Lo storico accordo Fiat-Chrysler nel segno della crisi

A pagarne le spese però sono sempre i lavoratori

Tutto fatto, tutto per il meglio o quasi. La Fiat fornirà alla casa americana la tecnologia per la produzione di piccole vetture a basso consumo, ecologiche e a prezzi competitivi. Favorirà l'apertura del mercato europeo e de sud Africa mentre la Chrysler consentirà alla casa italiana di accedere al mercato nord americano, il Nafta (Usa, Canada e Messico). Il protocollo recita che nella prima fase la collaborazione tra le due case automobilistiche si dovrà sviluppare sulla base di una new company che avrà tutti gli asset positivi della Chrysler e senza debiti. Nascerà contemporaneamente una bad company che scaricherà i debiti e le perdite accumulate negli ultimi anni al tesoro Usa e al governo canadese, che in tal modo consentiranno alla casa americana di continuare a vivere e a produrre.

Il nuovo azionariato verrà così suddiviso: il 55% ai sindacati, il 23% al tesoro Usa, il 20% alla Fiat e il 2% al tesoro canadese. Il consiglio di amministrazione prevede che su nove membri quattro siano rappresentativi del governo americano, tre della Fiat, uno del governo canadese e uno dei sindacati.

Se le cose dovessero procedere per il meglio, ovvero se il risanamento della Chrysler dovesse decollare, entrerebbe in funzione la seconda fase che vedrà salire la quota Fiat sino al 35% e, dal 2013, al 51%. Il tutto andrebbe a buon fine se la fase di riorganizzazione della produzione delle nuove ed ecologiche auto, a tecnologia Fiat, avranno successo, e se la fase della distribuzione in America ed Europa, riuscirà a smaltire una massa di prodotti prevista a 5 milioni di unità complessive. Questi i dati ufficiali su cui si sono firmati gli accordi. Dati tecnici ed economici che impongono una serie di considerazioni.

La prima è che lo sposalizio tra le due case automobilistiche è il risultato degli effetti della crisi sull'economia reale, in questo caso nel settore automobilistico che, per sua storia e natura economica, è tra quelli più sofferenti sul mercato internazionale. La propensione strategica delle due case non è stata favorita da una scelta di mercato più o meno azzeccata, ma imposta dalla crisi economica che, come sempre, e in modo particolare in questa occasione, ha spinto perché il matrimonio si facesse, pena la scomparsa dalla scena della Chrysler e un pesante ridimensionamento della Fiat, e per entrambe, la necessità di attrezzarsi al meglio contro i nuovi colossi (Cina e India) che si apprestano ad invadere il mercato internazionale dell'auto. Le crisi più sono gravi e più favoriscono i processi di concentrazione dei capitali, sia nei settori finanziari che in quelli produttivi.

Gli analisti borghesi prevedono che nel settore automobilistico si arriverà ad un regime di mercato oligopolistico rappresentativo di solo sei o sette grandi gruppi, frutto di accorpamenti, alleanze e concentrazione dei fattori produttivi.

La seconda è che il capitalismo, quando è nei guai a causa delle sue insanabili e gigantesche contraddizioni, entra puntualmente in fasi di recessione economica, invoca l'intervento dello stato quale unica ciambella di salvataggio (nel caso specifico il governo americano ha sborsato la bellezza di 10 miliardi di dollari). Non importa se fino a ieri i santoni del neoliberismo ostentavano sicurezza e fiducia nel “libero mercato” e oggi precipitosamente ricorrono alle cure del tanto bistrattato stato, con una disinvoltura perlomeno disarmante. Le crisi capitalistiche, più sono gravi e profonde, più hanno la capacità di rendere ridicole le politiche economiche su cui si sono create quelle stesse contraddizioni che le pongono in essere. Nello spazio di un mattino si è tutto capovolto. Prima era il mercato a dettare legge, adesso è lo stato che deve ricucire i buchi. Ma la storia ha insegnato che il capitale crea le sue crisi e determina le devastazioni sociali che colpiscono milioni di lavoratori, sia che si creda nel capitalismo privato che in quello statale, ancora oggi contrabbandato per socialismo.

Non sono certamente le forme di amministrazione del capitale che possono impedire le crisi economiche, ma sono le crisi che impongono, di volta in volta, l'una soluzione amministrativa o l'altra, a seconda delle necessità di conservazione degli interessi del capitale stesso.

La terza considerazione è che a pagare il conto di questa operazione sia, ancora una volta, il proletariato metalmeccanico che, volutamente, non appare nei protocolli d'intesa tra le due Case automobilistiche. Anzi il presidente Obama ha trionfalmente annunciato che l'operazione salvataggio Chrysler ha consentito di salvare 30 mila posti di lavoro. Come dire che l'operazione ha, e avrà, una valenza sociale per i dipendenti, che altrimenti si sarebbero trovati sul lastrico. Ma lo stesso presidente si guarda bene dal dire che, per consentire alla terza casa automobilistica americana di sopravvivere e di continuare ad estorcere plusvalore ai suoi dipendenti, 28 mila di questi rimarranno a casa, “vittime collaterali” dello storico processo di ristrutturazione. Il progetto prevede infatti che dagli attuali 58 mila si passi a trentamila, senza possibilità di scampo e con il solito avallo dei sindacati, che peraltro sono, con i loro Fondi pensione, i maggiori azionisti della new company.

on solo, sempre nel protocollo quadro che disciplina i rapporti di lavoro, si parla di una riduzione dei salari pari al 30%, quale imprescindibile condizione al rilancio competitivo dell'impresa italo-americana. Prendere o lasciare, alternative non ce ne sono se non quella di una ripresa delle lotte, contro la nuova amministrazione e contro gli stessi sindacati che hanno fornito la copertura “giuridica” all'operazione esuberi da una parte e paghe leggere dall'altra. Come se non bastasse, si è voluto vincolare i lavoratori a una normativa in base alla quale i dipendenti della nuova new company si impegnano a non organizzare scioperi sino al 2015, pena il licenziamento immediato. L'orario di lavoro sarà flessibile a seconda delle necessità dell'impresa; si prevede che a pieno regime la giornata lavorativa potrà essere allungata e che gli straordinari scatteranno solo dopo la quarantesima ora settimanale. In previsione c'è anche un incremento della produttività pari al 35% attraverso una intensificazione dei ritmi di produzione.

Sempre nel protocollo si legge che i lavoratori dovranno anche rinunciare ad alcune festività per meglio contribuire al rilancio dell'impresa perché tutti devono fare la loro parte di sacrifici!!

La conclusione è che le due sponde dell'Atlantico si uniscono per ritornare nel paradiso dei profitti, il proletariato dei metalmeccanici ripiomba nell'ultimo girone dell'inferno, quello dei perenni sacrifici. D'altra parte, nel capitalismo, specie quando è in crisi, l'inferno degli uni è la condizione del paradiso per gli altri.

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Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.