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Home ›Gaza: perché tanta violenza?
L’operazione delle teste di cuoio israeliane al largo delle coste di Gaza poteva essere gestita in mille altri modi. Invece il Governo Netanyahu ha voluto dare una dimostrazione di forza sino ad uccidere nove attivisti che, con una piccola flotta di sei navigli ed altri seicento partecipanti, stavano portando aiuti umanitari agli abitanti di Gaza, da due anni sotto embargo, deciso unilateralmente dal Governo di Tel Aviv. Il tutto è avvenuto in acque internazionali, lontano sia dalle coste di Gaza sia da quelle israeliane.
Andando oltre le diverse versioni di parte, compresa quella ridicola del Ministro Frattini, ciò che è avvenuto in quella zona di mare non è stato un incidente dovuto alla “inopportuna” provocazione turca (le navi erano di compagnie turche, sono partite dal porto turco di Antalya con il beneplacito del governo turco) e alla “eccessiva” determinazione dei Reparti speciali israeliani nel tentativo di mantenere il blocco attorno a Gaza, bensì si è consumata la rottura tra i due Stati, dopo un lungo processo di logoramento, che ha trovato nel grave episodio solo la strumentale occasione per deflagrare.
L’antica alleanza, datata 1996, anno in cui i due governi avevano siglato una serie di accordi di natura commerciale, idrica e militare, è andata immediatamente in frantumi. Il governo di Ankara ha ritirato i suoi ambasciatori, ha chiesto formalmente un atto di condanna da parte dell’Onu e ha stracciato tutti gli accordi precedenti. Accordi fortemente voluti dagli Usa nel tentativo di costituire un terminale petrolifero nel Mediterraneo che avrebbe raccolto, e poi distribuito, le risorse energetiche provenienti dall’area caspica. Turchia e Israele ne sarebbero stati il punto geografico di applicazione e il gendarme armato, in chiave strategica contro le ambizioni di Russia e di Iran, con tutti i vantaggi economici e politici del caso.
Ma le cose non sono andate secondo i piani di Washington. L’imperialismo americano, nonostante l’impiego massiccio di mezzi e investimenti, ha subito una serie impressionante di rovesci politici e militari che lo hanno portato nel vicolo cieco di ben due guerre, la prima in Afghanistan e la seconda in Iraq, senza ottenere il benché minimo risultato. In compenso, gli imperialismi concorrenti, Russia in primis, e Cina, si sono garantiti la posta energetica in palio, stabilendo una serie di alleanze con i maggiori paesi produttori di petrolio e di gas naturale dell’area centro-asiatica, con appendici strategiche anche in Iran e Siria. Il diminuito peso specifico imperialistico americano, l’accresciuto ruolo della Russia nel campo energetico hanno cambiato progressivamente gli equilibri anche nel basso Mediterraneo.
Fiutata l’aria, il Governo di Ankara ha progressivamente spostato il suo asse di allineamento verso la Russia, verso i suoi alleati periferici quali la Siria e l’Iran, stabilendo accordi di natura politica, commerciale ed energetica, svuotando di fatto la vecchia alleanza con Israele. Non solo, ma il nuovo orientamento andava proprio nella direzione dei nemici giurati di Tel Aviv, rendendo furiosi i vari governi israeliani, non ultimo, quello di Netanyahu. La nuova politica turca ha come perno centrale l’obiettivo di diventare il fulcro principale di accoglimento di una serie di oleodotti e gasdotti asiatici, oltre al già funzionante Btc, in collaborazione con Iran, Iraq e qualsiasi altro paese che possa avere un qualche interesse energetico e/o geografico nell’area interessata. Per ottenere un simile risultato, la propensione politica del mini imperialismo turco è inevitabilmente quella di stabilire una serie di buoni rapporti con i vicini che contano, di presentarsi come paese affidabile e, soprattutto, di perseguire una politica di “no problems” attorno ai suoi confini.
In questo contesto, il vecchio alleato israeliano era più fonte di problemi che di vantaggi. La perenne tensione fornita dalla questione palestinese, lo scontro con Hamas, l’operazione “piombo fuso” di due anni fa, le ulteriori tensioni innescate dall’embargo nei confronti della striscia di Gaza hanno colmato la misura e creato le condizioni perché la rottura definitiva tra i due paesi fosse soltanto una questione di tempo.
Già nel gennaio di quest’anno il governo turco si è reso interprete di un incidente diplomatico nei confronti di Israele. La tv di stato ha mandato in onda un filmato in cui si vedevano degli agenti del Mossad che uccidevano dei bambini palestinesi, in una sorta di palese denuncia delle atrocità di cui è capace lo Stato d’Israele pur di salvaguardare la sua integrità politica e territoriale. La provocazione turca ha fatto letteralmente imbufalire il governo israeliano, si è sfiorata la crisi politica tra i due governi, e i successivi chiarimenti tra il vice ministro degli esteri Ayalon e l’ambasciatore turco Celikkol non sono serviti a sanare la crisi né ad allentare la tensione. Anche perché il primo ministro Erdogan, in varie occasioni, ha più volte espresso il concetto che Hamas non può essere considerato un gruppo terroristico, schierandosi di fatto dalla parte dei nemici giurati d’Israele.
In rapida sequenza, il distacco da Israele e il progressivo avvicinamento all’Iran e ai suoi tutori internazionali, si è formalizzato nella proposta di Ankara di arricchire l’uranio iraniano, di dare sostegno al progetto nucleare, di fare cioè del nemico numero uno di Israele il suo più stretto alleato. Come se non bastasse, la Turchia ha formalizzato con Mosca un accordo di cooperazione nucleare che in prospettiva andrà ulteriormente a rafforzare il fronte imperialistico russo nell’area che va dal Mediterraneo meridionale al centro Asia, a danno dell’asse Usa – Israele. Ecco perché l’episodio delle navi degli attivisti, salpate dal porto turco di Antalya, con la benedizione di Erdogan, è stato interpretato da Israele come l’ennesima e insopportabile provocazione. Da qui l’isterica e violenta reazione delle teste di cuoio israeliane con le devastanti conseguenze per le nove vittime civili.
La crisi mondiale del capitalismo sta ridelineando gli equilibri imperialistici internazionali, rende più aggressive le borghesie nazionali, accelera i processi di accaparramento dei mercati delle materie prime, gas e petrolio innanzi tutto, mentre i meccanismi speculativi continuano imperterriti il loro perverso gioco sui mercati finanziari internazionali. Quello di Gaza non è stato, dunque, un incidente, grave quanto si vuole, ma un regolamento di conti tra due mini imperialismi all’interno di uno scenario rappresentato da violenti assestamenti per i nuovi equilibri dei maxi imperialisti. Sulla pelle degli ignari attivisti si è giocata una piccola, tragica partita, dai grandi contorni strategici.
FD, 2010-06-11Battaglia Comunista
Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
Battaglia Comunista #7
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