dopo la caduta del muro di Berlino, contrariamente alle aspettative dei suoi corifei, il sistema capitalistico anziché rifulgere del suo splendore come costoro sostenevano che sarebbe accaduto una volta che era stato sconfitto “il comunismo sovietico”, mostra invece rughe profonde e manifesta con sempre maggiore evidenza una deriva verso la barbarie tipica delle società in decadenza.

In verità l’Urss, che era solo un’altra variante del sistema capitalistico, piuttosto che metterne in ombra le potenzialità, favoriva il nascondimento delle sue numerose contraddizioni. Con la sconfitta dell’orso sovietico e il conseguente affermarsi in ogni angolo del mondo della famosa mano invisibile del mercato, il benessere avrebbe dovuto baciare anche le lande più arretrate del pianeta e invece i numeri, con impietosa ferocia (vedi in questo stesso numero l’articolo Capitalismo globale in crisi: più cresce più diventa ineguale), dicono che negli ultimi venti anni non solo i poveri sono divenuti più numerosi e sempre più poveri e i ricchi sempre meno numerosi e più ricchi, ma che anche fra i più ricchi si sta scavando un solco profondissimo talché la ricchezza globalmente prodotta tende a concentrarsi sempre più nelle mani di un numero ridottissimo di individui con effetti devastanti sulla società nel suo insieme. Altresì la sconfitta dell’orso russo avrebbe dovuto spalancare le porte a una pace duratura in ogni angolo del pianeta ma la pace è rimasta accovacciata in qualche angolo sconosciuto della terra lasciando campo libero al sempre più assordante frastuono delle armi. Ma ciò che più allarma è che l’infuriare della guerra non ha più un andamento ciclico. In relazione alle nuove esigenze di conservazione dei rapporti di produzione capitalistici conseguenti alla crescita esponenziale dei meccanismi di appropriazione parassitaria del plusvalore, la guerra imperialista è divenuta permanente.

Qui, però, vorremmo soffermarci solo su un’altra aspettativa andata delusa: la mancata affermazione della democrazia, senza alcun aggettivo che la qualifichi perché ritenuta connaturata all’economia di mercato, secondo l’assioma corrente che sostiene che laddove c’è mercato non può non esserci democrazia.

Da qualche tempo l’assioma, al cospetto della realtà, traballa e così si parla sempre più frequentemente di “crisi della democrazia” e della necessità di ripensare ai suoi meccanismi di funzionamento.

In Italia, recentemente, è sceso in campo probabilmente per sviare l’attenzione dai problemi che assillano il governo di cui è ministro degli esteri, anche Massimo D’Alema paventando addirittura un nuovo collasso istituzionale come quello che colpì la cosiddetta prima repubblica. D’Alema, che delle sorti della democrazia si infischia bellamente, in verità ha lanciato la pietra nello stagno non tanto perché realmente preoccupato del fatto che “la democrazia liberale” non ha mantenuto le sue promesse, quanto per sollecitare il varo di una nuova legge elettorale più marcatamente maggioritaria con lo scopo evidente di ridurre gli spazi delle forze politiche minori a vantaggio di quelle più grandi, quale potrebbe essere il nascente partito democratico. Ma al di là delle intenzioni di D’Alema, la crisi della democrazia - noi aggiungiamo- borghese - è un dato di fatto. La discrepanza fra i diversi enunciati costituzionali ad essa ispirati e la realtà è talmente evidente da essere colta anche dal “cittadino” comune. Per esempio negli Usa, ritenuti a torto o a ragione poco importa, il baluardo della “democrazia”, la stragrande maggioranza degli elettori non si reca neppure alle urne perché ritiene l’esercizio del voto del tutto inutile essendo le elezioni un affare di famiglia fra miliardari o i loro palafrenieri. D’altra parte, i costi della campagna elettorale sono talmente alti che non vi si può partecipare senza essere dei miliardari o avere il loro sostegno. Proprio in questi giorni, per sottolineare la credibilità della sua candidatura alla presidenza della repubblica, Hilary Clinton anziché presentare il suo programma politico, ammesso che ne abbia uno che non sia la fotocopia di quello degli altri concorrenti, ha annunciato di aver raccolto 26 milioni di dollari, come a dire: siccome i miliardari sono con me la mia candidatura è una cosa seria e la vittoria sicura..

Ma i guai per questa forma di governo borghese non finiscono qui. Con la scusa della lotta contro il terrorismo, è stata fatta carta straccia anche di quei diritti formali da sempre ritenuti discriminanti per poter qualificare una determinata forma di governo borghese come democratica. Sempre negli Usa, grazie alla legislazione antiterroristica è possibile processare un “cittadino” sospettato di attività terroristica senza l’assistenza di un avvocato di fiducia e anche di poterlo imprigionare per un tempo indefinito senza prima processarlo. Di più, il presidente della repubblica può, grazie ai poteri conferitigli da questa nuova legislazione, scatenare una guerra, purché “preventiva”, senza l’approvazione del parlamento. Né le cose vanno meglio nella “vecchia Europa”. Anche qui le forme della rappresentanza sono ormai molto deteriorate e sbilanciate a favori dei cosiddetti “poteri forti”. Anzi forse è proprio qui che l’istituzione della democrazia rappresentativa per eccellenza, il parlamento ha perduto quasi tutto il suo potere essendo stato assegnato alla Banca centrale europea il potere decisionale in materia di politica economica e monetaria. Il parlamento, sia quello nazionale sia quello comunitario, è divenuto un luogo dove periodicamente si riuniscono dei figuranti che parlano, litigano, blaterano, si recano nei salotti televisivi a discettare di ogni cosa; ma in ultima istanza sono solo portatori di decisioni prese, nel chiuso delle loro stanze, da ristretti gruppi di tecnocrati espressione delle grandi banche e dei grandi gruppi del potere economico e finanziario. E, infatti, non fanno altro che approvare tagli alla spesa sociale, alle pensioni, riforme del mercato del lavoro a favore del capitale e fiscali a favore dei più ricchi. Questo gigantesco trasferimento di poteri e il conseguente degrado della vita politica sono ormai talmente evidenti che si diffonde sempre più un forte sentimento di rifiuto della politica e non passa giorno senza che non esca un libro che non denunci le malefatte degli uomini politici e la crisi del sistema democratico.

Recentemente, dopo la denuncia dell’ennesimo scandalo, ha suscitato grande interesse, soprattutto negli ambienti della sinistra liberale ed ex stalinista il libro dello storico P. Ginsborg dal titolo La democrazia che non c’è in cui l’autore si fa portatore di una proposta di profonde modifiche istituzionali per la trasformazione dell’attuale repubblica rappresentativa in una repubblica partecipativa sul modello del presidente brasiliano Lula.

Nel 1989 - scrive Ginsborg - la democrazia liberale trionfò senza riserve sul suo, ormai impresentabile avversario. Ma, nel momento della vittoria globale, molte delle prassi fondamentali della democrazia liberale si sono rivelate carenti e molti dei suoi più orgogliosi vanti infondati. Oggi la democrazia liberale è almeno in parte un re nudo. Per vestirlo adeguatamente urgono dibattito teorico e innovazione pratica. (1)

Intanto occorre rilevare che, seppure fra le righe, anche in questo onesto liberal-democratico, riecheggia la tesi secondo cui la democrazia liberale non si era potuta esprimere al meglio delle sue possibilità a causa dell’Urss visto che ci si aspettava di più dopo il crollo di quest’ultima. Fino ad allora era, infatti, opinione corrente che la gran parte dei difetti della democrazia liberale fossero da ascriversi al fatto che lo sviluppo dell’economia di mercato fosse limitato dalla presenza dell’Orso comunista e dunque veniva meno la possibilità per la democrazia liberale di esprimersi compiutamente. Caduto il muro di Berlino, tutto il mondo della politica e dell’intellighenzia borghesi si attendeva l’avvento di una nuova era di pace e prosperità per tutti. Ma gli eventi successivi avrebbero dimostrato che era vero esattamente il contrario e cioè che erano i paesi del cosiddetto socialismo reale (per noi un’altra variante del sistema capitalistico), che costituivano un formidabile alibi per nascondere il limiti e le contraddizioni della democrazia borghese e non viceversa In ogni caso ora il re è nudo e la democrazia borghese appare per ciò che è sempre stata: una delle tante forme possibili dello stato borghese.

La teoria marxista dello stato

Lo stato - scrive Engels - non è affatto una potenza imposta alla società dall’esterno e nemmeno “la realtà dell’idea etica”, “ l’immagine e la realtà della ragione”, come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è... scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. (2)

E Lenin per maggior chiarezza chiosa:

Qui è espressa, in modo perfettamente chiaro, l’idea fondamentale del marxismo sulla funzione storica e sul significato dello stato. Lo Stato è il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Lo Stato appare là, nel momento e in quanto, dove, quando e nella misura in cui gli antagonismi di classe non possono essere oggettivamente conciliati. E per converso. L’esistenza dello Stato prova che gli antagonismi di classe sono inconciliabili”. (3)

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Lo Stato - continua Engles - poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e sfruttare la classe oppressa. (4)

Dunque, è solo affinché gli antagonismi fra le classi non esplodano che è necessario che lo Stato appaia come una potenza...

al di sopra delle classi, che attenui il conflitto e lo mantenga nei limiti dell’“ordine”... (5)

La mediazione fra interessi contrastanti che agli occhi degli intellettuali e degli uomini politici borghesi appare come la ragione della nascita dello stato stesso e perciò della stessa forma democratica, in realtà ha luogo solo e in quanto è funzionale alla conservazione dello Stato della classe dominante, nel senso che la mediazione fra gli interessi inconciliabili delle classi e anche fra le diverse fazioni della stessa classe dominante, ha come unico scopo quello di impedire che il conflitto possa esplodere apertamente e provocare la distruzione della società e non di armonizzare gli interessi dei singoli con l’interesse generale della società stessa. Di conseguenza, quando per qualunque ragione la mediazione non può essere praticata, lo Stato, indipendentemente dalla sua forma di governo, si manifesta per ciò che realmente è: lo strumento con cui la classe dominate reprime le aspettative di emancipazione e liberazione della classe dominata e la tiene sottomessa.

Nel moderno capitalismo monopolistico, ovvero in quella fase del capitalismo che Lenin ha definito imperialistica, e soprattutto nella prima parte di essa, nei paesi maggiormente industrializzati, grazie agli abbondanti extraprofitti derivanti dalla rendita di posizione monopolistica e dall’esportazione del capitale finanziario, è stato possibile gestire il conflitto di classe privilegiando il momento della mediazione piuttosto che quello della repressione anche se non sono mancate fasi in cui quest’ultima l’ha fatta da padrona assoluta non solo nell’Europa nazi-fascista e stalinista, ma anche negli Usa.

Nei paesi della metropoli capitalistica, gli alti stipendi e salari anche per settori consistenti della stessa classe operaia da un lato e il cosiddetto Welfare State dall’altro hanno favorito sia lo sviluppo della piccola-borghesia sia un’ampia aristocrazia operaia che grazie al relativo maggior benessere ha potuto mutuare e far propri gli stili di vita e i punti di vista della piccola borghesia. È grazie a questa nuova realtà che ha potuto così radicarsi nel tessuto sociale l’idea che lo Stato fosse un’istituzione esterna e super partes rispetto al conflitto di classe e addirittura che potesse bastare la conquista della maggioranza in parlamento per poter avviare la trasformazione in senso socialista della società. Peraltro in questi paesi l’assopimento del conflitto di classe ha anche facilitato lo sviluppo di forme di governo democratiche e in particolar modo della cosiddetta democrazia rappresentativa più funzionale alla politica di mediazione che il dominio del capitale monopolistico reclamava per il suo armonico sviluppo al posto del vecchio stato, liberale a parole ma reazionario nei fatti. Basti pensare alle numerose limitazioni del diritto di voto esistenti nel suo ordinamento tutte basate su discriminanti di classe e/o di genere quali il reddito, l’alfabetizzazione, il sesso. In Italia, per esempio, si è arrivati al suffraggio universale con la concessione del diritto di voto alla donne, solo nel 1948 e in Svizzera solo nel 1971. Lo stesso Ginsborg ci informa che nel 1926 erano solo...

29 i paesi che vantavano credenziali più o meno democratiche. Scesero a dodici nel 1942, l’ora più buia della democrazia ma, una volta sconfitto Hitler, godettero di un nuovo periodo di espansione ovviamente non nel blocco comunista. Nel 1988, sessantasei su un totale di centosessantasette stati membri dell’Onu potevano essere considerati in linea di massima democrazie rappresentative. (6)

Come dire, che, comunque, la democrazia poco si concilia con lo Stato borghese e l’economia di mercato. La storia dimostra, giusta la teoria marxista dello Stato, che le forme di governo che lo stato capitalistico può darsi, tendono per lo più all’accentramento del potere in poche mani e sono in stretta relazione con l’intensità del conflitto di classe e ciò perché lo Stato, in quanto macchina nelle mani della classe dominante non muta la sua natura con il mutare delle forme di governo siano benché democratiche. La dittatura della borghesia, insomma non cessa di essere tale neppure per un attimo e neppure quando indossa il suo vestito migliore. E che le cose stiano così lo dimostra il fatto che le carte costituzionali di tutti gli stati, indipendentemente dalla forma di governo con cui sono retti, prevedono la difesa della proprietà privata dei mezzi di produzione e la repressione, mediante la violenza organizzata dello Stato, di qualsiasi attività tesa a modificare i rapporti di produzione capitalistici basati sullo sfruttamento della forza-lavoro.

Una volta precisata la natura di classe dello stato, appare evidente che l’attuale crisi della democrazia borghese è il prodotto del venir meno delle ragioni che prima, ai fini della migliore conservazione del sistema, avevano fatto privilegiare la mediazione del conflitto La crisi del ciclo del terzo ciclo di accumulazione del capitale iniziata nei primi anni 1970 del secolo scorso, ha prodotto, infatti, una serie straordinaria di modificazioni. Con lo sviluppo di nuove e più sofisticate forme di appropriazione parassitaria di plusvalore basate sulla produzione su larga scala di capitale fittizio si è resa necessaria un’inversione delle politiche salariali ora tese alla svalutazione costante del valore della forza-lavoro; la ristrutturazione della spesa pubblica con una forte contrazione della spesa sociale e lo smantellamento del welfare state. Nello stesso tempo i processi di concentrazione e centralizzazione del capitale hanno subito una fortissima accelerazione e con essi anche le dinamiche dei processi di distribuzione della ricchezza mondialmente prodotta che hanno determinato la frantumazione della vecchia aristocrazia operaia e un gigantesco processo di proletarizzazione proprio di quei ceti medi che costituivano la base del consenso sociale. Ne è scaturita insieme alla generale riduzione dei margini necessari per gestire con successo la mediazione del conflitto sociale anche lo svuotamento delle istituzione che quella mediazione governavano a cominciare dal parlamento. Molte delle decisioni relative alla politica economica e monetaria a causa della straordinaria centralizzazione di capitali che si è verificata, sono passate dalle mani degli stati nazionali ai centri di potere sovra e transnazionali quali le grandi banche centrali, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e le grandi imprese multinazionali. Non è, dunque, un caso che da allora, l’attacco alle condizioni di vita del proletariato e alle fasce sociali economicamente più deboli è andato di pari passo con una serie di modifiche degli assetti istituzionali e costituzionali tutte mirate a dar maggior forza al potere esecutivo e alle Istituzioni sovranazionali quali, per esempio in Europa la Bce. Una volta, cioè che è stata privata della base economica sui cui poggiava il mascheramento della natura classista dello Stato, la repubblica democratica borghese si è mostrata per ciò che realmente è, cioè:

... il migliore involucro politico possibile per il capitalismo. (7)

La crisi della democrazia borghese, dunque, non solo conferma la teoria marxista dello stato ma le conferisce una straordinaria attualità laddove essa ha saputo individuare nel superamento rivoluzionario dei rapporti di produzione capitalistici la conditio sine qua non perché possa nascere uno stato di tipo nuovo, espressione degli interessi del proletariato e degli strati sociali ad esso assimilabili, cioè degli interessi della maggioranza della popolazione e non di una sua ristretta minoranza: la dittatura del proletariato.

Un paradosso inesistente

Ginsborg sostiene che nell’individuare nella dittatura del proletariato la forma dello stato proletario e nell’esperienza della Comune di Parigi, come fa Marx, la migliore forma di governo per l’esercizio di questa dittatura vi è un’insanabile contraddizione anzi un paradosso. Nell’esaminare l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre e quella dei soviet egli, che pure nutre un’evidente simpatia per quest’ultima tanto da riconoscere che si è trattato di un “esperimento straordinariamente interessante di democrazia partecipativa da parte di una popolazione largamente analfabeta” (8), riconduce, però, il fallimento di questa esperienza a questo presunto paradosso.

Il sistema sovietico di democrazia - egli scrive - fu distrutto innanzitutto poiché occupava nel pensiero politico complessivo dei bolscevichi una posizione troppo subordinata. La democrazia non fu mai una condizione sine qua non del loro sistema politico, una colonna portante della rivoluzione socialista. Ne era piuttosto un accessorio opzionale... Dietro questa scarsa propensione alla democrazia si celava l’ingombrante presenza dell’altro modello di Marx, la dittatura del proletariato. (9)

Ora, secondo la teoria marxista, lo Stato è, data la sua origine classista, sempre dittatoriale. Lo è quello borghese è lo sarà quello proletario. Come la borghesia per impossessarsi della macchina statale ha dovuto abbattere lo stato feudale così il proletariato dovrà necessariamente abbattere quello della borghesia. Così come la borghesia per farlo ha dovuto violare l’ordine giuridico esistente, che tutelava la proprietà feudale e i rapporti di produzione basati sulla servitù della gleba, così il proletariato sarà costretto a violare l’ordine giuridico borghese basato sulla tutela della proprietà dei mezzi di produzione e dei rapporti di produzione vigenti. Insomma, anche il nuovo stato potrà nascere solo rompendo l’attuale legalità e per via rivoluzionaria cioè in modo dittatoriale, così come è accaduto per lo Stato borghese. Inoltre, benché la nuova classe dominante sia costituita dalla maggioranza della popolazione, il suo Stato non cesserà di avere fra i suoi compiti la repressione della classe dominata, in questo caso la borghesia. È per l’insieme di queste ragioni, dunque, che anche lo stato del proletariato non potrà essere che una dittatura di classe e in quanto tale potrà cessare di esserlo soltanto quando sarà stata superata la divisione in classi della società . Altresì, proprio perché sarà lo Stato di una classe non proprietaria dei mezzi di produzione e perciò portatrice di interessi generali e non particolari come lo sono quelli dei capitalisti, il suo governo dovrà avere una forma particolare nel senso che necessariamente dovrà prevedere la partecipazione diretta dei produttori nel processo decisionale sia per l’individuazione e la definizione dei bisogni sociali e delle loro priorità sia per la organizzazione della produzione dei beni che quei bisogni dovranno soddisfare. Marx individua nella Comune di Parigi la migliore forma di governo possibile per l’esercizio della dittatura del proletariato proprio perché essa, superando la separazione del potere legislativo da quello esecutivo, consente al proletariato di assurgere al ruolo di classe dominante. È proprio nel modello comunardo, quindi, che la democrazia, mutando radicalmente i suoi tratti caratteristici e le sue funzioni, cessa di essere un optional, un accessorio come è nello stato borghese e diviene, contrariamente a quanto sostiene Ginsborg, una delle condizioni sine qua non perché una società di tipo socialista possa affermarsi e svilupparsi. Lo stesso suffraggio universale per il proletariato muta radicalmente di significato nel senso che cessa di esser una concessione e una delega in bianco per diventare prassi di governo, per dirla con Marx non serve più per...

decidere una volta ogni tre o sei anni qual membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo nel parlamento... [ma] servire al popolo costituito in comuni così come il suffraggio individuale serve ad ogni altro imprenditore privato per cercare operai e gli organizzatori della sua azienda. (10)

Alla luce di quanto fin qui precisato, appare, dunque, perfino patetico il tentativo di attribuire a presunte contraddizioni delle teoria marxista dello Stato il fallimento della Repubblica dei Soviet ispirata all’esperienza della Comune di Parigi. La repubblica dei soviet è fallita perché - come la nostra corrente politica ha sempre sostenuto - è fallita la rivoluzione stessa e i rapporti di produzione capitalistici, che essa aveva appena scalfito, hanno potuto, nel volgere di poco tempo, essere completamente ripristinati. Il partito-Stato non è stata dunque la forma di governo di una società di tipo socialista, ma di una di capitalismo di stato la cui macchina statale era passata dalle mani del proletariato alla classe economicamente dominante, la borghesia di Stato.

Se c’è contraddizione, questa è tutta nella tesi di Gisnsborg e dei tanti intellettuali liberali che immaginano possibili...

nuove forme e prassi che combinino la democrazia rappresentativa con quella partecipativa, al fine di migliorare la qualità della prima tramite il contributo della seconda. (11)

Lo Stato borghese, in mancanza di un superamento rivoluzionario dell’attuale stato di cose, e in particolare degli attuali rapporti di produzione, è destinato a divenire sempre più uno stato oligarchico con tutto il potere concentrato nella mani di un numero sempre più ristretto di individui e la democrazia partecipativa un altro specchietto per allodole, ma alquanto ingenue.

Giorgio Paolucci

(1) La democrazia che non c’è - Paul Ginsbourg - G. Einaudi editore pag. 16-17.

(2) F. Engels. L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato - Ed. Riuniti, pag.200.

(3) Lenin. Stato e Rivoluzione - Ed. Riuniti - pag. 61.

(4) F. Engels. Op. cit. p. 202.

(5) Op. cit. pag 200.

(6) P. Ginsbourg. Op. cit. p32.

(7) Lenin. Op. cit. Pag. 69.

(8) P. Ginsobourg, pag. 24.

(9) Op. cit. pag. 26.

(10) K. Marx, La guerra Civile in Francia, Editori Riuniti pag. 74.

(11) P. Ginsborg. Op. cit. pag. 17.

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