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Home ›Dopo i referendum: e ora?
Politicamente parlando, il governo ha visto giorni migliori. Prima, le brucianti sconfitte alle elezioni amministrative, poi la disfatta nei quattro referendum, che non solo hanno ampiamente superato il quorum - il vero ostacolo da scavalcare - ma che col 95% dei “sì” hanno sfiorato l'unanimismo. Per usare una metafora pugilistica, qualunque primo ministro, dopo un tale “uno - due”, avrebbe per lo meno preso in seria considerazione l'ipotesi di dimettersi; sicuramente non avrebbe trovato il tempo per esibire le solite battute di bassa lega nei vertici internazionali, soprattutto dopo aver assegnato a quelle consultazioni elettorali il valore un plebiscito a proprio favore. Ma il Berlusca non è un politico normale, non lavora per la borghesia nel suo insieme o, per meglio dire, non è la sua priorità, e questo, alla fine, lo ha indebolito. Anche Bossi, l'alleato di ferro, ha qualche problema, viste le crepe e gli scollamenti con la mitica, granitica base leghista, e non solo. Mentre l'erede fasullo di un altrettanto fasullo Alberto da Giussano, non senza capriole politicantesche, invitava la “base” a disertare le urne, alcuni pezzi da novanta della sua congrega si esprimevano pubblicamente in senso contrario, interpretando gli orientamenti e le insofferenze antiberlusconiane serpeggianti nell'elettorato leghista. Che poi questi malumori, indubbiamente alimentati dalla disinvolta vita privata del premier, nascano su posizioni di destra (mano troppo morbida con gli immigrati, mancata riforma fiscale a favore dei padroncini, ma anche dei lavoratori “padani”, con essi solidali) è un altro discorso. Ma forse, nel rifiuto del nucleare e della privatizzazione totale delle risorse idriche, c'è anche la paura istintiva verso quella “globalizzazione” operata dal grande capitale che è uno dei condimenti fondamentali dell'indigeribile ideologia leghista. Una specie di anticapitalismo degli ingenui e dei gabbati, parafrasando August Bebel...
Anche una parte significativa del mondo cattolico, in particolare quello dell'associazionismo “di base”, più sensibile verso i temi dell'esclusione sociale, dunque dell'approfondirsi delle ineguaglianze, acceleratosi in questi anni, si è apertamente schierato contro il “neoliberismo” che sorregge la legislazione oggetto dei quesiti referendari. Naturalmente, e una volta di più, la pretesa berlusconiana di elevarsi al di sopra della legge - esibendo nel contempo una moralità da vecchio frequentatore di bordelli - ha avuto il suo peso. Così come ha pesato, e probabilmente non poco, l'aperta dichiarazione antinuclearista del papa e quella della CEI a favore dell'acqua pubblica, pochi giorni prima del referendum. Che le massime gerarchie vaticane abbiano voluto amplificare la voce del cattolicesimo “sociale”? In parte, può essere, vista l'abilità politica di tenere assieme personaggi tra loro diversissimi, dal prete “comunista” delle bidonvilles, al cardinale banchiere. Ma può anche non essere estraneo l'obiettivo di colpire e affondare una banda politica che non aveva esitato ad attaccare sguaiatamente uno dei suoi organi più prestigiosi (il giornale Avvenire, nella persona del direttore Boffo). Nonostante i sostanziosi “aiuti” ottenuti dal centro-destra, i rapporti con quest'ultimo rischiano di diventare troppo imbarazzanti per la Chiesa, che si accoda, per altro, al grande malcontento confindustriale. In quanto agli “aiuti”, beh, nemmeno il centro-sinistra si è mai tirato indietro.
Pezzi del centro-destra, d'accordo; settori del mondo cattolico, certamente; ma l'apporto di gran lunga più importante nella battaglia referendaria viene indubbiamente da quello che, per comodità, si può definire il “popolo di sinistra”, di cui, per altro, quel mondo cattolico, per lo più, è parte. E' stato questo “popolo”, spesso e volentieri in aperta polemica con i partiti della sinistra istituzionale, che ha dato vita ai comitati contro la privatizzazione obbligatoria della rete idrica municipale e contro il ritorno al nucleare. Sono loro che hanno messo in piedi e fatto camminare la macchina del referendum, affidandosi, oltre che al lavoro di strada, alle potenzialità della “rete”, emerse clamorosamente nella “primavera araba”. Che il mondo politico ufficiale, a cominciare dal premier (incapace di distinguere una video cassetta da un DVD), abbia sottovalutato la “rete” non stupisce, visto l'analogo comportamento delle cricche di potere nordafricane. Ma, riconosciuto questo, il “web” non ha fatto altro (sia detto senza alcun significato riduttivo) che esprimere la frustrazione, l'insofferenza, la rabbia prodotte e alimentate dalla crisi. Ciò che una volta era, non accettabile, ma, per così dire, sopportabile, ora non lo è più o molto meno. Infine, su tutto, per una specie di crudele replica della storia, è calata la tragedia di Fukushima, come la catastrofe di Cernobyl venticinque anni fa. Fukushima ha inequivocabilmente dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che se il nucleare civile è utile per costruire bombe, non può dare alcuna garanzia di sicurezza e, per sovra mercato, la sua economicità è soltanto una leggenda. Non è un caso che la Germania (seguita dalla Svizzera) abbia deciso di rinunciare all'energia atomica per sviluppare quel settore energetico che rappresenta il futuro, indipendentemente dalla retorica borghese sulla green economy.
Dunque, i movimenti base hanno impersonato la vera anima del cazzottone al Cavaliere, anche se poi sono stati parassitati dai partiti del centro-sinistra. In particolare dal PD, che, oltre ad aver snobbato la questione del legittimo impedimento - cavallo di battaglia dell'IDV - per quanto riguarda le centrali atomiche e l'acqua ha più di uno scheletro nell'armadio: le regioni in cui, complessivamente, la “liberalizzazione” dell'acqua - come dice pudicamente Bersani - è più avanti sono l'Emilia Romagna, la Toscana e la Liguria...
Che succederà, ora? Se il nucleare non partirà e cade la legge confezionata per il ducetto di Arcore, rimane un vuoto legislativo sulla gestione degli acquedotti, la cui rimunicipalizzazione è densa di incognite, non ultimo il fatto che i comuni dovrebbero pagare penali molto alte nel caso in cui i privati fossero estromessi prima della fine dei contratti (alcuni scadono tra dieci anni). Ma, ammesso che vi sia la volontà politica delle amministrazioni (come a Napoli, pare), dove si troveranno i soldi per liquidare i privati o, su di un altro versante, per rinnovare la rete idrica che - è il caso di dirlo - fa acqua da tutte le parti? E ancora: si toccheranno le società, spesso multinazionali, che si sono impadronite per due soldi di centinaia di sorgenti, imponendo il costoso, inquinante e abnorme consumo dell'acqua in bottiglia? Si tratta di domande che i comitati si sono posti, ma le risposte fornite mancano il bersaglio, perché partono da premesse sbagliate. Una di queste è che lo stato sia un organo neutro al di sopra delle parti, quando, invece, è lo strumento di dominio di una sola classe. Dunque, anche il ristabilimento del principio fondativo del diritto borghese (la legge è uguale per tutti), violentato da un borghese più potente di altri, non altera in alcun modo la natura classista delle istituzioni. Secondo, ma non per importanza, l'acqua, l'aria, la salute non sono, né possono essere nel capitalismo, beni comuni, bensì risorse da trasformare in merci. Se fino a qualche decennio fa la fornitura dell'acqua era considerata un servizio, cioè una merce abbordabile pagata con la bolletta e la fiscalità generale (imposte statali, comunali, ecc.), oggi, con l'approfondirsi della crisi capitalistica e, quindi, delle sue congenite “propensioni” predatorio-speculative, i “beni comuni” devono tendenzialmente diventare merci come tutte le altre.
Insomma, le elezioni amministrative e i referendum hanno assestato un duro colpo alla parte più impresentabile, per così dire, della borghesia italiana, un colpo destinato, forse, a metterla al tappeto; allo stesso tempo, però, hanno fatto guadagnare punti ai partiti dell’altra sponda dello schieramento politico borghese e hanno contribuito a rafforzare l’illusione di una alternativa istituzionale e riformista all’attuale stato di cose. Vedere quindi allontanarsi l'incubo nucleare, un Berlusca o una Santanchè con gli occhi neri (metaforicamente parlando) può dare una certa soddisfazione, ma non è questo il punto. Il punto è se potrà essere una vittoria sul terreno semplicemente istituzionale ad inceppare l'attacco “termonucleare” alle condizioni di esistenza del lavoro dipendente e delle classi sociali più basse o a fermare le crescenti devastazioni ambientali, se questa vittoria contribuirà a far maturare la consapevolezza della necessità di lottare contro il capitalismo - di cui il cosiddetto neoliberismo è “soltanto” il modo di esprimersi da trenta e passi anni - oppure se favorirà unicamente il ricambio della classe politica incaricata di gestire quell'attacco. Per noi è di gran lunga più probabile la seconda ipotesi...
Ha vinto la cosiddetta cittadinanza, non ancora il proletariato.
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Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.
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