La questione nazionale e coloniale - Gli anni 1940-50

Rivoluzioni nazionali

Dallo schema di mozione presentato dal C.E. al Consiglio Nazionale del Partito Comunista Internazionalista - 5 e 6 gennaio 1958

L'epoca delle rivoluzioni nazionali è da tempo e definitivamente chiusa in Europa. Le rivoluzioni dei paesi afro-asiatici che stanno svolgendosi nella presente fase storica, nel clima cioè delle guerre imperialiste e delle rivoluzioni proletarie, sono destinate a subire inevitabilmente l'attrazione verso i due poli opposti dell'imperialismo, perdendo così ogni capacità di autonomia e di autodeterminazione.

Con l'avvento dello stalinismo e l'instaurazione del capitalismo di Stato, la Russia ha perduto il ruolo che la Rivoluzione d'Ottobre le aveva conferito quale centro mondiale antimperialista verso cui convergevano i moti dei popoli coloniali o semi-coloniali, in rivolta contro lo sfruttamento economico e politico dei Paesi colonizzatori. Con il crollo del primo Stato proletario si è dissolto il centro di polarizzazione di queste lotte ed ogni possibilità di potenziamento delle forze operaie e del contenuto di classe che le stesse rivoluzioni nazionali suscitano e portano inevitabilmente con loro.

La rivolta dei popoli di colore delle zone afro-asiatiche nel momento che tende ad indebolire uno dei fronti dell'imperialismo per rafforzare l'altro, cessa per ciò stesso di costituire obiettivamente una rivolta contro il capitalismo imperialista preso nel suo insieme, in quanto forza di dominazione mondiale.

Il problema strategico affidato oggi dalla storia all'avanguardia rivoluzionaria, non consiste nel futile gioco intellettualistico della discriminazione degli imperialismi in lotta, di aiutare o di "tifare" per le giovani forze del più recente capitalismo, irrompenti sulla scena del mondo. Tale atteggiamento non consentirebbe di fare un passo innanzi né alle idee né alle forze della rivoluzione, ma finirebbe - favorendo anche soltanto teoricamente uno dei contendenti - per rafforzare l'imperialismo nel suo complesso. Il problema consiste, invece, nel lavorare in vista di una concreta iniziativa classista e rivoluzionaria del proletariato internazionale, che convogli sul piano di classe anche le lotte dei popoli di colore, tenendo presente l'ammonimento di Lenin:

in quanto la borghesia della nazione oppressa difende il 'proprio' nazionalismo borghese, noi siamo contro di essa.

Il mondo coloniale in fermento

Da Battaglia Comunista n. 8 - marzo 1946

È stato sempre caratteristico dei paesi coloniali il trasferimento dei conflitti sociali sul piano dei moti nazionalistici o, in altre parole, la loro diversione dal terreno specifico della lotta fra le classi a quello della difesa "solidale" di tutte le classi indigene contro l'oppressione della potenza imperiale occupante. Ma è per noi chiaro che questo convergenza superficiale d'interessi fra le opposte classi indigene nasconde una reale e profonda antitesi, e che due problemi ben distinti si profilano in seno a un problema che sembra unico solamente perché il proletariato indigeno non ha saputo ancora (salvo casi eccezionali) esprimere una sua forza politica autonoma, diretta a un tempo contro la borghesia indigena e contro la borghesia colonizzatrice.

In realtà, con la seconda Guerra mondiale ancor più che con la prima, la borghesia indigena ha fatto affari d'oro perfettamente convergenti con gli interessi della potenza occupante. Il numero di dicembre 1945 della rivista americana "Fourth International" (di cui citiamo i dati pur non condividendo affatto l'impostazione politica da essa data al problema) ricorda come la borghesia egiziana abbia realizzato colossali profitti grazie alle fortissime spese sostenute dalle armate inglesi, e come i dividendi dei maggiori complessi industriali siano, durante la guerra, aumentati di tre e persino quattro volte (in Egitto, il numero dei milionari è salito da 50 prima della guerra a 400 nel 1943), mentre ai profitti degli industriali facevano riscontro i profitti dei grandi mercanti e delle banche, sia in Egitto che in Palestina e, in genere, nel Medio Oriente. La borghesia indigena ha, dovunque, esteso le basi del suo sfruttamento grazie all'appoggio, diretto o indiretto, dell'imperialismo inglese: è il capitale finanziario anglosassone che ha promosso lo sviluppo dell'industrie manifatturiere; sono le spese dell'esercito che hanno alimentato gli affari dei mercanti; sono i fortissimi debiti contratti dall'Inghilterra in Egitto, Palestina, Irak (verso questi paesi il debito inglese ammonta oggi rispettivamente a 350, 100 e 60 milioni di sterline) che hanno arricchito i banchieri arabi ed ebrei.

La cessazione delle ostilità ha provocato una situazione di crisi nel seno di una classe la cui prosperità era fondata essenzialmente sulla protezione, sul privilegio e sul monopolio, oltre che sullo sfruttamento di una congiuntura economica di natura artificiale. Evidentemente, le industrie, dilatatesi nel corso della guerra per le necessità della stessa potenza imperialistica, si trovano oggi a dover affrontare la concorrenza straniera in condizioni che non sono più di privilegio. Chiedono perciò un aumento delle tariffe doganali, un'adeguata protezione, il rapido e integrale pagamento dei debiti inglesi per procedere al rinnovo di un macchinario in gran parte logoro.

Di profitti non meno elevati hanno goduto i grandi proprietari fondiari, mentre in altri paesi semicoloniali, come l'India, il capitalismo indigeno, già sviluppatosi nel venticinquennio intercorso fra le due guerre mondiali, grazie soprattutto all'intervento del capitale finanziario inglese e al trasferimento in loco di parte delle aziende industriali e commerciali già esistenti nella madrepatria, ha tratto vantaggio dalla eliminazione della concorrenza britannica provocata dal conflitto e dall'incremento delle industrie ausiliarie e di produzione bellica, favorite dalla Gran Bretagna ai fini della condotta vittoriosa della guerra in Oriente.

E' perciò chiaro che, mentre la borghesia indigena tende ora ad affermare una propria indipendenza e libertà di azione di fronte alla borghesia inglese, e difende contro questa interessi in parte contrastanti coi suoi, nei fatti le sue possibilità di sviluppo e i suoi destini sono strettamente legati a quelli della borghesia britannica e, più generalmente, del capitalismo internazionale da quale dipende attraverso tutta una rete di relazioni finanziarie, e di cui è in certo modo l'agente locale. Le lotte coloniali che si sviluppano su questo terreno hanno dunque per obiettivo unico di strappare alla potenza imperialistica ulteriori concessioni, e non assumono né possono mai assumere caratteri di battaglia frontale, quando non diventino esse stesse strumento di altri conflitti imperialistici, facendosi manovrare - come sta avvenendo in Indocina - da altre potenze non meno interessate dell'Inghilterra al controllo finanziario, politico e militare del Medio Oriente (cioè, America e Russia).

Ben diversa è la posizione del proletariato indigeno e, in genere, dei ceti minori. Questi sono sottoposti a un doppio sfruttamento, quello effettuato dal capitalismo indigeno e quello effettuato dal capitalismo straniero. E da quest'ultimo non solo in quanto esso è proprietario di terre e officine, ma in quanto creditore, banchiere, finanziatore, proprietario di Titoli industriali o di Stato. Il capitalismo indigeno è cresciuto, in tutti questi paesi, in un ambiente sociale caratterizzato dall'estrema povertà di una mano d'opera sovrabbondante e sottoposta tradizionalmente a un regime di vita miserrimo, e ha sfruttato questa situazione per rivalersi, coi bassi salari, dei gravosi oneri imposti dai creditori. Lo sfruttamento bestiale del lavoro e una disoccupazione dilagante approfondiscono l'abisso fra le classi e minacciano gravi conflitti sociali. Di fronte al fermento che questa situazione genera, alla fame che sta dilaniando il proletariato indiano e alla miseria del proletariato egiziano e palestinese, borghesia indigena e borghesia straniera sono evidentemente solidali. giacché, per l'una come per l'altra e l'una con l'aiuto dell'altra, la loro potenza si è costruita sul più atroce sfruttamento della mano d'opera locale. Illusoria sarebbe quindi una lotta proletaria che avesse per oggetto non il blocco confluente e compatto dei due sfruttatori, ma uno solo di essi col preteso appoggio dell'altro. Per questo parlavamo di una diversione delle lotte sociali dallo specifico terreno della lotta di classe a quello di un conflitto cosiddetto nazionale tra borghesia indigena e borghesia imperialista. Alla prima conviene far sfociare in tale lotta - come mezzo di pressione sulla borghesia inglese o americana o, comunque, internazionale - il moto di rivolta degli sfruttati. Ma non c'è, fra questi e quella, nessun punto specifico di contatto. La borghesia nazionale può agitarsi contro il capitalismo finanziario della potenza colonizzatrice, ma è legata ad essa da legami troppo forti per condurre contro di lei una lotta frontale decisiva: i suoi fremiti d'indipendenza non bastano a celare l'effettiva sudditanza, il necessario e fondamentale vincolo di soggezione.

La tragedia del proletariato dei paesi coloniali e semicoloniali è di non aver potuto esprimere fino ad oggi (se si eccettua il caso della Cina) una forza politica autonoma capace di rappresentare gli interessi di classe contro la ferrea doppia catena della borghesia indigena e straniera. Per questo esso rimane vittima, a un tempo, della borghesia nazionale interessata a rigettare sulla potenza colonizzatrice tutte le colpe della miseria dei lavoratori indigeni e a convogliarne le energie in una lotta dalla quale soltanto essa ritrarrà dei frutti; della borghesia imperialistica inglese o francese (e sono - tragico paradosso della storia - il laburismo inglese o le sinistre francesi a difendere oggi col piombo gli interessi imperiali contro i conati di rivolta autonomista dei popoli coloniali); degli imperialismi concorrenti che soffiano nel fuoco per strappare agli "alleati" una parte almeno del loro dominio (lo fa l'America con la sua lenta e non appariscente penetrazione in tutte le sfere d'influenza britannica; lo fa la Russia, divenuta improvvisamente accusatrice dell'imperialismo inglese col quale ha pur fatto la guerra e col quale divide il bottino di pace); e, infine, di quelle forze politiche a sfondo proletario che, come il trotskismo, ritardano il processo di differenzazione della lotta proletaria dalla generica lotta "anti-imperialista" borghese appoggiando incondizionatamente il partito nazionalista del Viet-Min in Indocina e ricalcando in malo modo la vecchia tattica dell'appoggio ai moti coloniali.

Nei paesi coloniali come in tutti gli altri paesi, l'emancipazione del proletariato ha come premessa necessaria il distacco netto e radicale dalla tattica dello "intermedismo" e la demarcazione netta - sul terreno ideologico come sul terreno pratico - della lotta contro il capitalismo, in tutte le sue forme e sotto tutti i suoi travestimenti, dalle lotte solo apparentemente congiunte di una frazione della borghesia e della totalità della classe operaia.

Indipendenza nazionale e lotta di classe

Da Battaglia comunista n. 11 - aprile 1946

La borghesia trova la sua affermazione sul piano politico nel processo di formazione nazionale nel secolo scorso. E' essenzialmente attraverso la creazione delle grandi unità nazionali degli Stati moderni, che il capitalismo consolida la conquista del potere, e dà a questo potere una struttura organizzativa funzionale. L'introduzione dell'esercito permanente, il concetto di popolo, l'unità di lingua, sangue e tradizione, forniscono il cemento alla nuova forma sociale che esce dai travagli rivoluzionari anti-feudali. In questi travagli ancora in corso di sviluppo durante la vita di Marx, e che trovano la loro conclusione nel compimento dell'unità italiana e germanica, si identificava la prima fase, eroica e ascendente, del dominio di classe borghese. E' in questo senso che occorre considerare l'apparente affiancamento dei moti socialisti rivoluzionari di allora ai moti capitalisti contro le roccaforti del feudalesimo.

Il compimento dell'esperienza capitalista non poteva però essere invocato come necessario, o indispensabile, da nessun vero marxista. E tanto meno fu ritenuto tale dal principe dei marxisti, Nicola Lenin, il quale realizzò una rivoluzione comunista quando le cornacchie della socialdemocrazia strillavano come necessaria la fase di un vero e proprio capitalismo in Russia. Ma, sul piano teorico, se Lenin riconosce nell'imperialismo l'ultima fase del capitalismo, non sempre porta alle estreme conseguenze questa analisi, e l'insufficiente impostazione del problema è risentita nella famosa formula del "diritto dei popoli a disporre di se stessi".

Oggi l'opportunismo patriottico dei partiti nazional-comunisti cerca di sfruttare questo difetto di origine, giustificando l'abiezione ogni giorno più rivoltante dei compromessi ministeriali e della politica di stretta collaborazione con la classe capitalista, con una pretesa fedeltà leninista al principio della lotta per l'indipendenza dei popoli e per il tradizionale diritto di questi a disporre di se stessi.

Orbene, se l'imperialismo è l'ultima fase del capitalismo, esso uccide pure le possibilità di ogni indipendenza nazionale, anche nel senso borghese della parola.

La nazione, quale entità economicamente e politicamente delimitata, svanisce sempre più nella realtà dei fatti sotto l'incalzare delle esigenze imperialistiche delle nazioni o blocchi di nazioni economicamente egemoni.

La politica mondiale si riduce a dialoghi fra agglomerati di nazioni e di colonie ed altri agglomerati affini, senza possibilità di espressioni politiche indipendenti. Parlare del diritto delle nazioni di disporre di se stesse è dunque un assurdo e, nella pratica, un lavorare perché questo o quel governo, invece di essere influenzato o controllato da una certa nazione, cada sotto l'influenza di un'altra. Così si dimostra una volta di più la funzione di "servi dell'imperialismo", che compete agli attuali partiti nazional-comunisti, funzione che non ha nulla a che fare con l'interesse del proletariato. La classe operaia ha dei problemi di classe e non di indipendenza nazionale da porre. E la sua lotta si svolge su un terreno che non può che essere internazionale, e solo qui ha e può avere speranza di successo.

Lottare per l'indipendenza nazionale è un non senso; lottare per la rivoluzione mondiale è lottare per risolvere tutti i problemi posti dall'evoluzione capitalistica, e perciò anche quello della "autodecisione dei popoli".

Le teorie sono valide se confermate dalla storia

Da Battaglia comunista n.14 - settembre 1952

Il riuscito pronunciamento militare progressista avutosi in Egitto contro il regime feudale di re Faruk ha portato materiale preziosissimo alla nostra indagine critica, non solo, ma è di riprova storica per una più esatta e conseguente formulazione delle tesi coloniali del partito rivoluzionario del proletariato.

Ripetiamo i termini delle tesi sulla questione coloniale che, finché il capitalismo vivrà, tornerà ad appassionare ogni nuova generazione di rivoluzionari.

La Sinistra italiana non ha mai accettato ad occhi chiusi di considerare le tesi della Terza Internazionale su questo problema - anche se elaborate da Lenin - come del tutto aderenti ai termini di una rigida e conseguente formulazione teorica del marxismo, ma ha sempre pensato che esse rispondevano a una manifestazione contingente di solidarietà della Internazionale con i bisogni del primo Stato della dittatura proletaria nella sua lotta di difesa dello schieramento rivoluzionario, praticamente assediato dalle forze del capitalismo mondiale.

Si era nel primo dopoguerra e bisognava fare i conti con una Inghilterra uscita allora vittoriosa dal conflitto, tuttora forte e salda nella base del suo enorme impero coloniale. La strategia rivoluzionaria dello Stato proletario doveva tener conto del fatto che l'Inghilterra poteva, se non essere vinta, certamente e seriamente essere indebolita con aggiustati e tempestivi colpi di maglio: le insurrezioni e le guerre a carattere di indipendenza nazionale della borghesia indigena contro la dominazione e lo sfruttamento della borghesia delle metropoli.

Strategia dunque trasparentissima, arma potente nelle mani dello Stato proletario, ancor più potente quando si considera che va sotto la guida di un cervello chiaro e duttile come quello di Lenin. E sta bene; ma il male nasce quando si è dimenticato che tali necessità avevano la loro ragion d'essere limitata nel tempo, all'esperienza di un periodo dato, che nessuno dovrebbe teorizzare, e tanto meno farne un punto fermo della catechistica, una specie di dogma di fede che non deve essere discusso. Anche su questo problema era tempo di rimetterci in carreggiata col marxismo e con l'interesse della rivoluzione proletaria.

È avvenuto così che l'atteggiamento polemico già assunto su questo problema dalla Sinistra italiana, si spostasse dall'esperienza russa - ormai conclusasi sul piano avverso a quello del proletariato internazionale e della rivoluzione - e puntasse contro coloro che vorrebbero farci ritornare al 1921, sulle posizioni teoriche fatte proprie e giustamente dallo stalinismo in quanto forza dirigente dello Stato russo.

Sono noti i termini attuali della polemica, ma vale la pena richiamarli ancora una volta alla memoria dei compagni.

Contro coloro che affermano la

necessità dialettica di lottare per la vittoria delle rivoluzioni borghesi sul regime feudale per favorire l'avvento della produzione capitalista...

noi affermiamo che dopo due guerre mondiali, quando cioè il mondo è praticamente diviso in due zone d'influenza imperialistica, il trasformarsi delle colonie - e delle zone in genere ad economia extra-capitalista - in nazioni ad economia capitalistica, non ha più i caratteri della fase ascendente del capitalismo ed è storicamente chiuso il ciclo delle rivoluzioni e delle guerre d'indipendenza nazionale. Quando tali rivoluzioni e guerre tuttora avvengono esse hanno carattere marginale e ogni volta vengono circoscritte e spostate sul piano dell'interesse di questo o quell'imperialismo, e su questo piano si esauriscono.

E precisavamo che

non si tratta più di lottare per la vittoria delle rivoluzioni borghesi sul regime feudale, che porrebbe il partito proletario sullo stesso terreno d'azione del capitalismo, ma si tratta di porre il proletariato coloniale sul piano dell'urto di classe, il solo che serva a pungolare il capitalismo perché risolva con i 'suoi' mezzi i problemi della 'sua' conservazione.

I fatti recenti dell'Egitto e della Persia sono in questo senso particolarmente significativi e provano, se ce n'era bisogno, la giustezza dell'impostazione da noi data al problema.

Che l'Egitto e la Persia siano paesi arretrati e non ancora pervenuti al capitalismo nella maggior parte della loro struttura economica, è un dato di fatto che nessuno potrà mettere in dubbio.

La nuova borghesia indigena parla ora in Egitto per bocca di Neguib e di Alì Maher mentre l'esercito opera come la sua punta avanzata e progressiva; allo stesso modo che la nuova borghesia indigena parla in Persia per bocca di Mossadeq. L'ascesa al potere di questa borghesia nazionalista non è avvenuta secondo i canoni della vecchia strategia dell'alleanza col proletariato; oggi le borghesie indigene ne fanno a meno e preferiscono rafforzarsi e puntare al potere barcamenandosi tra i due blocchi imperialisti, ora con la politica del ricatto, ora vendendo al più forte i diritti della propria indipendenza nazionale e della propria autonomia economica e militare.

Che cosa sarebbe avvenuto se autentici partiti operai avessero acceduto alla tesi dell'alleanza col nazionalismo progressivo di Neguib o con quello di Mossadeq? Non avrebbero fatto avanzare di un pollice la lotta contro le forze e le incrostazioni dell'antico regime, ma si sarebbero trovate ad agire nel piano della strategia americana. È il destino a cui sono sottoposti oggi tutti i moti nazionali.

Le tesi di Lenin sulla questione coloniale, vive e vitali all'epoca in cui sono state formulate per le ragioni politiche e strategiche che le avevano ispirate, vanno interpretate dialetticamente e non debbono in nessun caso essere di pretesto ad un bambinesco gioco di decalcomanie.

A meno che non si obbedisca all'accorgimento tattico, palese o sottinteso, di crearsi la giustificazione teorica a fare da puntello all'imperialismo stalinista.

Partito rivoluzionario e lotte dei popoli coloniali

Da Battaglia comunista n. 11/12 - novembre 1953

Consideriamo come elemento altamente formativo e di intima capacità orientativa e ammonitrice, la pubblicazione in forma di panorama di quanto è stato elaborato dalla Sinistra italiana, prima, e dal nostro Partito, poi, sul soggetto della questione nazionale e della tattica adottata e da adottare nei confronti del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, nella fase più acuta del suo dominio imperialista sul mondo.

Non andiamo a spulciare documenti già noti per solo spirito di polemica, ma perché riteniamo che in questo argomento di importanza fondamentale, sia messo in luce quanto vi possa essere stato di contingente, di provvisorio e di contradditorio, e quanto di "allora" può essere accettato "ora" e soprattutto quanto di "allora" deve "ora" essere definitivamente respinto e delegato tra i ferri vecchi della strategia della Terza Internazionale comunista, che vedeva con gli occhi e gli interessi del primo Stato proletario.

Già Lenin nel "Primo abbozzo di tesi sulle Questioni Nazionali e Coloniali", all'epoca del Secondo Congresso dell'Internazionale comunista (1920), poneva il problema che informerà di sé tutta la ulteriore letteratura dei partiti dell'internazionale:

Oggi la situazione politica mondiale ha posto all'ordine del giorno la dittatura del proletariato, e tutti gli avvenimenti della politica mondiale convergono inevitabilmente verso un solo centro di gravità: la lotta della borghesia mondiale contro la Repubblica Sovietica della Russia che raggruppa inevitabilmente attorno a sé tutti i movimenti di emancipazione nazionale delle colonie e dei popoli oppressi, i quali, per la loro amara esperienza, vanno persuadendosi sempre più che per loro non c'è salvezza all'infuori della vittoria del potere dei Soviet sull'imperialismo mondiale. Per conseguenza, oggi è necessario condurre una politica che assicuri l'attuazione della più stretta alleanza fra tutti i movimenti di liberazione nazionale e coloniale e la Russia dei Soviet.

A questa trama della strategia sovietica si sono uniformati pedissequamente per decenni tutte le centrali dei partiti nazional-comunisti.

Ecco come la Sinistra italiana, per la penna di Bordiga, "sentiva" questo stesso problema nel 1924, cioè dopo la sua defenestrazione dalla Direzione del P.C. d'Italia.

L'appoggio di movimenti coloniali, ad esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe, che mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista nelle colonie perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati con un'opera indipendente di formazione ideologica e organizzativa, si chiede l'appoggio di movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti delle metropoli.

Da "Prometeo" - 15 aprile 1924

E in polemica con i riformisti:

Questi tentano di dimostrare che le colonie sono una fonte di ricchezza anche per i lavoratori delle metropoli con l'offrire lo sbocco dei prodotti, e traggono da questo altri motivi per la collaborazione di classe, sostenendo in molti casi che lo stesso loro principio di nazionalità può essere violato per l'interesse 'della diffusione della civiltà borghese' e per accelerare l'evoluzione delle condizioni del capitalismo. Ed è qui un altro saggio di travisamento rivoluzionario del marxismo, che si riduce ad accordare al capitalismo sempre più larghe proroghe al movimento della sua fine, e dell'attacco rivoluzionario con l'attribuirgli ancora un lungo compito storico, che noi gli contestiamo.

Lo stesso problema veniva - e sempre per la penna di Bordiga - sensibilizzato dopo la virtuale defenestrazione della Sinistra dal partito.

Questione nazionale - Anche nella teoria del movimento delle popolazioni nei paesi coloniali e di taluni paesi eccezionalmente arretrati, Lenin ha apportato una fondamentale chiarificazione.
Anche prima che siano maturi i rapporti della moderna lotta di classe, sviluppati tanto dai fattori economici indigeni che da quelli importati nell'espansione del capitalismo, si pongono delle rivendicazioni che sono risolubili solo in una lotta insurrezionale e con la sconfitta dell'imperialismo mondiale.
Quando queste due condizioni si verificano in pieno, la lotta può scatenarsi nell'epoca della lotta per la rivoluzione proletaria, nelle metropoli, pur assumendo localmente gli aspetti di un conflitto non classista, ma di razza o nazionalità.
Nella impostazione leninista restano tuttavia fondamentali i concetti della dirigenza della lotta mondiale da parte degli organi del proletariato rivoluzionario e della suscitazione, non mai del ritardo e della cancellazione, della lotta di classe nei termini indigeni, della costituzione e sviluppo indipendente del partito comunista locale.
L'estensione di questa valutazione dei rapporti a paesi in cui il regime capitalistico e l'apparato statale borghese sono da tempo costituiti, rappresenta un pericolo, in quanto sotto tale aspetto la questione nazionale e l'ideologia patriottica sono diretti espedienti controrivoluzionari, tendenti al disarmo di classe del proletariato.
L'elevare a principio la lotta delle minoranza nazionali per se stessa, è dunque la deformazione della concezione comunista, dipendendo da ben altri criteri il discernere se tale lotta presenta possibilità rivoluzionaria o sviluppi reazionari.

Dalle Tesi presentate dalla Sinistra al III Congresso del P.C. d'Italia - Lione 1926

Concretamente, come va posto il problema dei rapporti tra il partito della rivoluzione e i moti d'indipendenza dei popoli coloniali da quando è crollato - col primo Stato proletario - anche il grande disegno strategico di convogliare l'enorme potenziale esplosivo della ribellione dei popoli coloniali sul piano della rivoluzione socialista internazionale, sotto la guida della Russia dei Soviet per sferrare l'attacco contro lo schieramento del capitalismo imperialista uscito vittorioso dalla prima guerra mondiale?

In continuità storica e politica con la Sinistra italiana, il nostro Partito ha precisato il suo pensiero in questi termini (1952), contro la pretesa di una

necessità dialettica di lottare per la vittoria delle rivoluzioni borghesi sul regime feudale per favorire l'avvento della produzione capitalistica.

Ma lotta significa partecipazione attiva del partito rivoluzionario come ideologia e apporto organizzativo e politico al moto borghese che sta operando anche oggi la sua penetrazione nelle zone ad economia arretrata, strappando cioè queste ultime zone extra-capitalistiche per inserirle nel proprio processo di produzione.
Non si tratta - invece e perciò - di lottare perché il capitalismo accresca e dilati la sua 'rapacità' e la sua naturale spinta all'espansionismo nei confronti delle zone arretrate ; su questo indirizzo il capitalismo non fa che obbedire alla logica della sua struttura, alla dinamica delle sue contraddizioni interne, alla spinta dei suoi interessi, e lo dimostra chiaramente il fatto che per questa sua azione le zone extra-capitalistiche sono non solo assai ridotte di numero, ma incapaci di costituire oggi una riserva sufficiente e sicura come mercati di consumo.
Non si tratta perciò di lottare per la vittoria delle rivoluzioni borghesi sul regime feudale, che porrebbe il partito proletario sullo stesso terreno d'azione del capitalismo; ma una più esatta valutazione del problema pone l'azione del proletariato sul piano dell'urto di classe, il solo che serva a pungolare il capitalismo a risolvere con i 'suoi' mezzi i problemi della 'sua' conservazione...

E così il nostro Partito concludeva il suo pensiero nel corpo di Tesi approvato al II Congresso del P.C. Internazionalista (1952):

Il Partito ritiene definitivamente chiuso il periodo dei moti nazionali anche nei paesi coloniali a struttura economica prevalentemente pre-capitalista, nei quali lo sviluppo del capitalismo indigeno s'incrocia col capitalismo della nazione colonizzatrice attraverso legami strettissimi e congeniti di classe, per effettuare in comune la dominazione sullo stesso proletariato 'colonizzato'.
Non esiste oggi nell'Occidente e nell'Oriente, Asia compresa, un solo paese, per quanto economicamente arretrato, in cui il proletariato senta 'più' il problema dell'indipendenza nazionale e 'meno' la sua liberazione dal duplice sfruttamento capitalistico.
Nel periodo che sta a cavallo tra la seconda e la terza guerra mondiale, cioè nel periodo storico del più vasto e vessatorio dominio imperialista sul mondo, lottare in solidarietà con le forze - qualunque esse siano - dei moti di liberazione nazionale, significa porre il Partito sul terreno della politica dell'avversario di classe, significa operare sul terreno borghese verso il quale ogni moto nazionale dovrà necessariamente confluire.
Il Partito respinge perciò dai propri compiti quello delle alleanze rivoluzionarie con le borghesie tanto di Occidente che d'Oriente (Russia compresa) e della partecipazione alle guerre di formazione nazionale, come respinge la falsa impostazione dialettica per la quale il Partito dovrebbe lottare per la vittoria delle rivoluzioni borghesi sul regime feudale, per favorire l'avvento della rivoluzione capitalista, perché in ogni caso significherebbe lottare per il trionfo dell'imperialismo di una borghesia a danno dell'imperialismo di un'altra borghesia.

Riproporre oggi il tema della strategia leninista, che al presupposto dell'affermazione vittoriosa dello Stato proletario faceva giustamente dipendere la visione dialettica della lotta mortale da condurre contro il più grande complesso di potenza coloniale quale era allora l'Inghilterra, significa porsi sul piano della strategia dello Stato russo, significa , in una parola, legare la causa del proletariato al carro dell'imperialismo.