Sforbiciate e tagli ai conti in rosso

Il debito pubblico italiano, in rapporto al Pil, continua ad aumentare: a fine anno si prevede raggiunga la quota del 120,6%. Dunque altro non rimane che bloccare, anzi ridurre la spesa pubblica. Le chiamano “strette, cure dimagranti, risparmi, sforbiciate, rinunce, tagli”: la somma arriva a decine di miliardi. Stangate, dirette o indirette, da “spalmare” sulle spalle dei proletari. Esattamente una manovra di ben 43 miliardi di euro, a carico - come sempre - delle condizioni di lavoro e di vita del proletariato (i salari reali sono in crollo da anni): in parte sarebbero rimandati al 2013, ovvero se politicamente le cose andassero proprio male per le attuali fazioni borghesi al governo, il resto dei tagli sarà affidati ad un nuovo “comitato d’affari” della classe dominante. La quale, nell’attesa, sogna (o meglio, fa sognare ai “cittadini”…) nuove politiche industriali, interventi per il sud, misure territoriali e sociali straordinarie. Miraggi che vengono spolverati da decenni. Importante sarà poi fare ingoiare l’intera e amara tisana purgativa, anche se corretta con un goccio di “moralità”, dopo gli osceni spettacoli degli ultimi tempi.

È dal 2008 che il Governo procede a sforbiciate addirittura “devastanti” per resistere alla crisi che attanaglia il capitalismo a livelli mondiali. Decine di miliardi di euro cancellati dai conti-cassa, col risultato di uno sconvolgimento in particolare dei bilanci di enti locali e Regioni, annullando via via i già traballanti “servizi sociali” sia centrali che decentrati. A mascherare le continue devastazioni, i poteri forti (ma quelli “deboli” finiscono col non essere da meno…) diffondono un populismo liberaloide da ultima spiaggia dietro il quale la borghesia e le sue bande clientelari e mafiose non cessano di sbrigare i propri affari privati. Qualcuno, nelle notti d’insonnia, rivive persino le gesta di un Pinochet ; altri ricerca in soffitta i resti delle famose “riforme di struttura” della togliattiana via al socialismo democratico e parlamentare…

I principi e i criteri di volta in volta sbandierati rispondono ai vani tentativi, il giorno dopo immancabilmente contraddetti, di una conservazione del presente stato di cose che porta la crisi del capitalismo ad avvitarsi su se stessa. Da una parte le bandiere, polverose e lacere, di una fede monetarista; dall’altra quelle altrettanto stracciate di un interventismo statale di volta in volta negato o invocato. Intanto, e come sempre quando si attacca la spesa pubblica, la prima ad essere aggredita è quella per la protezione sociale. È evidente che - seppure di cartapesta - il cosiddetto welfare non riusciva a stare in piedi senza poter estorcere plusvalore dalla maggior quantità possibile di forza-lavoro impiegata in settori produttivi e in minima parte da poter restituire indirettamente al proletariato (ma anche da “regalare” alla piccola e media borghesia). Quando invece, quantitativamente, questa forza-lavoro (operai salariati) si riduce e in gran parte diventa non più stabile ma precaria, rendendo difficile l’estorsione del plusvalore indispensabile a “remunerare” il capitale (nonostante gli alti livelli di sfruttamento), ecco che le “protezioni sociali”, anche se già minime, vanno a gambe all’aria assieme al potere d’acquisto e ai consumi complessivi della classe operaia.

La sinistra borghese, dopo aver fatto sue, per prima col governo Prodi, le “liberalizzazioni” con la scusa di combattere rendite e corporazioni, e in concreto offrendo il piatto delle privatizzazioni alle voraci fauci del capitale, ora invoca uno slancio (?) di “ideazione culturale”, con nuovi progetti di “crescita” a suon di altra spesa pubblica (impossibile) e rilancio di politiche industriali (per produrre quali “merci” e per chi?). Quello della “crescita” è l’ultima frontiera a cui tutti si aggrappano, a cominciare dai sindacati in tricolore che dichiarano solennemente: “Senza crescita non c’è occupazione”… La loro ultima spiaggia è la sopravvivenza del capitalismo, altrimenti… tutti a casa!

Ma cosa si potrebbe escogitare per ridare “stabilità strutturale” al capitalismo? Ecco allora di nuovo qualcuno che - in piena crisi di produzione di “merci” e di domanda solvibile - indica l’araba fenice della piena occupazione! Con un capitale che (c’è chi, persino tra i borghesi, comincia ad accorgersene e a tremare) senza il lavoro salariato e produttivo di reale plusvalore, non ce la fa a sopravvivere. Quindi bisogna, come sopra detto, rilanciare la “crescita”. Bravi! Ma come? La classe intera dei borghesi (o almeno quella che si presenta come più progressiva e illuminata!) si alza in piedi e risponde: con un nuovo modello di sviluppo, nuove domande e nuove offerte. Magari aggrappandosi al fantasma di Keynes e, in attesa della domanda, sostenendo l’offerta di merci. Questo quando già c’è addirittura - nel mondo… sviluppato! - un eccesso di capacità produttiva che in alcuni settori tocca il 60-70%. Alla faccia di altri invocati aumenti di produttività!

Avviando l’ipotesi di un ritorno all’investimento pubblico, se proprio le cose peggioreranno, si riscopre persino l’IRI a suo tempo varato dal fascismo, definendolo uno “strumento eccezionale” e si invoca - un’altra volta - la farmacopea della partecipazione statale, della programmazione, della pianificazione. (Anche la “destra” - come in Francia - ora si fa promotrice di piani di statalizzazione che riprendano nelle loro mani ciò che precedentemente era stato “privatizzato”, come l’elettricità e il trasporto ferroviario…)

Sotto, quindi, con qualche modellino econometrico e qualche tentativo di simulazione: peccato che il risultato sia poi il classico pugno di mosche.

Più merci prodotte e più disoccupazione

La disoccupazione di massa dilaga; avanza la crisi sociale ed economica; la miseria si diffonde fra ampi strati di proletariato. (Si aggiunga, negli Usa ma non solo, la reclusione in carcere di oltre due milioni di persone: se fossero in “libertà”, quale lavoro salariato avrebbero?) Dietro al feticcio della “crescita” economica, ciò che concretamente va aumentando è la diffusione di una irreversibile disoccupazione strutturale di massa che contraddice e mina il fondamento del capitalismo, il suo ossigeno, cioè l’uso-sfruttamento di forza-lavoro vivente.

Al di qua e al di là dell’Oceano si sono agitati programmi di spesa statale per miliardi di dollari o di euro, finanziati attraverso il debito pubblico, allo scopo di dare nuova linfa ad asfittici settori produttivi (come quello dell’auto) e per salvare i mercati finanziari sull’orlo del baratro. Ma i tentativi di dare una spinta all’economia, sia con investimenti privati sia statali, sono quindi accompagnati immancabilmente da forti indebitamenti aggiuntivi dello Stato. Questo quando i conti pubblici sprofondano nel rosso più cupo.

La rivoluzione delle forze produttive, fondata sull'avvento della microelettronica, ha avuto come effetto una ristrutturazione e razionalizzazione basilare delle strutture di produzione, distribuzione, trasporto e comunicazione. Paradossalmente, anziché diminuire i tempi di lavoro e migliorare le condizioni di vita per tutti, si è diffusa miseria e degradazione ovunque.

Il capitalismo produce merci per valorizzare il capitale; non produce cose utili e necessarie per soddisfare bisogni concreti; ogni merce rappresenta un valore da realizzarsi attraverso la vendita sul mercato. Chi, in questo mercato, non ha “potere d’acquisto”, solvibilità, cioè denaro, viene escluso, emarginato, costretto in povertà. Il mercato è condizionato dalla necessità di valorizzazione del capitale, il cui processo di accumulazione è regolato da leggi tanto contraddittorie quanto insanabili.

Questo processo di valorizzazione è puramente quantitativo e fine a se stesso: tutto crolla senza una crescita infinita sia di vendita che di acquisto delle merci. Di fronte alla realizzazione di questa “distribuzione” mercantile, tutto il resto - salute, rapporti fra gli uomini ecc. - non conta. Per gli economisti borghesi, la valorizzazione del capitale è un principio assoluto dipendente da una produzione di merci che si relazioni con un potere d’acquisto presente sul mercato nazionale e internazionale. Ma proprio per raggiungere questo fine, la contraddizione che contribuisce a dilaniare il capitalismo è quella fra un aumento costante della produttività e una diminuzione della massa di lavoro produttivo, con la ormai famosa caduta tendenziale dei saggi di profitto, bestia nera del capitale.

Diventa quindi un imperativo quello di produrre più merci con sempre meno impiego di forza-lavoro vivente. Oggi però non si annunciano nuovi settori produttivi, come fu nel ventesimo secolo (auto, elettrodomestici, ecc.) e tali da impiegare (sfruttandoli) masse di proletari; non solo, ma in ogni merce vi è una sempre minore quota di valore, per cui diventa difficile aumentare, addirittura mantenere alta la massa totale del valore fornito dal lavoro vivo. Le ultime rivoluzioni produttive, come la microelettronica, hanno razionalizzato ad un punto tale i vari processi produttivi, che l’intervento umano diretto si è ridotto al minimo. Lo sviluppo delle forze produttive sta minando la valorizzazione dei capitali. La crisi dell’attuale modo di produzione e distribuzione si ingigantisce e si mostra irrisolvibile nelle forme capitalistiche dominanti. La politica non può chiaramente far nulla di fronte ad un simile processo. Il tentativo di aumentare (anzi: di imporre!) il consumo a credito per mantenere alta la produzione di merci e cercare di dare al capitale la sua “giusta” remunerazione, ha peggiorato la situazione, costringendo il capitalismo a scatenare tutta la propria irrazionalità e brutalità.

Il movimento operaio - il quale al momento non può fare altro, soprattutto mancando di una forte e radicata direzione politica rivoluzionaria agitante il programma per il comunismo - continua a muoversi in favore del lavoro-salariato: non ancora contro di esso, non contro il lavoro ridotto a merce che il capitalismo acquista e usa soltanto se gli procura un profitto. I sindacati, integratisi istituzionalmente nella società borghese e nel modo di produzione dominante, chiamano alla “lotta per il lavoro”, naturalmente quello salariato e sfruttato dal capitale, mentre ovunque il lavoro necessario a produrre ciò che serve ai bisogni umani diminuisce a fronte di innovazioni tecnologiche che in alcuni casi il capitale è persino costretto a frenare. Diventa evidente che se non si comincerà al più presto ad uscire da questa logica, la logica del capitale, non si potrà mai sviluppare una lotta concretamente anticapitalista, al momento anche contro la nefasta illusione di un ulteriore sviluppo-crescita del capitalismo.

La presente forma sociale contiene in sé la minaccia di un imbarbarimento se non addirittura di un annientamento totale della stessa umanità: le prospettive sono soltanto quelle di distruzioni portate avanti dalla “razionalità” del mercato, con l'abbassamento continuo dei salari, per chi trova un posto di lavoro, e la miseria per chi è disoccupato; l'esclusione dei migranti, il taglio delle prestazioni sociali e sanitarie ecc.. Lo Stato - qualunque sia la sua forma - è costretto (in quanto apparato di conservazione di una società divisa in classi e del dominio di una specifica classe sull’altra) a perfezionare i suoi strumenti di controllo e repressione, accanto a quelli di amministrazione - ad esclusivo vantaggio della classe dominante - di colossali masse di ricchezza sociale.

La lotta in difesa dagli attacchi del capitale non va certamente snobbata (anzi!), alla condizione però che si accompagni ad una prospettiva di radicale superamento di tutto il sistema, produttivo e distributivo. La denuncia delle logiche del capitalismo deve diventare prioritaria attraverso una critica radicale alle dominanti categorie economiche e sociali imposte dalla sopravvivenza del capitale. In questa situazione “globale”, sotto molti aspetti ancora controrivoluzionaria, il nostro compito è quello di indicare la chiara prospettiva di una emancipazione radicale che superi ogni relazione fra merce e denaro e ogni presunto graduale riformismo dell’attuale sistema. Questo obiettivo deve essere dichiarato come contrapposizione rivoluzionaria al presente stato di cose: si aprano le porte ad una nuova società nella quale si producano beni per i bisogni dell’umanità intera e mai più per il profitto e per l’accumulazione del capitale; dove il denaro non sarà più il mezzo per acquistare merci (e quindi sparirà con la forma-merce stessa) e a tutti gli uomini e le donne del pianeta venga distribuito in parti eguali tutto ciò che loro stessi contribuiscono a produrre, con un sempre minore sforzo di lavoro, e che a loro occorre.

DC