I giocattoli tossici della Mattel

Cina paradiso degli affari della merce adulterata e del più bestiale sfruttamento

Non da oggi si sprecano le critiche del mondo occidentale alla qualità delle merci prodotte in Cina. Eppure, malgrado tutte le chiacchiere, i media borghesi insistono nell’inculcare l’idea nell’opinione pubblica che della Cina oramai non se ne può più fare a meno, giacché noi consumiamo i suoi prodotti a basso costo, ma soprattutto perché è la maggiore potenza emergente destinata a diventare, molto probabilmente, la numero uno in un futuro non lontano.

Dunque l’immagine che dobbiamo farci della società a venire è quella prefigurata dal gigante asiatico, bisogna abbandonare le vecchie e antiquate abitudini allo stato sociale, e a qualunque cosa ci rende passivi di fronte alle sfide della globalizzazione, al liberismo galoppante, ecc.

La verità inoppugnabile è che veramente il capitalismo ha bisogno oggi più che mai della Cina, essa ha rappresentato in questi anni, l’albero della cuccagna del capitalismo internazionale. Non soltanto per la rapace borghesia locale, di stato e privata, ma soprattutto per la borghesia internazionale delle aree sviluppate. Il capitalismo maturo e asfittico ha trovato una valvola di sfogo fondamentale nella fabbrica globale chiamata Cina, dove il bestiale sfruttamento del proletariato ha un’intensità e una brutalità improponibile nel “civile” occidente.

L’ennesimo episodio di scarsa qualità e dannosità della produzione cinese riguarda il recente caso Mattel. La vicenda ha assunto una rilevanza particolare perché in questo caso a rimetterci è la salute dei più piccoli. La multinazionale americana del giocattolo, la numero uno al mondo, è stata costretta per la terza volta dallo scorso agosto a ritirare dal mercato i prodotti fabbricati in Cina contenenti vernici al piombo, per un totale di oltre 19 milioni di giocattoli.

La parabola della Mattel è la stessa di tante imprese multinazionali occidentali, le quali hanno trovato conveniente trasferire la produzione dal paese di origine o comunque dalle zone maggiormente sviluppate ai nuovi paradisi emergenti del super sfruttamento capitalista, Cina in testa, dove costo del lavoro e standard qualitativi delle merci prodotte sono imparagonabili, a tutto vantaggio degli enormi profitti realizzabili solamente con questo criterio.

Sono 120 mila i lavoratori cinesi che direttamente o indirettamente lavorano per la Mattel, i cui salari variano da 40 a 70 euro al mese. La giornata lavorativa è normalmente di 10-12 ore al giorno (alla faccia della legislazione che prevede le comuni 8 ore, perché contrariamente a quanto si pensa anche in Cina esistono delle norme precise in materia) con la compiacenza tra padronato e le corrotte autorità locali; è poi inutile aggiungere, come tutti sanno, che le condizioni di lavoro nelle fabbriche sono di un abbrutimento indicibile.

Questo è il quadro della situazione, limpido e chiaro alla coscienza della borghesia internazionale, sul quale si è innestato il modello di sviluppo basato sull’outsourcing (delocalizzazione) della produzione verso i deliziosi luoghi dell’infimo costo del lavoro.

Il bubbone è scoppiato dopo il suicidio di Zhang Shuhong, capo della fabbrica cinese Lee Der produttrice dei giocattoli per la Mattel, accusato della tossicità dei manufatti forniti. Pechino, attraverso l’agenzia che vigila sulla sicurezza dei prodotti, ha respinto al mittente le accuse affermando che i difetti di progettazione degli americani sono la vera causa dell’eccesso di piombo, in quanto le aziende cinesi non hanno fatto altro che eseguire le specifiche di produzione.

In effetti, il giochino è sempre lo stesso, prima si permette di utilizzare materiale scadente per poi darne la responsabilità alle ditte cinesi, sia che si tratti di giocattoli, dentifrici, farmaci, batterie al litio o quant’altro. Ma è proprio attraverso tutto questo che la borghesia cinese e quella occidentale hanno lucrato, sfruttando il proletariato cinese ridotto in semi schiavitù.

Pertanto risulta falsissima la finta polemica tra i vertici della multinazionale americana e le autorità cinesi nel rimpallarsi le responsabilità di quanto accaduto. Tali frizioni, in realtà, non sono altro che un piccolo tassello di un più vasto scontro interimperialistico in atto, che si manifesta a seconda delle circostanze in modo più o meno palese, ma destinato nel tempo a radica-lizzarsi.

Se da una parte la Cina fa comodo, come abbiamo visto, dall’altra rimane una pericolosa concorrente. Se per un verso permette di tenere alti i consumi interni statunitensi invadendone il mercato con merci a basso prezzo, allo stesso tempo il suo enorme surplus commerciale finanzia l’altrettanto gigantesco debito federale. Se le riserve in dollari della Cina possono essere un’arma di ricatto nei confronti degli Stati Uniti, altrettanto pericolose e devastanti potrebbero rivelarsi le conseguenze di un crollo del dollaro nei confronti della stessa Cina. Inoltre il capitale internazionale e americano ha investito massicciamente in Cina favorendone l’attuale boom economico, ma anche il capitale cinese è ormai ben infiltrato nelle multinazionali con fondi di investimento e partecipazioni.

Questi intrecci e i complessi equilibri che ne derivano, non sono altro che il modo di essere del capitalismo, un sistema saturo di contraddizioni che esasperandosi prima o poi dovranno esplodere.

cg

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.