A fianco del proletariato tibetano e cinese

Contro tutti gli imperialismi, contro tutte le gabbie nazionali, razziali e religiose

Le recenti violenze esplose in Tibet si sono sviluppate su diversi livelli, che richiedono una analisi più approfondita rispetto ai cliché che ci vengono proposti, ossia repressione contro le richieste popolari di libertà religiosa e di ritorno ad una società idilliaca fondata sui pacifici precetti del buddismo, oppure manovre esterne tese a destabilizzare uno dei principali baluardi dell’antimperialismo.

Non è un mistero che le proteste, che hanno preso avvio in occasione del 49o anniversario della rivolta del 1959 (1), siano in preparazione da lungo tempo. Secondo quanto riferisce il sito phayul.com , in una conferenza degli “Amici del Tibet”, tenutasi a giugno dell’anno scorso a New Delhi, con la partecipazione di diplomatici statunitensi, si discuteva di “come le Olimpiadi potessero fornire l'unica possibilità dei tibetani per apparire e protestare”, in funzione dell’indipendenza del paese. La marcia di monaci ed esiliati dall'India al Tibet fu proposta nel corso della stessa conferenza. In gennaio venne annunciata, sempre da organizzazioni basate in India, la costituzione di un “Movimento di Rivolta del Popolo Tibetano”, per azioni da realizzarsi nella data del 10 marzo, “nello spirito della rivolta del 1959”.

Non stupisce che la rivolta si inserisca in un contesto internazionale complesso e multipolare. Ma è anche da notare che la rivolta non è ascrivibile completamente, nelle sue dimensioni e nella sua esplosività, ad azioni dirette esclusivamente dall’esterno. È significativo anzi che i violenti disordini di Lhasa abbiano avuto origine, secondo le poche testimonianze disponibili, da un litigio fra commercianti tibetani e han in un grande mercato. I filmati mostrano numerose auto date alle fiamme, negozi e grossi centri commerciali devastati e incendiati, obiettivi quasi sempre proprietà di cinesi di etnia han. La violenza dilagata nel capoluogo tibetano - le cui vittime sarebbero 19 secondo le cifre ufficiali, ben 140, invece, secondo il governo in esilio - e nella vicina provincia del Sichuan, pare aver colto di sorpresa le autorità cinesi, che hanno registrato una sostanziale debacle, nonostante avessero già da un anno richiamato in servizio anche parte delle 650 mila unità paramilitari della polizia. (2)

Ma, di fronte a questa esplosione di violenza e alle difficoltà del governo di controllare la situazione, i tanti “amici” internazionali del Tibet si sono in sostanza dileguati. Nessun capo di stato o di governo ha parlato di sanzioni serie contro la Cina; anche un gesto puramente simbolico come il boicottaggio delle olimpiadi è fuori questione e l’unica cosa di cui si dibatte è se partecipare o meno alla cerimonia di apertura. Questa semplice constatazione porta a chiedersi: perché questa evidente retromarcia?

I primi “amici” del Tibet, si sa, sono gli Stati Uniti. Ma proprio gli Stati Uniti, pochi giorni prima delle brutali repressioni in Tibet, hanno cancellato la Cina dalla lista nera dei peggiori stati in fatto di violazione di diritti umani. (3) E dopo le prime violenze, Bush si è affrettato a scartare ogni ipotesi di azione contro la Cina, ribadendo la sua personale presenza a Pechino in occasione dei giochi olimpici. Persino di fronte al lancio di missili in mare dalla Corea del Nord, l’8 marzo, la diplomazia americana non è andata oltre la denuncia dell’episodio come “non costruttivo”. Per dirla con Rampini, di Repubblica, “il Dipartimento di Stato deve avere imparato di recente l’arte dell’understatement”.

La situazione in realtà è profondamente mutata rispetto all’anno scorso, quando gli eventi di questi giorni venivano preparati. Di mezzo c’è stata prima di tutto la cosiddetta “crisi dei subprime” (manifestazione di un processo di caduta del saggio del profitto avviatosi già negli anni 1970) che ha scosso i mercati azionari di tutto il mondo, intaccando il cuore finanziario del capitalismo mondiale. Il dollaro, poi, si trova a fronteggiare difficoltà e sfide di ogni tipo. (4) È evidente allora il motivo per cui gli Stati Uniti siano in questi giorni disposti a tenere un basso profilo di fronte al grande nemico, la Cina, che nonostante tutto continua a finanziare il debito statunitense accumulando titoli di stato, per un valore pari a 1600 miliardi di dollari. (5)

Visto il contesto internazionale, quale posizione dovrebbero dunque esprimere sul Tibet i comunisti, ossia l’avanguardia del proletariato mondiale? Se guardiamo ai gruppi della cosiddetta “sinistra”, si può rilevare solo una confusione completa, con posizioni diametralmente opposte anche all’interno dello stesso raggruppamento. Bertinotti, ad esempio, non ha esitato a schierarsi al fianco del dalai lama, espressione di un modello sociale quanto meno oscurantista, reazionario e pseudo-feudale (6), sostenendo quindi la causa della cricca clericale e borghese locale che aspira a farsi classe dirigente per sfruttare in tutta “libertà” la “sua” propria classe operaia. Altri, come Ciusani del comitato centrale del PdCI, si dichiarano “Schierati con la Cina popolare contro il Medioevo del Dalai Lama e le mene aggressive dell’imperialismo” (7), appoggiando le sanguinose repressioni di uno dei più oppressivi regimi imperialisti esistenti. Questa confusione è l’inevitabile frutto della mancanza di una chiara analisi classista degli eventi, e di un ancoraggio a modelli e riferimenti (“comunismo” russo, cinese, cubano ecc.) che nulla hanno a che fare con il comunismo, con il socialismo e con gli interessi del proletariato.

Le condizioni lavorative e sociali sono terribili in tutta la Cina, ma la situazione in Tibet, una delle regioni più povere del paese, è ancora peggiore. I dati forniti dal governo centrale sono scarsi e difficilmente verificabili, ma non c’è dubbio che gran parte della popolazione viva di un’economia di sussistenza, fatta di allevamento, pastorizia e limitate coltivazioni (principalmente orzo, che cresce anche ad alte quote). Settori importanti e in sviluppo sono quello del turismo e dell’estrazione e lavorazione di minerali, prima di tutto il rame. La crescita del prodotto lordo, dichiarata al 14%, andrebbe valutata in relazione al livello bassissimo da cui si parte, ma questo pur modesto sviluppo in termini assoluti ha generato nei tibetani - che in larga misura possono essere considerati come un enorme “esercito industriale di riserva” - speranze di miglioramento delle condizioni lavorative e sociali. Tali aspettative hanno dovuto però fare i conti con una realtà capitalista che ha ben poco da offrire, cui si aggiunge il perdurare di discriminazioni e vessazioni imposte nei loro confronti, che usano una lingua diversa, hanno un diverso e in media più basso livello di istruzione, possono ottenere permessi per qualsiasi tipo di attività solo con difficoltà, mentre ne sono esentati i numerosi cinesi di etnia han immigrati negli ultimi anni. Sono proprio le condizioni di vita durissime e la frustrazione sociale diffusa che hanno spinto molti tibetani a ribellarsi, affiancando i monaci in piazza, ma spesso con motivazioni di fondo assai diverse.

Occorre quindi esprimere tutta la nostra solidarietà di classe ai lavoratori tibetani che stanno manifestando e lottando con estremo coraggio, mossi dalla necessità materiale di ottenere condizioni di vita e di lavoro migliori. Ma bisogna ribadire chiaramente che queste aspirazioni potranno trovare soluzione solo se sapranno rompere decisamente con tutte le tendenze nazionaliste, razziste e clericali. Occorre al contrario che le lotte dei lavoratori in Tibet si ricolleghino prima di tutto alle proteste proletarie che scuotono continuamente il territorio cinese. La forza del proletariato è infatti nella sua unità di classe, per cui l’unica strada percorribile, anche se lunga e difficile, è quella della costituzione di reti di coordinamento e solidarietà a livello regionale e internazionale, che uniscano i lavoratori tibetani con quelli cinesi e del resto del mondo, della creazione e maturazione di una reale avanguardia comunista che sappia guidare finalmente il proletariato, e con esso gli ampi strati popolari poveri della regione, verso l’emancipazione, attraverso la rottura dei rapporti di sfruttamento e oppressione capitalistici. Lo slogan internazionalista resta sempre: “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”.

Foto da: latimes.com

(1) In una situazione internazionale profondamente cambiata rispetto a mezzo secolo fa, è tuttavia utile rammentare il ruolo della Cia in quella occasione, che concertò le azioni assieme al dalai lama con l’obiettivo di indebolire il fronte imperialistico avverso, che vedeva la Cina schierata a fianco dell’Urss. Secondo le sue stesse dichiarazioni, rilasciate nel 1989 al New York Times, il dalai lama era nel libro paga dell’agenzia governativa americana, anche se ha preso da tempo le distanze da quegli avvenimenti e, da politicante scafato qual è, propugna ora una più realistica “via di mezzo” verso l’autonomia del Tibet, senza mettere in discussione il potere di Pechino.

Nella stessa ricorrenza del 10 marzo, si erano verificati anche i moti tibetani del 1989, che precedettero di pochi mesi le proteste di piazza Tiananmen. I moti furono repressi in quella occasione proprio da Hu Jintao, attuale presidente della repubblica, allora dirigente locale del partito.

(2) La decisione è stata però accompagnata da un rapporto del Dipartimento di Stato assai severo nei confronti della Cina. La violazione dei più elementari diritti in Cina è una cosa risaputa, ma fa specie che gli organizzatori di Guantanamo e Abu Ghraib si mettano addirittura a fare prediche...

(3) In realtà, il controllo ferreo della società da parte del Pcc è più che altro uno stereotipo che viene proposto dai mezzi di informazione occidentali e orientali che, per un verso o per l’altro, hanno tutto l’interesse a coprire le proteste di massa che scuotono continuamente la società cinese. Si veda BC 4/2007: leftcom.org . A questa difficoltà, si aggiunge l’attenzione particolare del mondo sugli eventi regionali in occasione delle olimpiadi, che spinge la polizia a tenersi il più possibile in disparte, filmando gli avvenimenti e prediligendo azioni mirate, spesso notturne, contro gli elementi individuati come principali animatori delle proteste.

(4) Il dollaro, tra gli altri fattori, è spinto al ribasso dai tassi di sconto decrescenti imposti dalla Fed per cercare di controllare la crisi. Diverse monete poi, prima tra tutte l’euro, cercano di sottrarsi alla sudditanza nei confronti del dollaro, se non addirittura di contendergli il primato quale moneta di riferimento a livello internazionale. Il significativo differenziale di tassi di sconto tra Europa e Stati Uniti, giustificato dalla Bce sulle base di temute spinte inflazionistiche e che la Fed ha più volte e aspramente criticato, ha un ulteriore effetto depressivo sulla moneta americana. Se a questo si aggiunge il (preannunciato o effettivo) passaggio dal dollaro all’euro per la compravendita di petrolio in paesi come l’Iran e il Venezuela, si capisce quanto sia difficile la situazione per il biglietto verde.

(5) In realtà gli attuali tassi di crescita dell’economia cinese sono in gran parte dovuti proprio alle esportazioni verso gli Stati Uniti, e quindi, in sostanza, al debito statunitense. L’indebitamento americano non è altro, infatti, che l’altra faccia della medaglia rispetto al deficit della bilancia commerciale.

(6) Si possono leggere numerosi resoconti - anche in “Sette anni in Tibet”, di Harrer - sui soprusi e sulle corvèe imposti dai monaci buddisti in Tibet fino al secolo scorso.

(7) pdcitorino.it .

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.