Nudi alla meta con “politiche economiche di qualità e sviluppo”

Lo ammettono tutti: la riduzione dei salari diretti, indiretti e differiti (prestazioni sociali e pensioni) è un fatto concreto. In vent’anni - dati ufficiali - il valore degli stipendi in Italia rispetto al Pil è crollato del 13% (l’8% nei 19 paesi più avanzati), con buste paga che oggi risultano inferiori del 32% rispetto alla media dell’Europa a quindici (dati OCSE). Una vera e propria “deflazione salariale”. Il reddito pro capite è statisticamente indietreggiato ai livelli di fine anni Novanta; così consumi e produzione industriale. Gli attacchi al “costo del lavoro” cominciarono nel 1993 (fine scala mobile e accordi Confindustria-Sindacati). La politica dei redditi pretendeva di “creare risorse per le imprese, da finalizzare al sostegno dei costi di ricerca, innovazione tecnologica e sviluppo nazionale. Al fine di rafforzare la competitività del sistema produttivo nazionale”. I risultati sono evidenti.

Qual’è la vera preoccupazione dei capitalisti “sani e progressisti”? Ammesso che un più basso costo del lavoro potrebbe essere un fattore positivo per la competitività, il guaio - questi i lamenti - è che si disincentivizzano le innovazioni dei processi tecnologici e quindi non si alza la produttività del lavoro. Qualche profitto nel breve ma effetti negativi nel lungo periodo…. Quanto alle concentrazioni, da rivalutare senza il benché minimo senso del… pudore, qualche “esperto” ricorda ai monopoli il vantaggio che ricavano dalle loro particolari rendite, ottenendo quindi “margini di profitto significativi”. E’ questo il progresso: altro che il “piccolo è bello” sbandierato tempo fa; largo “ai distretti industriali e al capitalismo molecolare”! Ora la competitività richiede economie di scala. Si consiglia perciò ai capitalisti (in primis Marchionne) di puntare maggiormente sulla riduzione del tempo di lavoro necessario (plusvalore relativo) che aumenta (evviva il “progresso”!) la quota di lavoro non pagato, ossia il saggio del plusvalore. Occorrono innovazioni tecnologiche che incrementino la quantità di merci prodotte dalla medesima forza-lavoro (anzi, riducendola!) in pari tempo.

Peccato, aggiungiamo subito noi, che anziché liberare il proletariato dalla schiavitù di otto ore giornaliere in fabbrica e mettendogli a disposizione tutto ciò che sarebbe disponibile per condizioni di vita umane, si getta in strada - a… riposo, sì, ma senza salario! – gran parte di forza-lavoro diventata “superflua”. E il capitalismo si mangia la coda, poiché più macchinari e meno lavoratori significano poi la tendenziale caduta di quel saggio di profitto che costituisce l’unico scopo dell’impiego produttivo di capitale e della sua valorizzazione. E dopo aver cercato di gonfiare i consumi in caduta, con indebitamenti privati e pubblici, ecco che il capitale si avvita su se stesso in spericolati e vani processi di finanziarizzazione. Sovrapproduzione, speculazione, capitale in eccesso accanto alla forza-lavoro in esubero e quindi frammentata, “precarizzata” o disoccupata a vita.

Terrorizzati da un costante, nel tempo, calo dei profitti, i sostenitori del capitale, in particolare quelli di… sinistra, si danno a vane ricerche di “nuove politiche industriali”. Nel tentativo di prolungare la conservazione del capitalismo si prospettano le identiche misure di momentanea controtendenza alla caduta del saggio di profitto, che Marx mise in evidenza un secolo e mezzo fa.

Dunque, favorire coi consueti incentivi statali la concentrazione tra imprese, investimenti privati in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (sempre per aumentare la produttività e diminuire il numero della forza-lavoro impiegata…). Magari anche un rafforzamento del settore pubblico rispetto al privato con lo scopo di sviluppare una accentrata politica di orientamento degli investimenti, razionalizzando e concentrando imprese di servizi affinché possano introdurre economie di scala ad alto rendimento. Solita orchestra e solita musica. Nel mercato ideologico del capitalismo si rispolverano i soliti abbozzi di programmi contro la crisi, per uno sviluppo “durevole e sostenibile”. I cerotti suggeriti per la cura sarebbero quelli di combattere la precarietà, aumentando però le sue… cause, cioè “produttività e profittabilità” (M. Draghi). Altro pannicello caldo: una “giusta fiscalità”, qualche ritocco su patrimoniale e spese militari (adeguandole alle moderne esigenze tattico-strategiche degli interventi “umanitari”) e una “redistribuzione dei ruoli tra cittadini, imprese e istituzioni”, con l’impresa invitata a “recuperare il suo ruolo sociale”…. Infine, qualche timida “correzione distributiva” e qualche misure-tampone dalle pesantissime ricadute sui cittadini. Non per tutti, s’intende.

Il nostro “che fare?” deve puntare sulla solidarietà di classe, sulla ritrovata unità dei proletari di ogni settore e categoria per arginare il furioso attacco del capitale. Diventa una necessità obbligata rompere l'ammorbante collaborazione tra capitale e lavoro, impostaci da chi pretende di sfruttarci e opprimerci come meglio crede. La classe operaia è il solo soggetto che produce concretamente la ricchezza di cui godono capitalisti, borghesi e ruffiani di ogni genere, mentre centinaia di milioni di uomini e donne nel mondo soffrono miseria, malattie e fame. Solo il proletariato con la guida politica del partito - il suo partito con il programma per il comunismo - può opporsi alle “politiche” del capitale e guidare le masse operaie al definitivo superamento di questo sempre più assurdo e barbaro modo di produzione e distribuzione.

DC