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Home ›Che fine ha fatto la lotta alla precarietà?
Tre milioni di precari, sette se si calcolano gli stagionali e quelli che lavorano in nero
Quando il problema era quello di drenare voti nell’elettorato di sinistra e tra i giovani lavoratori, la lotta alla precarietà sembrava essere l’asse portante del programma dei partiti di centro sinistra. L’approccio moralistico recitava che era indegno, per una economia moderna, che i giovani dovessero sottostare ad un regime di contratti di lavoro penalizzanti, in cui sfruttamento e incertezza per il futuro ne fossero i caratteri dominanti.
Occorreva dare ai giovani proletari, e più in generale a tutto il mondo del lavoro, dignità, posti di lavoro adeguati, certezze economiche e sociali. Il programma elettorale prevedeva quindi l’azzeramento della legge Biagi, la riduzione dei contratti atipici che, nel peggiore dei casi, sarebbero stati considerati come l’anticamera di contratti a tempo indeterminato, l’inserimento di ammortizzatori sociali quale strumento di accompagnamento da un regime di contratti atipici a quello tradizionale.
In tempi non sospetti, quando la campagna elettorale era ancora in corso, scrivevamo che il futuro governo di centro sinistra avrebbe messo in atto una politica di lacrime e sangue, attaccando il mondo del lavoro più di quanto non avesse fatto il governo di centro destra. Tasse, pensioni, sanità e precarietà sarebbero stati i punti ineludibili dell’imminente attacco, comunque camuffato o giustificato. Due le ragioni.
La prima è che, nel gioco delle parti (maggioranza-opposizione) è facile guadagnare consensi scendendo sul terreno della critica e delle promesse, altra cosa è mantenerle nell’esercizio del potere.
La seconda ancora più scontata della prima, risiede nella praticabilità dei programmi politici che, lo si voglia o no, in buona o cattiva fede (vale più la seconda della prima) devono tenere conto dello stato di salute dell’economia, delle imprescindibili leggi della valorizzazione del capitale, delle necessità sacrificali di quel dio vorace che si chiama profitto.
Ben poco hanno da recriminare quei “sinistri” (rifondaroli, verdi e comunisti italiani) che da borghesi riformisti quali sono, ritengono di poter agire sugli effetti negativi del capitalismo senza metterne in discussione le cause che li producono. Vezzo antico, aggravato da una propensione riformistica che trova sempre meno spazio all’interno del capitalismo contemporaneo e dal mantenimento di un aggettivo, comunista che suona come un insulto alla storia, al programma, alla tattica e alla strategia che un simile termine comporta. Delle promesse elettorali sono rimaste le macerie e dal materiale di risulta è uscita l’ennesima stangata proprio sul terreno di quella precarietà che, a parole, doveva essere contenuta al massimo, se non addirittura eliminata. La Legge Biagi è rimasta sostanzialmente la stessa. Si è ritenuto di eliminare il contratto a chiamata, non perché particolarmente degradante e penalizzante per i lavoratori, ma perché inefficiente sul piano dell’operatività. Troppo macchinoso e a tal punto inaffidabile da sconsigliare gli stessi imprenditori a farne uso. I contratti a termine, vero cuore di tutta la questione-precarietà, sono rimasti al loro posto.
Al danno si è aggiunta la beffa quando nella nuova normativa si sancisce la possibilità, per l’imprenditore, di protrarre nel tempo il contratto per ben tre volte, sino ai trentasei mesi, poi lo si può oltretutto rinnovare presso la Direzione provinciale del lavoro con l’assistenza (non a caso) delle organizzazioni sindacali che di questo scempio normativo sono stati i solerti sottoscrittori. Il che rimanda all’infinito il rapporto atipico di lavoro lasciando il lavoratore nella solita incertezza e al medesimo livello retributivo, cioè al minimo.
Gli ammortizzatori sociali che avrebbero dovuto accompagnare i giovani lavoratori dalla situazione di precariato a quella di lavoratore a tempo indeterminato, ma che in realtà li lasciano nelle medesime condizioni normative, sono irrisori. L’indennità di disoccupazione passa dal 50% al 60% per i primi sei mesi, al 50% e al 40% per i due mesi successivi. Un’inezia che non sposta di una virgola la condizione economica e sociale di milioni di lavoratori. Si è previsto anche un fondo per i parasubordinati che consente ai giovani senza occupazione di accedere a un prestito di 600 Euro al mese per 12 mesi con restituzione a 24 o 36 mesi. Questo presunto ammortizzatore sociale misero e sostanzialmente inadeguato, dato l’ammontare del prestito i tempi stretti della sua restituzione, non è nemmeno paragonabile a quello precedente (debito d’onore) che ci si è ben guardati dal riproporre adattandolo alle nuove situazioni di disoccupazione o sotto occupazione.
Nella sostanza nulla è cambiato nell’impianto della legge Biagi, non solo, ma si è rafforzato il principio informatore della legge stessa che disciplina e ripropone la precarietà quale condizione necessaria alle esigenze del capitale. Simili contratti potranno subire variazioni e aggiustamenti, adattamenti di ogni tipo, ma non in funzione delle esigenze normative e di salario dei lavoratori. Al contrario la loro continuità e adattabilità alle necessità della situazione economica, continueranno a essere lo strumento fondamentale del capitale per sfruttare la forza lavoro solo nel momento produttivo desiderato, economicamente conveniente, senza gli oneri passivi che ne deriverebbero dalla sua permanenza a tempo indeterminato. Precarietà e temporaneità significano per il capitale avere a disposizione dei lavoratori il cui _peso _salariale rimanga ancorato ai livelli retributivi minimi e, oltretutto, una potentissima arma di ricatto nelle mani del datore di lavoro che può ottenere tutto e subito (estensione dell’orario lavorativo, imposizione degli straordinari e assoluta subordinazione) impugnando l’arma ricattatoria del non rinnovo del contratto.
La fraudolenta campagna elettorale delle forze di sinistra ha mentito sapendo di mentire. Il governo Prodi ha fatto quello che il capitalismo italiano gli ha imposto di fare. La precarietà è rimasta perché le ferree leggi del capitale lo impongono, perché nella società moderna il profitto, necessario alla sopravvivenza del sistema economico, ha bisogno che il mondo del lavoro, la _nuova _schiavitù salariata, viva con salari più bassi, abbia un lavoro precario e che subisca uno sfruttamento più intenso.
fdBattaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #9
Settembre 2007
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