Petraeus e la questione palestinese

Tutte le volte che l’imperialismo americano è in crisi di strategia e d’immagine politica in Medio Oriente, la questione palestinese s’inserisce nel taccuino delle priorità americane. Era già successo ai tempi di Clinton, di Bush Junior e adesso di Obama. Negli ultimi due mesi c’è stata una frenetica attività diplomatica americana presso il governo israeliano. Prima il vice presidente Biden, poi Hillary Clinton, ed infine lo stesso presidente americano, hanno cercato in tutti i modi, pressioni comprese, di convincere Netanyahu a sospendere il progetto di nuovi insediamenti a Gerusalemme est.

La questione degli insediamenti non è nuova, va avanti dal giugno del 1967, è stata alla base del fallimento degli accordi di Oslo-Washington del settembre 1993, ed è proseguita sino ai nostri giorni senza che i vari governi americani avessero fatto una piega.

Casa è cambiato? L’amministrazione Obama vuole dare effettiva soluzione alla questione palestinese sul logoro progetto “due popoli, due stati”? Oppure siamo alle solite manfrine dove la questione palestinese viene impugnata nel momento in cui l’imperialismo americano ha bisogno di una nuova strategia in Medio Oriente? E' cambiato che la crisi economica sta mettendo a nudo le debolezze dell’ormai ex grande potenza americana; è cambiato che i fallimenti in Afghanistan e Iraq impongono una strategia meno dispendiosa da un punto di vista economico e più efficace sul terreno politico.

A dirlo non è un personaggio qualsiasi dell’amministrazione Obama, ma il generale Petraeus, già comandante in capo in Iraq sotto l’amministrazione Bush e oggi ascoltato analista anche in campo democratico. Le sue recenti dichiarazioni lasciano ben poco spazio ad impossibili voli di fantasia e palesano, sino all’evidenza, il loro vero quanto strumentale contenuto. Lo stratega militare, come ben si conviene a chi dell’imperialismo americano conosce i limiti e la feroce determinazione, pone al primo posto delle sue priorità un unico obiettivo: che quanto investito in termini finanziari, strategici e di uomini in Medio Oriente, non venga completamente vanificato dal comportamento dell’alleato israeliano, sì importante, ma non al punto da compromettere la già debole e delicata situazione americana nell’area.

David Petraeus si è espresso in termini molto duri nei confronti dell’inflessibilità israeliana sugli insediamenti a Gerusalemme est. Se Washington continua ad essere percepita come “amica” unilaterale di Tel Aviv, a rischiare sono le truppe statunitensi in Medio Oriente e in Asia Centrale. Se Israele continua a mantenere posizioni così rigide, senza nemmeno prendere in considerazione le necessità del suo grande alleato, il processo di pace non andrà avanti e a risentirne saranno i già deboli equilibri dell’intera regione e le aspirazioni della Casa bianca. Che Israele, sembra dire il generale, persegua pure i suoi interessi, ma se questi mettono in crisi le strategie di Washington, allora le cose possono cambiare. In un’audizione ufficiale, in presenza del capo di Stato Maggiore, l’ammiraglio Michael Mullen, Petraeus ha dichiarato esplicitamente che:

«La rabbia degli arabi aiuta al Qaeda e Hamas e aumenta l’influenza dell’Iran nella regione oltre ad indebolire la legittimità dei regimi moderati nel mondo arabo.»

Come dire che, se i rapporti tra Israele e i palestinesi dovessero continuare sui medesimi binari, si farebbe il gioco del nemico, gli Usa ne sarebbero svantaggiati sul piano dell’immagine e indeboliti su quello politico. Per cui impugnare strumentalmente la questione palestinese, dare un contentino ad Abu Mazen e premere perché il governo israeliano sia meno intransigente su quanto proposto dagli emissari di Obama, potrebbe essere una buona strategia, anche perché altre non ce ne sono al sempre più basso orizzonte dell’imperialismo americano. Un leggero tocco di bastone a Tel Aviv e una manciata di carote in quel di Ramallah, potrebbero essere i futuri cardini su cui far scorrere la “nuova” strategia in Medio Oriente in chiave anti Hamas e Hezbollah. Ci sono i conti da fare con l’Iran e i suoi padrini di Mosca e Pechino che hanno ben presente il contenuto della solita partita in Asia centrale e nelle sue immediate propaggini mediterranee. A rimetterci, come al solito, è il proletariato dell’area e quello palestinese in particolare. Stretto nella doppia morsa delle due tenaglie borghesi, quella laica, corrotta e inconcludente dell’erede di Arafat, e quella integralista di Haniyeh, il proletariato palestinese non ha nessuna possibilità di scampo. Per giunta, le due componenti borghesi sono i terminali interni delle manovre imperialistiche internazionali che fanno della sua miseria lo strumento politico dei loro interessi.

Il proletariato palestinese, con tutto il proletariato medio-orientale, la soluzione se la deve cercare da solo, non sul terreno nazionalistico, oltretutto al traino di questo o quell’imperialismo di turno, ma con una forte ripresa della lotta di classe, autonoma dai condizionamenti borghesi, con un proprio partito, per dare inizio ad una prospettiva che esca dalla logica del capitalismo domestico e dell’imperialismo internazionale. Altrimenti ci sarà sempre un Petraeus di turno che suggerirà alla sua borghesia quali speranze coltivare, in che modo comportarsi, in quale quadro muoversi, sempre e comunque all’interno dei soliti interessi imperialistici, che cambiano di tattica ma non nei contenuti.

FD

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.