Dal paese delle fiabe e dell’amore

C'era una volta...

Parlando del Bel Paese, non si potrebbe cominciare in altro modo che ricorrendo alla formula delle fiabe, se dovessimo “informarci” unicamente coi bollettini da Istituto Luce di mussoliniana memoria comunemente chiamati telegiornali. Avremmo l'impressione di vivere in un posto abitato da tante fatine buone (del..., parafrasando Kubrick) e da cattivissimi orchi, in un posto in cui le notizie sui cappottini per cani occupano molto più spazio, sui bollettini suddetti, di un operaio disoccupato che si dà fuoco per disperazione o della povera gente che lotta per un'abitazione decente tra uno sfratto, una carica della polizia e le promesse non mantenute delle autorità. Guai a parlare di queste cose: non va tutto nel migliore dei modi nel migliore dei mondi possibili? E gli orchi, appunto, non ci devono, in fondo, fare molta paura, perché i nostri principini più o meno azzurri non stanno mai con le mani in mano e vegliano costantemente su di noi; se qualche cattivo si azzarda a mettere fuori il naso dalla sua caverna, zacchete!, viene preso e sbattuto in galera. Meglio ancora: benché la convenzione di Ginevra sui rifugiati politici (tali sono tanti “cattivi”) prescriva esattamente il contrario, non gli viene neppure concesso di toccare le sacre sponde, viene affogato in mare, riconsegnato per il trattamento speciale di rieducazione alla democrazia nelle civilissime mani dell'amico Gheddafi: non per niente, a questo signore “abbiamo” appena regalato motovedette nuove fiammanti e un pacco di miliardi, da spartire, nel caso, con qualche imprenditore italico.

Dunque, l'orco è l'immigrato? Ovvio! L'ha detto e ribadito il fatino buono per eccellenza, in arte presidente del consiglio: immigrazione vuol dire criminalità. Se lo dice lui, che, essendo o essendo stato sotto processo un sacco di volte - per quanto, finora, da innocente - di criminalità, almeno per sentito dire, se ne intende, qualcosa di vero ci deve essere. In effetti, un'inchiesta condotta da Tito Boeri - comunista notorio... o no? - conferma una volta di più come l'immigrazione, specie quella senza permesso di soggiorno, sia immersa fino alla punta dei capelli nella delinquenza. Il punto, però, è: delinquenza da parte di chi?

Secondo quella indagine, che mette in numeri ciò che quotidianamente vediamo o intuiamo, la grande maggioranza dei 422 mila immigrati clandestini (il 66%) lavora regolarmente, ma, va da sé, in nero, con tutto ciò che ne consegue. L’80% lavora il sabato e quasi il 32% anche la domenica; il 38% sgobba di notte, contro il 22% degli immigrati col permesso di soggiorno. Le paghe sono ancora più basse di quelle dei regolari (il che è tutto dire), dato che, per fare un esempio, il 40% guadagna meno di 5 euro l’ora, quando tra i regolari la percentuale è del 10% (tutti i dati sono tratti dall’articolo di V. Polchi, la Repubblica on-line, 1-2-10). Peggio di tutte stanno, come sempre, le donne, pagate il 17% in meno. E si sta parlando di operaie, badanti ecc., non delle schiave costrette a prostituirsi.

Che dire, poi, dei cosiddetti infortuni sul lavoro, espressione ipocrita per abbellire ciò che in tanti casi si tratta di veri e propri assassinii? Cresce il numero degli immigrati irregolari vittime di incidenti sul lavoro (degli incidenti o dei padroni?), nonostante le statistiche siano necessariamente arrotondate per difetto, vista la condizione di clandestinità:

in totale gli infortuni occorsi agli stranieri rappresentano il 16,4% di tutti gli eventi registrati in Italia […] ogni sei operai uccisi o feriti mentre lavorano, uno è straniero. Un dato che va letto alla luce del fatto che gli immigrati rappresentano solo il 7% della forza lavoro.” (Polchi, cit.)

E’ inutile aggiungere che se gli immigrati, e in particolare quelli clandestini, in proporzione muoiono o si fanno male più degli italiani, è perché le condizioni di lavoro sono spesso decisamente peggiori da ogni punto di vista. Se poi qualche lavoratore clandestino nutre ancora illusioni sulla vera natura della legalità borghese e, sulla base della medesima legalità, denuncia il padrone per l’infortunio subito, beh, non è affatto da escludere l’eventualità che sia espulso, com’è successo più di una volta. Allora, i principini azzurri di cui si parlava, per togliere dall’imbarazzo il lavoratore clandestino, incerto se denunciare o meno il padrone schiavista, hanno avuto la bella pensata di stralciare al senato (il 28 gennaio scorso) l’articolo contenuto in una legge comunitaria che dà la possibilità agli immigrati in “nero”di denunciare i padroni e di ottenere in tal modo il permesso di soggiorno. Ora, sappiamo bene che le leggi borghesi sono fatte per essere eluse (dai borghesi), soprattutto in materia di lavoro, ma è significativo che il governo non faccia nemmeno finta di schierarsi contro il moderno schiavismo: per evitare una sanatoria mascherata, dice l’ineffabile Gasparri. Per una volta, c’è da credergli, perché tra i più entusiastici sostenitori dell’attuale maggioranza ci sono industriali, industrialotti, industrialini che senza lo sfruttamento “manchesteriano” del lavoro nero (in primo luogo, ma non solamente, degli immigrati) avrebbero chiuso la baracca da tempo. Senza contare, ma questo è un dettaglio, che tra PdL e Lega Nord si gioca a “chi è più razzista” - come ricorda l’ultima uscita, incompetente e ripugnante, della Gelmini sul “tetto” agli immigrati nelle classi - per accaparrarsi i voti di un elettorato opportunamente spaventato con un bombardamento a tappeto mediatico sull’invasione degli “orchi”.

Visto che la forsennata campagna anti-immigrati ha non poche somiglianze con quella orchestrata dai nazisti per deviare sugli ebrei le angosce sociali scatenate dalla crisi del 1929; visto che gli immigrati recitano spesso - loro malgrado - la parte attribuita dai nazisti ai popoli ritenuti inferiori (tipo gli slavi), cioè manodopera semischiavistica, un passo avanti nella chiarezza sarebbe quello di assegnare per legge a tutti gli immigrati un segno distintivo, saltando così le antipatiche trafile burocratiche dei permessi di soggiorno: portando il distintivo, gli immigrati avrebbero il diritto di stare in Italia e i padroni di farne quello che vogliono. Si potrebbe commissionare a qualche stilista di grido la creazione di uno stemma, magari col simbolo del biscione o della ruota padana (padana?!), da applicare sugli abiti degli immigrati (o per essere più alla moda, un tatuaggio), di colore diverso a seconda dei paesi di provenienza: marrone, giallo, bianco tendente all’abbronzato e così via. Una volta, il sistema ha funzionato, eccome, perché non dovrebbe funzionare anche oggi? E’ solo un’idea buttata lì, naturalmente, che, con modestia, offriamo al “nostro” governo. Lo facciamo anche per farci perdonare lo scetticismo con cui ascoltiamo le sue incredibili fiabe…

CB, 2010-02-04

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.