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Immagine - Muro del ghetto di Varsavia
Il fragoroso fallimento della Conferenza sul razzismo Durban II di Ginevra, la visita del Papa in Israele e il massacro di Gaza hanno portato ancora una volta alla ribalta internazionale il dibattito antisionismo/antisemitismo”, dando modo ai vari corifei dell’ideologia dominante di proseguire nella lenta ma inesorabile dissoluzione del primo concetto nel secondo. In generale, c’è sempre un caso Williamson, una dichiarazione di Faurisson o di qualche altro revisionista storico, o un qualsiasi altro pretesto per assestare qualche spallata alla dignità dell’antisionismo.
Anche in Italia lo spiegamento di forze è imponente, dalle più alte cariche dello Stato ai quotidiani a diffusione nazionale: più la politica estera del governo israeliano si fa aggressiva, più qualunque critica a quella stessa politica riceve l’infamante etichetta di antisemita.
“È necessario combattere con successo ogni indizio di razzismo, violenza e sopraffazione contro i diversi, e innanzitutto ogni rigurgito di antisemitismo. Anche quando si traveste da antisionismo”, tuona il Presidente della Repubblica Napolitano, mentre soprassiede sui democraticissimi lager per immigrati, istituiti nel ‘98 da una legge che porta il suo nome. In caso non fosse stato abbastanza chiaro, la massima autorità dello Stato si premura di aggiungere che “Antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano alla guida di Israele” (1), saldando in questo modo le ragioni di allora con la sicurezza di oggi, nel solco dei valori della civiltà democratica occidentale. Gli stessi valori in ragione dei quali George Bush Senior nel 1991 ha proposto e ottenuto l’annullamento della risoluzione ONU 3379 del 1975 che equiparava il sionismo al razzismo: “Il Sionismo non è una politica: è l’idea che portò alla creazione di una Patria per gli Ebrei, lo Stato di Israele. Equiparare il Sionismo all’intollerabile peccato del razzismo significa deformare la storia e dimenticare la terribile tragedia degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale.” (2)
Parallelamente, in un’escalation di bombardamento ideologico e di scivolamento nel paradosso, il Corriere della Sera arriva a pubblicare un sondaggio secondo il quale circa il 44% degli italiani mostrerebbe oggi pregiudizi o atteggiamenti ostili nei confronti degli ebrei (sarebbe interessante discutere del metodo di rilevazione). All’interno di questa gigantesca porzione di cittadini protonazisti, gli antisemiti più radicali sarebbero circa il 12%, ugualmente distribuiti tra estrema destra ed estrema sinistra; settore, quest’ultimo, nel quale il 23% mostrerebbe un atteggiamento “chiaramente antisemita” (3).
Di fronte ad un’operazione così meschina e sfacciatamente mistificante, è compito dei rivoluzionari ridefinire con precisione i confini dei termini in discussione. Alcune parole come antisemitismo, Olocausto e revisionismo sono state così profondamente violentate da perdere il loro originario significato laico per assumerne uno nuovo nel contesto della liturgia di quella che Norman Finkelstein definisce “l’industria dell’Olocausto”, come dal titolo del suo libro. Questo rappresenta un isolato esempio di lucida analisi del funzionamento del gigantesco meccanismo di propaganda che sfrutta le sofferenze patite dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale: “L’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di vittima.” (4)
Uno degli argomenti più convincenti addotti dall’autore del saggio, basato anche sulla sua storia di figlio di sopravvissuti ai campi di sterminio, è l’osservazione di come le vicende degli ebrei durante la seconda guerra mondiale siano state sostanzialmente ignorate dall’opinione pubblica mondiale per circa venti anni. Infatti, fino a quando non fu politicamente vantaggioso, non solo non si assisteva al florilegio di film, libri e musei in ricordo dell’olocausto ebraico, ma addirittura parlarne era considerata negli Stati Uniti un’attività inopportuna perché offensiva nei confronti della Germania Federale, prezioso alleato nell’ambito dello scontro interimperialistico con l’Unione Sovietica. Un esempio per tutti: nel 1955 il film documentario francese Nuit et Brouillard di Alain Resnais suscitò violente polemiche in Germania per l’imbarazzo circa il recente passato, in Francia per le evidenti analogie tra la politica del governo nazista e quella francese durante la guerra d’Algeria e in URSS a causa delle possibili allusioni ai gulag sovietici.
Gli argini si ruppero nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni: “Colpiti dall’impressionante spiegamento di forze israeliano, gli Stati Uniti si mossero per farne una loro risorsa strategica. [...] Il sostegno militare ed economico cominciò ad affluire quando Israele si trasformò in un procuratore del potere americano in Medio Oriente.” (5)
Da allora, si assiste alla progressiva costruzione di un mastodontico apparato volto ad alimentare una visione mistica dell’Olocausto, sotto la costante minaccia del pericolo di una recrudescenza dell’antisemitismo a livello mondiale, a partire dal Medio Oriente. Basti pensare ad esempio che oggi il principale gruppo di pressione sul governo della prima potenza del mondo è la lobby sionista AIPAC (American Israel Public Affairs Committee) e che la stragrande maggioranza delle notizie dal mondo arabo giungono in occidente dopo il filtro del MEMRI (Middle East Media Research Institute), organizzazione fondata da Yigal Carmon, militante per 22 anni nei servizi segreti israeliani e consulente per l’antiterrorismo del governo di Tel Aviv.
Ovviamente, per non cadere in un ingenuo e idealistico cospirazionismo da “Protocolli dei savi di Sion”, va precisato che l’edificazione di un’impalcatura ideologica così imponente non potrebbe essere mai imputata al semplice sforzo volontaristico delle pur potenti lobby sioniste, ma si comprende attraverso l’elemento oggettivo dei rapporti di forza economici che ne costituiscono il presupposto materiale. Funzionale a questa strategia globale è la frettolosa classificazione come antisemita di ogni tentativo di comprendere razionalmente i motivi delle persecuzioni ebraiche; la de-storicizzazione del nazismo è parte integrante di questo meccanismo.
Il nazismo a-storico e l’antisemitismo eterno
Ciò su cui si punta per privare il nazismo di un contesto storico e del suo connotato di classe è la sua indubbia specificità, soprattutto geografica. Come sono più impressionanti i massacri compiuti sulla popolazione civile al centro della civilissima Europa! Se americani, belgi, italiani, francesi e inglesi si sono macchiati delle stesse nefandezze, “almeno” loro se la sono presa con nativi americani, congolesi, etiopi, algerini e indiani: popoli lontani e così diversi da noi. Inoltre nonostante la matrice classista del nazismo, la persecuzione ebraica era tendenzialmente trasversale dal punto di vista sociale e ciò terrorizza in profondità il sensibile ceto medio americano e europeo: i deportati non erano solo operai, contadini e poveri, ma anche avvocati, commercianti, membri della borghesia. Ce n’è abbastanza per creare un clima di isteria collettiva per gli anni a venire su cui costruire un fecondo mito, volto evidentemente più alla giustificazione del presente che alla spiegazione del passato.
Alla base di questa operazione, troviamo un interessato atteggiamento idealistico-innatista nei confronti della storia, perfettamente incarnato da Daniel J. Goldhagen nel suo I volenterosi carnefici di Hitler. In questo libro si affronta l’argomento dell’atteggiamento dei “tedeschi comuni” (concetto già di per sé decisamente vago) durante il nazismo, “rifiutando certe etichette comode ma spesso inesatte e fuorvianti come “nazisti” o “SS”, per chiamarli in causa invece per ciò che realmente erano: “tedeschi”. La definizione generale più corretta, anzi l’unica corretta, dei tedeschi che perpetrarono l’Olocausto è “tedeschi”. Erano tedeschi che agivano nel nome della Germania e del suo popolarissimo leader, Adolf Hitler.” (6)
Consapevole forse di scivolare in un grottesco “antisemitismo al contrario”, Goldhagen prova a specificare il suo pensiero, peggiorando ulteriormente la sua situazione: “certo, talvolta è corretto fare riferimento a qualifiche e ruoli istituzionali e professionali, così come ai più generici termini di “realizzatori” o “assassini”, ma sempre e soltanto partendo dal presupposto che tali persone erano prima di tutto tedeschi, e solo in secondo luogo SS, poliziotti o guardie dei campi.” (7)
Tutti in un unico calderone quindi, legati dal sacro vincolo della nazione: dagli operai, ai ricchi industriali, fino a tutti gli oppositori interni. Non una parola ovviamente sul fatto che proprio in Germania esisteva fino a pochi anni prima della presa del potere di Hitler, uno dei più forti partiti comunisti d’Europa, guidato alla nascita da personalità del calibro di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, né sulle leggi antisocialiste di Bismarck, sulla rivoluzione del 1918, sulla Lega di Spartaco, o su tutti i comunisti rivoluzionari decimati dall’azione combinata della Socialdemocrazia prima e del nazismo poi. Il libro prosegue spiegando come, nell’approcciarsi ai “tedeschi” (quindi, ci permettiamo di notare, anche a Marx ed Engels... ma non a Hitler, austriaco) sia necessario abbandonare ogni categoria di analisi applicabile al resto del genere umano. Riferendosi all’impossibilità di un affrancamento dall’antisemitismo da parte della cultura tedesca, l’autore afferma: “Se, invece di lasciarci guidare dal diffuso presupposto che i tedeschi fossero simili a noi, facessimo partire la nostra analisi dalla posizione opposta, e molto più ragionevole - cioè che nel periodo nazista i tedeschi in genere fossero devoti al credo antisemita allora pervasivamente prevalente - , diverrebbe impossibile dissuaderci da questa convinzione.” (8)
Si potrebbe archiviare un contributo di una così infima levatura nella categoria delle bizzarre elucubrazioni a là Lombroso, se non fosse per il fatto che esso incarna la forma mentis peculiare di tutti i diligenti servitori (anche inconsapevoli) dell’industria dell’Olocausto, nonché della cultura dominante ricompattatasi dopo la guerra sotto l'ombrello di un generico quanto mistificante antifascismo interclassista. La ricetta è semplice: anestetizzare le possibili valenze anticapitalistiche dell’antinazismo, stemperandolo in una mansueta variante del nazionalismo: in Italia Togliatti, mentre si appella ai “fratelli in camicia nera”, promuove in spregio ai più elementari principi del disfattismo rivoluzionario, un’indiscriminata “caccia al tedesco”.
Le origini del sionismo
Questa stessa mistica vorrebbe sottrarre il sionismo al suo insanguinato retroterra politico per consegnarlo al “mondo delle idee”, come nella dichiarazione di Bush sopra citata.
In realtà il movimento fondato da Theodor Herzl manifesta anche ad un’analisi superficiale il suo retaggio storico-culturale, configurandosi come una sorta di “colonialismo fuori tempo massimo” dagli spiccati tratti nazionalistico-confessionali, legato a filo doppio con la fase di decadenza del capitalismo: “Il sionismo subisce, in ultima analisi, il contagio del razzismo. Rivendicando non la specificità, ma l’alterità essenziale della propria condizione ebraica, cosa che postula l’ineguaglianza delle nazioni, fa sue le tesi antisemitiche, invertendo anche i valori del razzismo antiebraico. Facendo eco ai suoi persecutori,_ _si raffigura “problematicamente” la propria esistenza in una società non ebraica, definendosi quindi implicitamente come elemento perturbatore dell’armonia sociale.” (9)
Una delle priorità di un movimento che volesse combattere le radici razziali dell’odio antisemita dovrebbe essere quella di sottolineare il carattere di gruppo religioso della comunità ebraica: basterebbe notare come all’ebraismo chiunque si può convertire. Ma ciò farebbe perdere molto fascino all’idea di “popolo eletto”. L’ideologia sionista si pone quindi l’obiettivo della valorizzazione di un ipotetico elemento razziale, da saldare in prospettiva con un elemento nazionale-territoriale (una Patria), in linea con le aspirazioni diffuse in Europa a cavallo tra XIX e XX secolo.
Da qui il progetto di una nazione ebraica, di uno stato a base confessionale, dal carattere spiccatamente imperialista e coloniale. Le due leggi cardine dello Stato di Israele (la “Legge del ritorno” e la “Legge sulla nazionalità”), l’osservanza dello Shabbat come festività ufficiale, il divieto di celebrazione del matrimonio civile, nonché il regime di apartheid nei confronti della popolazione araba, confermeranno questa impronta religioso-discriminatoria: “Così le leggi fondamentali di Israele sanciscono indubbiamente una discriminazione di carattere etnico, che giustifica il rifiuto del ritorno dei profughi e stabilisce a beneficio degli israeliani ebrei una specie di statuto di nazione privilegiata. La stridente ingiustizia di questa legislazione è tanto più evidente, in quanto viene rifiutata ai profughi arabi e a un gran numero di arabi che risiedono in Israele quella nazionalità che viene concessa agli ebrei del mondo intero in virtù di un diritto mistico al “ritorno”.” (10)
Risulta in questo senso chiaro come il nemico comune tanto dell’antisemitismo quanto del sionismo sia prima di tutto lo spettro dell’assimilazione dell’ebreo nella società secolarizzata. In ragione di tale contiguità di vedute, non c’è da stupirsi che sionisti e nazisti abbiano collaborato attivamente, prima e durante la seconda guerra mondiale. È cosa nota, ma spesso dimenticata, che i dirigenti sionisti dell’Irgun Zvai Leumi (altrimenti noto come Lehi o “banda Stern”) fecero ai nazisti una proposta di alleanza nel 1941 per lottare contro gli inglesi:
“Il gruppo Irgun Zvai Leumi, consapevole della benevolenza del governo del Reich tedesco e delle sue autorità nei riguardi dell’attività sionista all’interno della Germania e verso il piano di emigrazione sionista, è dell’opinione che:
* Possano esistere interessi comuni riguardo all’istituzione di un nuovo ordine in Europa in conformità con gli ideali tedeschi e con le autentiche aspirazioni nazionali del popolo ebraico incarnate dall’Irgun Zvai Leumi;
* Sia possibile una cooperazione tra la Germania e una rinnovata nazionalità ebraica;
* La proclamazione di uno stato ebraico su basi totalitarie e nazionali, consacrato dal legame con il Reich tedesco, rientrerebbe negli interessi del mantenimento e del rafforzamento delle future posizioni di potere della Germania nel Vicino Oriente.” (11)
A chi venisse in mente di obiettare che si trattasse di un gruppo minoritario, si potrebbe far notare che uno dei suoi componenti di punta era Yitzhak Shamir, futuro ministro degli esteri e primo ministro di Israele, e che il gruppo si sciolse solo per integrarsi nelle Forze di Difesa Israeliane nel 1948. In generale, i circoli nazionalisti ebrei dimostravano una diffusa soddisfazione nei confronti della politica della Germania nazista, “poiché la popolazione ebrea in Palestina sarà da tale linea politica talmente accresciuta che in un futuro prossimo gli ebrei potranno contare su una superiorità numerica di fronte agli arabi.” (12)
Non bisogna infatti dimenticare che lo scopo primo dei sionisti era la creazione di un’entità politico-confessionale ebraica in Palestina, non certo salvare la vita degli ebrei europei. Lo stesso David Ben Gurion, primo dirigente dello Stato d’Israele, nel 1938 affermò risolutamente: “Se sapessi che è possibile salvare tutti i bambini della Germania portandoli in Inghilterra, e solamente la metà di essi portandoli in Eretz Israel, sceglierei la seconda soluzione. Perché non dobbiamo pensare solo alla vita di questi bambini, ma alla storia del popolo d’Israele.” (13)
In nome di questa missione divina (il parallelismo con la jihad islamica è fin troppo lampante) diversi gruppi paramilitari inaugurarono la stagione del terrorismo sionista, anticamera del terrorismo di stato israeliano degli anni seguenti, prendendo di mira le istituzioni internazionali o inglesi e i villaggi palestinesi. Tra le azioni di più alto profilo compiute da quelli che diventeranno i paladini dell’antiterrorismo, possiamo ricordare l’assassinio di Lord Moyne (esponente del governo britannico) e del conte Folke Bernadotte (mediatore delle Nazioni Unite), nonché gli attentati dinamitardi presso l’ambasciata inglese di Roma e il King David Hotel di Gerusalemme o il massacro dei civili del villaggio di Deir Yassin.
Le formazioni protagoniste di queste azioni erano l’Irgun, l’Hagana e la già vista Banda Stern (nata come costola dell’Irgun), tutti gruppi che confluiranno nelle Forze di Difesa Israeliane e forniranno il personale politico di più alto grado dello stato di Israele: da Menachem Begin (Irgun) a Yitzhak Shamir (Banda Stern), fino a David Ben Gurion, Moshe Dayan, Yitzhak Rabin, Shimon Peres e Ariel Sharon (tutti militanti dell’Hagana). D’altronde, le modalità di azione dell’esercito israeliano ricalcano fedelmente quelle delle bande terroristiche: anche Yitzhak Rabin, insignito nientemeno che del premio Nobel per la pace, si profonderà in dettagliate istruzioni ai suoi soldati su come comportarsi con i giovanissimi lanciatori di pietre palestinesi: spezzando loro le braccia. Perché abbandonare determinate pratiche quando risultano efficaci?
Le radici economiche della specificità ebraica
A confutazione della fraseologia biblico-guerrafondaia del sionismo è utile rilevare che gli ebrei, in quanto gruppo religioso, si caratterizzano da sempre per una spiccata eterogeneità etnica e hanno mantenuto nei secoli un’identità specifica solo per ragioni economiche. Il “popolo eletto” risulta essere da sempre un agglomerato di diverse etnie: Ittiti, Cananei, Filistei, Egiziani, Fenici, Greci e Arabi. Con il fluire dei secoli questa disomogeneità è notevolmente aumentata in conseguenza dei matrimoni misti e delle conversioni. A maggior ragione ancora oggi “Non c’è nessuna omogeneità razziale fra, ad esempio, gli Ebrei yemeniti e gli Ebrei del Daghestan. I primi sono di tipo orientale mentre i secondi appartengono alla razza mongolica. Ci sono Ebrei neri in India, Ebrei etiopici (Falascia), Ebrei trogloditi in Africa [nell’isola tunisina di Djerba].” (14)
Il concetto di “razza ebraica” è semplicemente un mito, alimentato in egual misura da antisemiti e sionisti. Ogniqualvolta nella storia hanno cessato di sussistere le ragioni economiche della loro differenziazione, gli ebrei si sono assimilati nei popoli tra i quali vivevano: “Non è quindi l’attaccamento degli Ebrei alla propria fede che spiega la loro preservazione come gruppo sociale distinto ma, al contrario, è appunto la loro preservazione come gruppo sociale distinto che spiega il loro attaccamento alla propria fede.” (15)
Abram Leon sintetizza bene questo meccanismo nel concetto di “popolo-classe”: gli ebrei hanno storicamente rappresentato un gruppo sociale con una funzione economica specifica, una classe. Questa funzione è andata raffinandosi nel corso della storia, a partire dall’economia precapitalistica, per poi seguire l’evoluzione del modo di produzione capitalistico nelle sue fasi medioevale, mercantile, industriale, fino all’attuale fase di declino. In questo senso, il sionismo non è altro che la reazione storica al processo di assimilazione: “L’ideologia sionista, come tutte le ideologie, non è che il riflesso distorto degli interessi di una classe, l’ideologia della piccola borghesia ebrea che soffoca tra le rovine del feudalesimo e il capitalismo in declino.” (16)
Il capitalismo pone le basi per la soluzione della questione ebraica, abbattendo i presupposti materiali della discriminazione. Ma solo in una società comunista si può completare questo processo di assimilazione, mentre la fase di decadenza del capitalismo porta all’estremo qualsiasi pretesto razziale-nazionale-religioso a sostegno delle politiche imperialistiche dei diversi Stati: e ciò è esattamente quello che avviene nella Germania degli anni ‘30. Un'analisi di questo tipo dovrebbe essere sufficiente per eliminare qualsiasi remota possibilità di legame tra marxismo e antisemitismo, con buona pace dei sondaggisti del Corriere della Sera.
Il revisionismo storico
Di fronte ad un quadro di così netta distanza tra fatti storici e costruzione propagandistica, si fa comprensibilmente allettante la prospettiva di condurre un’indagine storica tendente a ridimensionare il mito costruito dalla retorica olocaustica. Quanto una tale eventualità sia temuta è dimostrato dalla legislazione punitiva di alcuni Stati (Austria, Belgio, Francia, Germania) nei confronti della messa in discussione dell’olocausto nazista. Norme che puniscono il “reato di revisionismo” sono state introdotte anche in Australia, Nuova Zelanda, Svezia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Portogallo e Spagna: in generale è prevista la reclusione, che può arrivare fino a dieci anni. Tutto questo dimostra come anche la parola revisionismo abbia subito un processo di trasformazione del semplice significato della parola in giudizio preventivo sulle intenzioni dei revisionisti. Se infatti, come è prevedibile, una parte delle ricerche in questo campo sono state condotte da simpatizzanti del nazismo in cerca di argomenti in difesa del regime hitleriano, esiste una consistente cerchia di revisionisti di sinistra che non hanno niente a che fare con l’antisemitismo e che, animati da propositi di demistificazione, sono convinti di aiutare la causa rivoluzionaria. Nonostante questo, però, anche se ogni marxista dovrebbe dimostrare una buona predisposizione verso lo smascheramento delle costruzioni ideologiche e verso l’approccio scientifico al problema, i revisionisti di sinistra non centrano il bersaglio e anzi finiscono per svolgere un lavoro controproducente.
Le loro ricerche riguardano infatti principalmente due classi di questioni: la contabilità delle vittime e le modalità delle uccisioni. È piuttosto semplice dimostrare come su entrambi questi fronti l’azione dei revisionisti sia sterile. La retorica olocaustica, non potendo insistere più di tanto sull’elemento dell’intenzionalità dei nazisti (non si capisce perché le uccisioni degli alleati tramite bombardamento sarebbero “meno intenzionali”) punta sul lato quantitativo o sulle modalità dello sterminio nazista e si serve anche delle cifre, i 6 milioni di morti, come strumento di propaganda. Ciò risulta chiaro sia dalla mancanza di scientificità con le quali tali cifre sono state inizialmente determinate (le confessioni in stile staliniano di Norimberga), sia per la leggerezza con cui vengono progressivamente ritoccate: nel sopracitato documentario francese del 1955 si parla ad esempio di 10 milioni di morti, successivamente ci si è attestati su 6 milioni, rimasti tali nell’immaginario collettivo, anche se nel 1990 sulla lapide di Auschwitz-Birkenau i 4 milioni originari sono stati portati con un tratto di penna a 1,5; Raul Hilberg ne La distruzione degli Ebrei d’Europa parla di 5,1 milioni, dei quali 1 ad Auschwitz.
Di fronte a questo disgustoso gioco delle cifre, in cui svariati milioni di persone vengono “uccisi o resuscitati” come se nulla fosse, una posizione coerentemente marxista dovrebbe adoperarsi per sottolineare l’offensiva inutilità della contabilità dei morti: l’aspetto numerico non dovrebbe in nessun caso costituire un elemento dirimente sul giudizio del nazismo, né della fondazione dello stato di Israele, né della sua politica di oggi. Il revisionista, scendendo nell’arena delle cifre, si pone invece sullo stesso piano della storiografia ufficiale, confortando indirettamente la centralità di un elemento periferico, benché si tratti di milioni di morti. L’operazione quindi, non rientra però in nessun caso tra le priorità dei comunisti, che farebbero meglio a soffermarsi sul connotato di classe nel nazismo piuttosto che inseguire i custodi della storia sul loro terreno privilegiato.
Una critica materialistica non dovrebbe indugiare troppo sugli aspetti fenomenici dei fatti, ma contestualizzarli nel quadro dei rapporti di classe, di ieri come di oggi. L’ossessiva ricerca di una specificità a-storica della persecuzione degli ebrei e la sua continua celebrazione mediatica presenta infatti una precisa ricaduta sul presente: distogliere l’attenzione dalla realtà degli attacchi sempre più violenti ai lavoratori, cominciando da quelli stranieri. Si tende a presentare la politica nazionalsocialista nei confronti degli ebrei come “demoniaca” per sottrarla al confronto con la politica di oggi, non solo di Israele, ma anche dei paesi “occidentali”. Il parallelo tra lager nazisti e centri di detenzione per immigrati è troppo scomodo per essere semplicemente accennato, anche solo in prospettiva; ma perché la discriminazione nazista basata sulla religione (resa arbitrariamente razza) dovrebbe essere peggiore di quella odierna basata sulla nazionalità? In entrambi i casi si tratta di deviare uno spontaneo sentimento anticapitalista delle masse su un falso obiettivo. In questo senso borghesi, democratici e sionisti condividono le stesse strategie.
Per tutti questi motivi è essenziale rivendicare a gran voce tanto il nostro antisionismo quanto la nostra distanza incolmabile dall’antisemitismo, arma ideologica che lasciamo volentieri ai nostri avversari di classe: siamo sicuri che saranno loro a rispolverarla non appena ne sentiranno il bisogno. D’altronde, per quanto si provi a farlo dimenticare, il nazismo è parte integrante della storia della borghesia occidentale.
Davide Rizzo(2) Trad. George Bush: Address to the 46th Session of the United Nations General Assembly in New York City: presidency.ucsb.edu
(4) Norman G. Finkelstein, “L’industria dell’Olocausto”, BUR Saggi, 2004, pag. 9.
(5) Idem, pag. 31.
(6) Daniel Jonah Goldhagen, “I volenterosi carnefici di Hitler”, Mondadori, 1997, pag. 7.
(7) Idem, pag. 7.
(8) Idem, pag. 33.
(9) Nathan Weinstock,“Storia del sionismo”, Massari editore, 2006, Primo Volume, pag.50.
(10) Idem, Secondo Volume, pag 36.
(11) Trad. “Fundamental Features of the Proposal of the National Military Organization in Palestine (Irgun Zvai Leumi) Concerning the Solution of the Jewish Question in Europe and the Participation of the NMO in the War on the Side of Germany”, marxists.de
(12) Trad. Heinz Hohne, “The Order of the Death’s Head”, pag. 337 cit. in Lenni Brenner, “Zionism in the Age of the Dictators”, Copyright © 1983 Lenni Brenner, marxists.de
(13) Trad. Yoav Gelber, “Zionist Policy and the Fate of European Jewry” (1939-42), Yad Vashem Studies, vol.XII, p.199 cit in Lenni Brenner: “Zionism in the Age of the Dictators”, Copyright © 1983 Lenni Brenner, marxists.de
(14) Abram Leon,“Il marxismo e la questione ebraica”, Samonà e Savelli, 1968, pag 204.
(15) Idem, pag. 33.
(16) Idem, pag 210.
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- 1928: First five-year plan
- 1928: Left Fraction of the PCd'I
- 1929: Great Depression
- 1950s
- 1970s
- 1969-80: Anni di piombo in Italy
- 1971: End of the Bretton Woods System
- 1971: Microprocessor
- 1973: Pinochet's military junta in Chile
- 1975: Toyotism (just-in-time)
- 1977-81: International Conferences Convoked by PCInt
- 1977: '77 movement
- 1978: Economic Reforms in China
- 1978: Islamic Revolution in Iran
- 1978: South Lebanon conflict
- 2010s
- 2010: Greek debt crisis
- 2011: War in Libya
- 2011: Indignados and Occupy movements
- 2011: Sovereign debt crisis
- 2011: Tsunami and Nuclear Disaster in Japan
- 2011: Uprising in Maghreb
- 2014: Euromaidan
- 2016: Brexit Referendum
- 2017: Catalan Referendum
- 2019: Maquiladoras Struggle
- 2010: Student Protests in UK and Italy
- 2011: War in Syria
- 2013: Black Lives Matter Movement
- 2014: Military Intervention Against ISIS
- 2015: Refugee Crisis
- 2018: Haft Tappeh Struggle
- 2018: Climate Movement
Persone
- Amadeo Bordiga
- Anton Pannekoek
- Antonio Gramsci
- Arrigo Cervetto
- Bruno Fortichiari
- Bruno Maffi
- Celso Beltrami
- Davide Casartelli
- Errico Malatesta
- Fabio Damen
- Fausto Atti
- Franco Migliaccio
- Franz Mehring
- Friedrich Engels
- Giorgio Paolucci
- Guido Torricelli
- Heinz Langerhans
- Helmut Wagner
- Henryk Grossmann
- Karl Korsch
- Karl Liebknecht
- Karl Marx
- Leon Trotsky
- Lorenzo Procopio
- Mario Acquaviva
- Mauro jr. Stefanini
- Michail Bakunin
- Onorato Damen
- Ottorino Perrone (Vercesi)
- Paul Mattick
- Rosa Luxemburg
- Vladimir Lenin
Politica
- Anarchism
- Anti-Americanism
- Anti-Globalization Movement
- Antifascism and United Front
- Antiracism
- Armed Struggle
- Autonomism and Workerism
- Base Unionism
- Bordigism
- Communist Left Inspired
- Cooperativism and autogestion
- DeLeonism
- Environmentalism
- Fascism
- Feminism
- German-Dutch Communist Left
- Gramscism
- ICC and French Communist Left
- Islamism
- Italian Communist Left
- Leninism
- Liberism
- Luxemburgism
- Maoism
- Marxism
- National Liberation Movements
- Nationalism
- No War But The Class War
- PCInt-ICT
- Pacifism
- Parliamentary Center-Right
- Parliamentary Left and Reformism
- Peasant movement
- Revolutionary Unionism
- Russian Communist Left
- Situationism
- Stalinism
- Statism and Keynesism
- Student Movement
- Titoism
- Trotskyism
- Unionism
Regioni
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