Scontri e massacri in Perù

La lotta dei popoli amazzonici meriterebbe un partito di classe

Se mai un giorno i nativi americani dovessero presentare il conto dei soprusi subiti in oltre cinque secoli di storia da parte dei “bianchi”, cioè per conto e su istigazione delle classi dominanti dei “bianchi”, ci vorrà un calcolatore elettronico potentissimo.

È noto che la bramosia di oro e il fanatismo religioso prima, l'ossessione del profitto e il mito della civilizzazione borghese poi, hanno quasi sterminato le popolazioni amerinde, profondamente degradato le condizioni di vita dei sopravvissuti e gli originari rapporti sociali di tipo comunitario. L'aggressione non si è mai fermata, anzi, ha ripreso slancio negli ultimi decenni, sulla spinta del cosiddetto neoliberismo, tentativo borghese di contrastare o, meglio, di “risolvere” la crisi strutturale del capitalismo manifestatasi più di trent'anni fa. Il copione è sempre quello: le imprese multinazionali e le borghesie locali loro complici cercano di appropriarsi con la violenza e con leggi ad hoc delle terre comuni per sfruttarne a fondo le risorse naturali. Anche se, da un po' di tempo a questa parte, i governi di varia “sinistra” apparsi nel subcontinente latinoamericano dichiarano di voler mettere fine a questo modo di procedere nei confronti degli “indios” - soprattutto per gestire in proprio le immense ricchezze dell'area - finora si è rimasti per lo più nel campo delle belle enunciazioni che in quello delle iniziative concrete. In ogni caso, la “svolta” non riguarda il Perù, dove un governo tuttora apertamente neoliberista ha provocato l'ennesimo massacro per ridurre alle ragioni del mercato le recalcitranti popolazioni indigene.

Facciamo un passo indietro. Alla fine del 2007, il presidente peruviano Alan Garcia stipula con Bush un trattato di libero commercio (TLC) che, eliminando molti dazi doganali, spalanca le porte del mercato statunitense alle merci peruviane, e viceversa. A quel trattato se ne sono aggiunti altri dello stesso tipo con la Cina, il Giappone e la Corea del Sud. Tutto ciò ha favorito l'entrata massiccia di capitali esteri, tanto che l'economia peruviana poteva esibire tassi di crescita notevoli, almeno fino allo scoppio della bolla dei subprime.

Tuttavia, la prosperità economica (o presunta tale) ha, ovviamente, dei costi molto elevati: non solo l'intensificazione dello sfruttamento operaio, ma anche la predazione, il saccheggio sfrenato delle risorse naturali. In fatti, la Ley Forestal, una legge che traduce in pratica i TLC, prevede che decine di milioni di ettari della foresta amazzonica e di terra in generale siano privatizzati, sottraendoli a chi là ci vive da sempre sulla base di strutture sociali comunitarie. Da qui è nata la protesta delle etnie awajùn, achuar e shawi, attuata con il blocco delle strade e del traffico fluviale, accompagnata dalla richiesta di un incontro col governo, il quale, però, non si è nemmeno degnato di rispondere. Anzi, il cinque giugno ha mandato l'esercito e la polizia per sgomberare l'autostrada occupata a Bagua - nord del Perù - dagli “indios”. Ne sono seguiti scontri durissimi, con decine di morti dall'una e dall'altra parte e il mandato di cattura per Alberto Pizango - uno dei leader del movimento - che però ha fatto in tempo a rifugiarsi nell'ambasciata del Nicaragua, ottenendo asilo politico. Il risultato della lotta è che, per il momento, è stata sospesa l'esecuzione del trattato, ma tutti sanno che, da parte del governo, si tratta solo di un espediente per prendere tempo e ritornare all'attacco non appena la situazione sarà ritenuta favorevole. D'altra parte, la sanguinosa repressione pare non aver scalfito la volontà di lotta degli “indios”, ben decisi ad andare avanti ad oltranza per impedire il furto delle loro terre, nonché l'irrimediabile devastazione ambientale che ne conseguirebbe.

La lotta degli awajùn, achuar e shawi è di per sé positiva, non da ultimo perché nessuno, sembra, rivendica una qualche forma di proprietà individuale della terra, mentre si vuole salvaguardarne l'uso collettivo di sempre.

Invece, uno dei limiti di fondo, comune ad altri movimenti simili, è una certa venatura di nazionalismo democratico anti-yankee, che fa parte del tradizionale bagaglio del cosiddetto anti-imperialismo piccolo-borghese latinoamericano, il quale confonde l'opposizione al secolare dominio statunitense con l'anti-imperialismo vero, che non può essere separato dalla critica teorico-pratica al capitalismo in tutte le sue manifestazioni. È anche per questo che la generosissima battaglia delle popolazioni amazzoniche assumerebbe significato pieno e coerente solo se si collegasse alla lotta più generale contro il sistema capitalistico, dunque, in primo luogo, con il proletariato e con le masse povere, non strettamente proletarie, ma che subiscono il peso dell'oppressione borghese. È vero che sono stati cercati contatti coi sindacati e organizzazioni di sinistra, ma costoro sono ben lontani dall'aver iscritto sulle proprie bandiere lo smantellamento del capitalismo. Allora, una volta di più, soprattutto in presenza di movimenti sociali con grosse potenzialità anticapitalistiche, il vero e drammatico limite è la mancanza di un punto di riferimento rivoluzionario, un partito, che raccolga, amalgami, diriga politicamente i fermenti sociali prodotti dagli ineliminabili antagonismi sociali verso l'unica soluzione concretamente possibile, benché tutt'altro che facile: il superamento del capitalismo. Solo in questo modo, il “mondo” dei popoli amazzonici può essere salvato prima e armonizzato poi col resto del mondo; in caso contrario, nonostante la solidarietà e la simpatia che essi ispirano, difficilmente potranno fermare lo schiacciasassi del profitto.

A questo punto, dunque, subentra la responsabilità di chi - gruppi o individui - ancora esita a compiere una coerente scelta di classe, ancora s'illude di poter conciliare la “giustizia sociale”, il rispetto delle culture a/anti-capitalistiche con un capitalismo più ragionevole: metta da parte sterili dubbi, tiri una riga sulle polverose utopie riformiste e dia una mano a costruire il partito internazionale del proletariato e di tutti gli oppressi.

PS. Questa nota era stata scritta prima che il parlamento peruviano - sulla spinta degli scontri e della lotta degli "indios", che non si è mai fermata - ritirasse le due più importanti leggi applicative del TLC. La cosa non cambia, va da sé, la sostanza politica di quanto sopra espresso: si tratta di una vittoria importante, a ulteriore dimostrazione che solo chi lotta può sperare di vincere, ma non certamente risolutiva. Le immense ricchezze dell'Amazzonia fanno troppo gola agli istinti famelici del capitalismo, soprattutto quando la crisi ne morde le carni.