La questione nazionale e coloniale - I Paesi non allineati

Solidarietà di classe non solidarietà nazionale

Da Battaglia comunista n. 9 - settembre 1960

Finalmente un dato positivo è uscito dalla recente riunione all'Onu. I rappresentati dei Paesi afro-asiatici giunti alla indipendenza si sono schierati direttamente con la politica di Kruscev o con quella dei paesi cosiddetti neutrali, ma di fatto fiancheggiatori coscienti o cautamente polemici di questa politica.

Ciò significa in modo inequivocabile che il centro verso cui sono decisamente orientate le rivoluzioni coloniali va ricercato a Mosca e non altrove.

In altre parole, i paesi afro-asiatici usciti o in via di uscire dal bozzolo ferreo della vecchia colonizzazione capitalistica europea, subiscono quella prevalente attrazione che trova nella Russia post-rivoluzionaria, nella sua ideologia e nel suo capitalismo di Stato la propria giustificazione ed affermazione.

I rivoluzionari marxisti hanno sempre affermato che soltanto il proletariato internazionale, la sua organizzazione politica avrebbe avuto il compito storico di solidarietà fattiva e di guida operante nella rivoluzione dei popoli di colore in questa fase avanzata dell'imperialismo.

Con Lenin abbiamo considerato l'Internazionale comunista e la Russia, in quanto realizzazione del primo Stato proletario, l'insostituibile centro animatore e realizzatore delle rivolte coloniali contro il dominio dell'imperialismo colonizzatore.

Ma chiusasi tragicamente la fase rivoluzionaria che si era aperta con la insurrezione dell'Ottobre bolscevico, costruito il formidabile apparato del più potente capitalismo di Stato sulle macerie dei Soviet; soffocata nel sangue ogni iniziativa dal basso e ogni esercizio del potere realizzato in nome della dittatura del proletariato, solo dei rinnegati, solo dei controrivoluzionari incalliti nel tradimento possono vedere nella Russia di Stalin o di Kruscev, nella Russia cioè della seconda guerra mondiale e dell'imperialismo, il difensore disinteressato della causa dei popoli di colore.

Tuttavia le rivoluzioni coloniali sono una realtà che non va ignorata, che non va sottovalutata. Queste rivoluzioni non sono, non possono essere autosufficienti; per svolgere la loro lotta, quando manchi una effettiva, concreta solidarietà del proletariato internazionale (è questa la tragedia maggiore del nostro tempo) esse sono inevitabilmente portate ad accettare gli aiuti del migliore offerente del momento, che è poi l'imperialismo russo perché più giovane, perché più attivo, perché più spregiudicato ed aggressivo, e infine perché il capitalismo di Stato accampa il diritto affidatogli dalla storia di dominare sulle forze del capitalismo in ritardo nella sua trasformazione su base imperialista.

Se anche noi avessimo accettato la teoria della solidarietà assoluta e indifferenziata con le rivoluzioni coloniali così come esse si manifestano, oggi, si articolano e si concludono nel clima storico dell'imperialismo che è nel contempo il clima storico delle svolte brusche (Lenin) e della rivoluzione proletaria, avremmo dovuto essere conseguenti fino in fondo ad accettare di solidarizzare con quelle forze politiche - quelle dello Stato russo - che per ragioni di strategia mondiale si sono poste a capo del movimento di rivolta dei popoli afro-asiatici, e saremmo finiti nel calderone di Mosca, non importa se solo... teoricamente

Abbiamo invece considerato l'attuale politica condotta dal Cremlino verso i popoli di colore come il rovesciamento totale della tattica di Lenin realizzata nella fase ascendente del moto rivoluzionario russo, e abbiamo adottato l'insegnamento che conteneva: quello di aiutare le rivoluzioni dei popoli di colore con una solidarietà di classe mirante a fare di questo impareggiabile potenziale rivoluzionario non un sostegno dell'imperialismo ma un apporto considerevole e forse decisivo alla liberazione degli sfruttati dalla tirannide economica e politica del capitalismo.

Per questa ragione, solidarietà, sì, con le rivoluzioni nazionali delle zone afro-asiatiche. ponendo però l'accento più sul termine rivoluzione con senso di classe, che sul termine nazionale; politica questa che, a lungo andare, conduce inevitabilmente sulla strada del nazionalismo e della guerra imperialista.

La rivoluzione nazionale algerina si conclude nel capitalismo di stato e sul fronte dell'imperialismo

Da Battaglia comunista n. 8/9 - settembre 1962

Gli avvenimenti che hanno concluso i sette anni di lotta armata per la indipendenza algerina, e quelli ancor più significativi che ne sono seguiti, costituiscono per noi e in genere per i gruppi dell'avanguardia rivoluzionaria un vivo banco di prova da cui scaturiscono insegnamenti d'importanza fondamentale, e soprattutto conferme di cui bisognerà tener conto nella elaborazione della teoria rivoluzionaria e della strategia di classe.

Non intendiamo fare qui il processo a quei compagni e a quei gruppi che hanno "tifato" per i moti di liberazione dei popoli di colore, e nel dramma eroico del popolo algerino hanno voluto vedere la forma tipo della rivoluzione anticoloniale, senza alcuna seria distinzione tra nazionalismo e socialismo; senza una seria analisi delle forze della nuova borghesia indigena che nel corso della lotta, in concomitanza ad eventi e interessi prevalenti nel piano della politica internazionale, avrebbero finito per sbarrare la strada alla stessa rivoluzione nazionale.

Semmai il processo va fatto particolarmente alla tesi secondo la quale il partito rivoluzionario internazionale dovrebbe sostenere quelle forze che comunque tendono a portare fino in fondo l'esperienza borghese dal cui seno, come dalla mente di Giove, dovrebbe venir fuori il socialismo, dimenticando che il capitalismo monopolistico è quello della fase decadente e parassitaria, assai diverso strutturalmente e politicamente da quello della fase iniziale e ascensiva del suo sviluppo; e che il possibile ritorno offensivo del mondo della medioevalità economica e politica, se imponeva una tattica di sostegno da parte del proletariato rivoluzionario alla borghesia fino ai moti del 1848, la stessa tattica adottata oggi sortirebbe effetti diametralmente opposti. E il ragionamento vale tanto per l'analisi delle forze che operano nelle rivoluzioni nazionali dei popoli di colore come nella più avanzata esperienza del capitalismo di Stato.

Non è vero che è compito del proletariato rivoluzionario sostenere le forze della borghesia cosiddetta progressiva, sol perché tali forze nel seguire la dinamica della organizzazione capitalistica creano le condizioni materiali di quella "socialità" che è il presupposto dell'avvento del socialismo. È nella natura del capitalismo portare all'estremo le sue interne contraddizioni, e mentre spinge le sue forze politiche al compimento della sua parabola, nell'illusione che il sistema di produzione sia immutabile ed eterno come immutabile ed eterno sarebbe il profitto che loro assicura, crea nel contempo nel suo stesso seno e ingigantisce fino al limite le condizioni obiettive del sorgere del proletariato, del perenne e insanabile conflitto di classe e della tendenza all'eversione violenta contro quelle stesse forme di produzione e di distribuzione e contro le forze politiche che, accampate nella cittadella dello Stato, cercano con ogni mezzo di non essere sommerse.

Sotto questo rapporto il socialismo non rappresenta uno sbocco naturale e pacifico del capitalismo ma ne è la sua contrapposizione, è il volto delle sue implacabili contraddizioni implicite nel suo stesso sviluppo. Il socialismo sarà nella misura che negherà il capitalismo da cui si è originato. E non vi sarà passaggio dall'una all'altra fase della storia umana che non avvenga per violenta lacerazione. Così avverrà per l'avvento del socialismo.

A conclusione di questa parte della nostra trattazione affermiamo che ogni politica di sostegno delle forze, comunque qualificate, del cosiddetto neo-capitalismo e della economia pianificata, è come sostenere la corda dell'impiccato; è come solidarizzare con l'imperialismo; è come svuotare il proletariato del suo contenuto di classe e togliere alla sua organizzazione politica, il partito rivoluzionario, l'obiettivo storico della sua strategia e legarlo al carro delle vicissitudini della babele borghese, che nell'interesse dell'umanità deve essere spazzata via.

Cerchiamo di approfondire questo grosso problema, il maggiore e più controverso del nostro tempo, al lume della esperienza algerina, ultima nella serie di moti d'indipendenza nel settore afro-asiatico.

E' nella natura delle cose che, conclusa la lotta per l'indipendenza, il periodo che segue sia quello della costruzione dello Stato e, quali che siano le influenze ideologiche subite dall'indirizzo dato ai piami della costruzione economica e dalle forze politiche che vi dominano, questo Stato sarà in ogni caso l'organo di tutela e di difesa armata degli interessi, di tutti gli interessi propri della classe che esercita il potere. E sarà lo Stato di chi ha vinto e quindi lo Stato di classe, unilaterale e perciò stesso repressivo contro tutti coloro che sono considerati estranei e in contrasto col regime imperante. Fidel Castro ieri e oggi Ben Bella, prova e riprova della esattezza della nostra analisi.

La via di sviluppo dello Stato che sorge in un paese resosi "indipendente", conduce in ogni caso alla gestione pianificata e fortemente accentrata della sua economia e della sua politica alla cui realizzazione è necessaria, sì, la solidarietà attiva della classe operaia ma soprattutto è necessario il suo lavoro in condizioni di soggezione e di sfruttamento.

In un caso solo lo Stato può dirsi tendenzialmente avviato sulla strada del socialismo ed è quando il proletariato vi gioca un ruolo fondamentale e vi esercita la "sua" dittatura sotto la guida del "suo" partito rivoluzionario; a questa sola condizione la fase transitoria del capitalismo di Stato, cui è demandato il compito di portare fino in fondo lo sviluppo degli strati arretrati del pre-capitalismo che la rivoluzione ha avuto in eredità, è di fatto un momento necessario nella organizzazione d'una economia socialista.

È facile constatare come nessuno dei moti afro-asiatici per l'indipendenza ha camminato su questo binario, ma si è concluso con il rafforzamento del nazionalismo e ha affidato il potere alla borghesia indigena, così come a Cuba, così come in Algeria, riproducendo nel suo piccolo, come in un microcosmo, gli impulsi, le tendenze e gli interessi del grande conflitto imperialista che ha spezzato il mondo in due blocchi di potere e di dominio.

Quali, allora, i compiti del partito rivoluzionario? Simpatia e sostegno alle forze di Ben Bella, ora vittoriose, perché forze estreme del radicalismo algerino e perché gravitanti nella zona di influenza russa? Rispondiamo: no! Simpatia e sostegno alle forze della "villaia" che per sette anni si sono battute con tanta ostinazione ed esprimono più da vicino i sentimenti generici del popolo algerino? Rispondiamo ancora: no! Non è nella tattica rivoluzionaria "tifare" o sostenere la politica del meno peggio.

I lavoratori algerini, che hanno creduto nella lotta per l'indipendenza, se non hanno saputo o non hanno potuto caratterizzarsi e dare un volto e un contenuto di classe alla loro lotta; se la lunga lotta di indipendenza aveva per questi lavoratori o per buona parte di essi il significato di liberazione anche dallo sfruttamento economico (e questo è il significato dell'assunto strategico della doppia rivoluzione); se gli interessi dei lavoratori algerini non sono e non possono essere gli interessi delle cricche nazionaliste di Ben Kedda e dei Ben Bella e dei colonnelli delle varie "villaia", è tempo che essi prendano coscienza del loro essere di classe antagonista, e di fronte alla costruzione dello Sato e al consolidarsi di una nuova borghesia che porta con sé le ragioni e gli strumenti di una nuova oppressione, i lavoratori algerini devono stringersi nelle organizzazioni sindacali e di fabbrica, dar vita a un saldo fronte di classe e alla formazione dei quadri del partito comunista internazionale, col compito immediato di battere in breccia il nazionalismo nella varietà dei suoi atteggiamenti che nel paese, nello Stato, nei rapporti economici, sociali e politici è la lunga mano dell'imperialismo nella variante tanto russa che americana.

Questo il compito immediato dei lavoratori algerini e dei primi quadri di rivoluzionari formatisi al fuoco della guerra, compito al quale non mancherà la solidarietà dei marxisti rivoluzionari di tutto il mondo.

Lotta di liberazione dal colonialismo - La posizione del partito

Da Battaglia comunista n. 11 - novembre 1962

La strategia rivoluzionaria e la necessità storica di preservare i quadri del Partito dalla peste della guerra imperialista, vanno difese come il patrimonio più prezioso del proletariato.

Nel fatto particolare delle lotte coloniali per l'indipendenza, non è il caso di ripetere le ragioni del noto atteggiamento del Partito e preferiamo sintetizzarlo nelle sue linee essenziali.

  1. L'epoca attuale è quella della guerra imperialistica e delle rivoluzioni proletarie; i moti di liberazione delle colonie si inquadrano in questa realtà storica e ne subiscono gli impulsi e le influenze anche quando si proclamano "terza forza".
  2. Denuncia del ruolo che giocano le forze della borghesia indigena, che si avvalgono del lavoro, dei sacrifici e dell'apporto decisivo delle masse operaie per portare a compimento la "loro" rivoluzione e convogliarla sul piano dello Stato e della sua economia pianificata.
  3. Per evitare che l'apporto delle masse operaie indigene alla lotta per l'indipendenza sia di fatto un apporto alla vittoria del nazionalismo, bisogna approfondire il solco che divide gli interessi delle masse operaie da quelli della borghesia nazionalista, che il mito della stessa indipendenza non riuscirà mai a colmare, e su questa distinzione di classe propagandare il principio che l'indipendenza nazionale non sarebbe nulla, o ben poca cosa, se non fosse nel contempo indipendenza dalle nuove forme dello sfruttamento capitalistico.

Nel fuoco della lotta, dal seno stesso delle masse combattenti, vanno forgiati i primi nuclei di classe da cui usciranno i quadri dell'organizzazione politica del proletariato di colore.

Tutto ciò poteva essere fatto, per esempio, nell'esperienza algerina, ma il piccolo borghesismo estemporaneo e intellettualistico della fungaia di gruppetti d'avanguardia francesi non lo ha soltanto impedito, ma è servito in definitiva a seminare confusione e smarrimento nel momento in cui sarebbe stata necessaria e determinante la presenza di una guida marxista-leninista.

Solo a questa condizione il grande potenziale umano che si è battuto, si batte e si batterà contro il vecchio e il nuovo colonialismo, potrà essere considerato vivo e operante come settore afro-asiatico della lotta del proletariato internazionale.

La doppia rivoluzione e i suoi limiti

Da Battaglia comunista n. 8/9 - settembre 1963

La stampa borghese, a ragione, va ancora occupandosi, anche se con diminuito interesse, del conflitto ideologico russo-cinese per trarre più acqua che sia possibile al mulino degli interessi del capitalismo mondiale; noi, al contrario, continuiamo ad occuparcene per ridurre, quanto è più possibile, le distanze e gli attriti tuttora esistenti fra tutti coloro, gruppi e individui, che intendono chiarire i termini reali di tale conflitto nell'interesse della lotta di classe, dell'internazionalismo operaio e della rivoluzione socialista.

Siamo tutti d'accordo, in linea di massima, sulla solidarietà operante che deve essere assicurata dal proletariato e dalle sue forze politiche alla rivoluzione coloniale nella sua fase montante; solidarietà che va alle forze operaie che si muovono nella rivoluzione e che si battono per il suo trionfo; aiutarle a caratterizzarsi nel loro essere di classe, nei loro obiettivi da raggiungere perché la doppia rivoluzione (sono, infatti, gli operai indigeni che sopportano il peso maggiore delle privazioni e sono i soli a garantire col loro sangue la riuscita della lotta armata) serva in definitiva alla causa del proletariato e non a quella del nazionalismo imperialista.

Doppia rivoluzione che dovrebbe concludersi affidando agli operai, nell'ambito della loro dittatura, il compimento della rivoluzione borghese o, nell'ipotesi subordinata, rendere possibile il crearsi di condizioni favorevoli per la formazione dei quadri politici e militari che soli garantiscono la esistenza del partito della rivoluzione al quale spetta il compito di impedire con ogni mezzo il consolidarsi del potere economico, politico e poliziesco della borghesia nazionalista.

La tattica della doppia rivoluzione deve essere considerata, quindi, come la tattica che deve portare gli operai alla direzione della stessa rivoluzione borghese, così come la forza degli operai nei Soviet della rivoluzione borghese di Febbraio condizionò e rese possibile la rivoluzione socialista di Ottobre. Soltanto la presenza di questi dati obiettivi, che però nessuna rivoluzione coloniale ha fin qui dimostrato di possedere, può portarci a considerare la rivoluzione coloniale nel solco della rivoluzione d'Ottobre.

Ma allora quali sono, in concreto, quelle che noi abbiamo chiamato "positività obiettive" della rivoluzione coloniale?

  1. Certo, e soprattutto, il superamento della feudalità economica per l'instaurazione di un regime di produzione capitalista.
  2. La lotta armata contro il colonialismo.
  3. Il formarsi di uno Stato moderno e con esso l'avvio alla costruzione delle cosiddette infrastrutture (strade, ponti, ferrovie, scuole, eccetera).
  4. Il formarsi, nella più ampia struttura del capitalismo, del proletariato con una sempre più avvertita coscienza di classe e del suo ruolo rivoluzionario.

Ma tutto ciò va considerato come un momento naturale e inevitabile nella dinamica del capitalismo. Vero è che tale fenomeno non deve essere considerato in senso strettamente meccanicistico, di banale rapporto, cioè, di cause ed effetti. Si tenga presente la secolare politica degli USA di mantenere in uno stato di permanente inferiorità economica, di Paesi semi-coloniali, gli Stati latino-americani, per impedire il potenziamento di alcuni settori della loro economia; un potenziamento che avrebbe potuto avere una pericolosa funzione concorrenziale mettendo in crisi, in particolari settori, la stessa egemonia USA nei mercati americani e nel mondo restante. Non dissimile il rapporto esistente da noi tra le due economie, con quella delle zone depresse del Sud fatta campo di speculazione da parte dell'industrialismo del Nord. Si troverà sempre, per esempio, una Montecatini che con una mano industrializza e con l'altra impedisce lo sfruttamento di potenziali risorse economiche per non subire concorrenza all'esercizio del suo monopolio.

Giustamente riteniamo perciò che la tendenza a eliminare, ai propri fini di sviluppo e di conservazione, le zone extra-capitalistiche, è fenomeno proprio di questo sistema di produzione che la strategia rivoluzionaria deve considerare come artefice principale e involontario delle profonde contraddizioni esplodenti dal seno stesso del suo tessuto economico, e di cui il proletariato dovrà servirsi a tempo per i suoi fini di classe rivoluzionaria.

In questo quadro il ruolo della rivoluzione nazionale non è determinate anche se necessario. Spostare la strategia della rivoluzione proletaria a quella della rivoluzione nazionale porterebbe a disperdere l'iniziativa di classe nei vicoli ciechi del "progressismo", per finire incapsulata nelle strettoie del capitalismo di Stato.

Il problema di fondo, per il proletariato indigeno, è dunque quello di distinguersi sempre, di dissociarsi a tempo, di non servire, in ogni caso, da sgabello all'ascesa al potere della borghesia nazionalista, e di non costruire con le proprie mani le ferree maglie del capitalismo di Stato per un nuovo e più infame sfruttamento.

Cina e Algeria e Congo insegnano: rivoluzioni, cioè, dal cui seno si sarebbero potute originare forze di un effettivo potere di classe se i centri di direzione interni ed esterni non fossero stati appestati di nazionalismo. In ogni caso non è accettabile la tesi secondo la quale nell'epoca storica dell'imperialismo e delle rivoluzioni proletarie sarebbe compito del proletariato sostenere la borghesia a portare fino in fondo la sua rivoluzione; tesi, invece, che è stata di importanza essenziale quando la borghesia era protesa a creare le fondamenta della sua struttura economica e dello Stato moderno, nella lotta frontale contro la medievalità e i suoi ritorni offensivi.

Non è tuttavia chiara nella coscienza politica di molti la condotta da seguire di fronte alle forze politiche insediatesi alla direzione dello Stato, sorto dalla lotta di indipendenza.

Ed è qui che si situa il problema - per noi rivoluzionari - se solidarizzare o meno, per esempio, con l'attuale politica cinese e le ragioni del suo conflitto ideologico con la Russia.

Bisogna separare nettamente la causa delle masse operaie indigene dallo Stato e dalla sua classe dirigente, che sono espressioni del capitalismo, costruito sulla linea di sviluppo della più recente tecnica produttiva mondiale e del pensiero mondiale nel clima storico del dominio imperialista. Causa operaia e politica di poteri dello Stato sono termini contrapposti della dialettica di classe. Per giungere ai suoi obiettivi storici il proletariato dovrà rompere le strutture del capitalismo di Stato, ultima trincea del potere borghese.

Chi solidarizza con la politica dei Ben Bella, dei Fidel Castro e dei Mao-Tse-Tung credendo di solidarizzare con i proletari algerini, cubani, cinesi e con la loro rivoluzione nazionale, solidarizza di fatto con chi è al di là e contro la vera rivoluzione socialista.

Il problema centrale è, dunque, quello di precisare, una volta per tutte, il ruolo che effettivamente hanno giocato e giocano la borghesia e i suoi intellettuali di "sinistra".

Scrive Trotsky nella sua "Storia della Rivoluzione Russa", che per Lenin una guerra nazionale di emancipazione, opposta a una guerra d'oppressione imperialista, era solamente un'altra forma di rivoluzione nazionale che, a sua volta, si inseriva come un anello indispensabile nella lotta emancipatrice della classe operaia del mondo intero.

Da questo giudizio sulle rivoluzioni e sulle guerre nazionali - continua Trotsky - non discende in nessun modo il riconoscimento di qualche missione rivoluzionaria della borghesia delle nazioni coloniali e semi-coloniali. Al contrario, è proprio la borghesia dei paesi arretrati che si sviluppa come un agente del capitale straniero e, benché mostri per quest'ultimo una invidiosa ostilità, si trova e si troverà in tutti i casi decisivi unito ad esso nel medesimo campo.
Il gruppo dirigente della piccola borghesia, fra cui gli intellettuali, può prendere una parte attiva, a volte rumorosa (e a volte eroica, aggiungiamo noi), alla lotta nazionale, ma non è assolutamente capace di giocare un ruolo indipendente. Solo la classe operaia, avendo preso la testa della nazione, può condurre fino in fondo una rivoluziona nazionale o agraria.

E' proprio nel quadro di questa visione strategica del marxismo-leninismo che si situa il ruolo della doppia rivoluzione nella quale la nostra solidarietà attiva, individuato il nuovo nemico di classe nei borghesi astuti o illuminati (i Mao, i Fidel Castro, i Nasser, i Ben Bella, ecc.), va, incondizionatamente, alle forze operaie indigene a cui spetta il ruolo determinante di forza sociale, guida della rivoluzione coloniale.

E perché tale affermazione non rimanga semplice indicazione teorica, precisiamo che tutta la nostra solidarietà, la solidarietà del proletariato internazionale, deve andare a quelle forze del proletariato cinese, algerino, ecc., che da condizioni obiettive sono e saranno spinte non solo a dissociarsi dalla borghesia - sorta dalla nuova economia monopolistica e dalla sua politica di potere - ma a spezzare le stesse strutture del capitalismo di Stato per la vittoriosa e rivoluzionaria affermazione del socialismo.

Alternativa storica: ritorno a Lenin o ulteriore peggioramento della condizione operaia nel mondo

Da Battaglia comunista n. 10 - ottobre 1964

Nei rapporti cino-russi, quali che siano le prospettive di riavvicinamento e d'intesa, il fondo, quale è dato dalla geografia e dal contrasto di interessi consolidati dalla storia di questi due colossi confinanti, rimane immutato è costituisce uno dei centri nevralgici di maggiore frizione mondiale. Una frizione oggi allo stato potenziale ma che domani potrà accendersi per la ricerca e rivendicazione dello spazio vitale per una popolazione di colore spinta oggettivamente a riempire il vuoto che le sta davanti, e servire così da valvola di sicurezza al pericolo di esplosioni interne, rivoluzionarie, sovrastanti questa caldaia umana che è la Cina di Mao.

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Nessuno contesta che nelle zone geografiche sottosviluppate la fame può portare avanti una formidabile spinta rivoluzionaria, ma alla condizione che si offrì a Lenin, quella cioè di trovare nel proletariato rivoluzionario della metropoli un centro di guida e solidarietà attiva. È avvenuto invece che la fame ha scelto la strada del suo appagamento immediato, spingendo le masse sotto la bandiera del nazionalismo della borghesia indigena, alleata al capitale finanziario delle centrali dell'imperialismo.

Quando ciò accade, ed è accaduto in Egitto, in Algeria, in Tunisia e nei cosiddetti paesi non allineati, la rivoluzione coloniale non mette in crisi l'imperialismo, ma lo fiancheggia, se ne fa pedina strategica nell'arena mondiale e in definitiva ne allarga e ne consolida l'influenza.

Su questo mondo, uscito dal colonialismo vecchia maniera ma risucchiato dal neo-colonialismo, la Cina - per la natura stessa della sua rivoluzione agraria ed antifeudale - gioca un ruolo di primo piano in aperta concorrenza alla Russia. La sua bomba atomica, se conferma il grado di conquista tecnica a cui la Cina è pervenuta ad onta che nel suo sviluppo economico il pre-capitalismo largamente prevalga sul moderno capitalismo monopolistico e di Stato, segna il rafforzamento di questo terzo vertice di potere e allinea di fatto la Cina sul fronte dell'imperialismo e della guerra.

Quale è l'anello più debole dello schieramento capitalista, più prossimo a spezzarsi e ad aprire così la nuova fase rivoluzionaria nella quale altri anelli saranno destinati a saltare? Formuliamo l'ipotesi che tale prospettiva la offra il settore dei paesi usciti dalle lotte anticoloniali, dove maggiore è l'urto delle contraddizioni e minore la capacità di resistenza, e dove è in atto l'esaurirsi del moto "nazionale", incanalato nelle secche del capitalismo di Stato mentre sono in fase di maturazione le condizioni oggettive e soggettive della doppia rivoluzione.

L'errore grave e irrimediabile che si nasconde nella tattica della "doppia rivoluzione" è di considerarla momento a sé stante e non in vista di un più ampio svolgimento della strategia rivoluzionaria.

La solidarietà verso i moti anticoloniali non nasce, per noi, da ragioni sentimentali e umane suscitati dalla rivolta dei popoli di colore e dal loro diritto di entrare nel girone infernale della civiltà capitalista (ciò che, in definitiva, è nell'interesse stesso del capitalismo), ma dalla convinzione che la strategia capitalista può essere colpita a morte dalla strategia rivoluzionaria il giorno che questa possa contare - nel proprio dispositivo d'azione - l'incalcolabile potenziale umano ed economico offerto dalla doppia rivoluzione.

Quel che conta in questa ferrea strategia di classe è che l'attacco a fondo contro il capitalismo è possibile solo se condotto dalla forza del proletariato internazionale esprimente l'antagonismo di classe a cui il mondo del pre-capitalismo deve saldare, in un vincolo di unità, la sua lotta di liberazione.

Quando invece lo svolgimento della lotta non va oltre il motivo tattico di favorire la vittoria e il consolidamento della borghesia indigena, si è già di fatto inseriti nel dispositivo avversario, ciò che, in definitiva, consolida il fronte dell'imperialismo.

Ma anche questa prospettiva è condizionata dal ritorno offensivo del proletariato sotto la guida di una direzione rivoluzionaria.

Una direzione rivoluzionaria presuppone un partito rivoluzionario internazionale ed una strategia rivoluzionaria di classe, condizione questa non esistente e che comunque attende di essere prodotta dall'azione convergente - sul piano del partito di classe - di tutte le forze politiche che si richiamano al marxismo come dottrina e al leninismo come esperienza tattico-strategica espressa dalla rivoluzione d'Ottobre.

Punti fermi:

  1. La fase storica apertasi con la rivoluzione d'Ottobre non è presupposto ideale alle lotte per l'indipendenza delle colonie, né queste lotte si svolgono nel solco di quella gloriosa esperienza rivoluzionaria.
  2. Soltanto il proletariato internazionale è il motore storico della rivoluzione anticapitalista.
  3. La rivoluzione anticoloniale o si riallaccia strategicamente, con la "doppia rivoluzione", al moto del proletariato internazionale o è destinata a risolvere i problemi della sua affermazione nazionale inserendosi in questo o quel settore dello schieramento imperialista.
  4. La parola d'ordine del disfattismo rivoluzionario deve essere fatta propria dall'avanguardia marxista-leninista di fronte a tutti gli episodi di guerra (non esistono nella fase del capitalismo morente guerre "giuste" e guerre "ingiuste", ma soltanto guerre di rapina) anche se originate da rettifiche di confine o da rivendicazioni territoriali (Cina-India; Cina-Russia).
    I marxisti leninisti risponderanno col disfattismo rivoluzionario anche alla proclamazione di eventuali guerre (il terzo conflitto mondiale, per esempio) che fossero condotte dalla Russia, o dalla Cina, o dalla Russia e Cina insieme, contro qualsiasi avversario del blocco occidentale in nome della guerra rivoluzionaria, per la ragione ovvia - per dei marxisti - che in ogni caso si tratterebbe di guerra di rapina come ogni guerra imperialista, in nulla dissimile dalle precedenti del 1914 e del 1939.
  5. L'importanza "progressiva" della rivolta anticoloniale sta tutta entro i limiti del moto complessivo del capitalismo in quanto connaturata alla sua natura di classe.
  6. Contraddizione fondamentale è quella che, mentre da una parte spinge il capitalismo a vedere restringere attorno a sé sempre più le zone del pre-capitalismo ancora aperte alla sua voracità, dall'altra accentua i motivi della sua crisi generale e avvicina la inesorabilità della sua fine.
  7. Più il capitalismo si allarga e aumenta la sua potenza economica, politica e militare, tanto più la sua organizzazione diventa parassitaria e putrescente, e si scava con le sue stesse mani la fossa. Tuttavia, sulla scena storica, oggi mancano gli affossatori o non sono tali e tanti da bastare a tale bisogna. Manca il partito rivoluzionario, o meglio la sua adeguatezza a questo compito storico.
  8. La necessità del partito è dunque al centro dei problemi e delle preoccupazioni scaturute dall'attuale situazione, per molti aspetti esplosiva. Il partito è lo strumento indispensabile ad una strategia rivoluzionaria. Ma un partito saldamente ancorato alla dottrina e nel medesimo tempo proteso alle soluzioni, sul piano di classe e degli obiettivi rivoluzionari, dei problemi che la lotta operaia pone incessantemente; un partito internazionale che riporti il proletariato nel solco della sua tradizione, nella coscienza del suo compito storico.

La causa comune del proletariato indigeno e di quello internazionale

Da Battaglia comunista n. 12 - dicembre 1964

Non vi è indipendenza - questo insegna a chiare lettere la esperienza dei popoli afro-asiatici - se ad essa non si accompagna la liberazione dalla schiavitù economica esercitata dal capitalismo colonialista di ieri e neo-colonialista di oggi.

Noi non vogliamo avere nulla di comune con questa politica di indipendenza delle colonie patrocinata dalla Russia o dalla Cina, perché si tratta in ogni caso di una indipendenza di comodo e truffaldina. Cina e Russia più che alla indipendenza mirano alla penetrazione delle nuove forme economiche e politiche del capitalismo di Stato, all'impiego del grande capitale finanziario, che ne domini egemonicamente il mercato, come è stato fatto fin qui dall'imperialismo tradizionale, per impiantare teste di ponte sempre più avanzate e profonde nella conquista dei continenti apertisi al capitalismo.

È questa per noi la sola politica di classe possibile se vogliamo davvero sottrarre la causa delle popolazioni coloniali e i giovani quadri del futuro partito di classe al nazionalismo indigeno, che è stato e sarà in ogni tempo il servo fedele dell'imperialismo, sia questo tinto di democrazia, come quello americano, o sia tinto di socialismo come quello russo-cinese. Dietro la maschera della solidarietà democratica, c'è sempre belluina rapacità e sete di dominio.

Per noi è fondamentale che la causa del proletariato indigeno è strettamente legata alla causa del proletariato internazionale. In questo senso noi abbiamo accettato e difeso il corpo delle Tesi elaborate, su questo grave problema, dal Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista. Siamo tuttora dello stesso parere e ci battiamo su questa direttiva per la ricostruzione di una nuova Internazionale, senza la quale ogni moto di liberazione dal colonialismo vecchio e nuovo è destinato a rimanere prigioniero nelle maglie del dominante capitalismo imperialista.

Questa la strategia rivoluzionaria posta dal Secondo Congresso dell'Internazionale, e questa è la strategia che difendiamo, ma sia ben chiaro che per essere concretamente rivoluzionari la strategia di classe non passa, né passerà attraverso Mosca o Pechino, e non sarà mai patrimonio dei partiti della democrazia parlamentare, ché, se lo fosse, se ne servirebbero per snaturarla e imbrigliare ancora una volta il proletariato e la sua rivoluzione.