Il “Patto fiscale”, un nuovo capitolo della guerra antiproletaria

«Luglio, col bene che ti voglio…» recitava una canzone di tanti anni fa, che sembra essere diventata il ritornello preferito della borghesia italiana, visto che, da almeno due decenni, proprio in quel mese ha calato sul proletariato e sulle classi sociali ad esso vicine alcune tra le più pesanti bastonate della storia recente. Giusto per rinfrescare la memoria, basti ricordare gli accordi tra le “parti sociali” del 1992-1993, che segnarono un salto di qualità nell’aggressione alle condizioni di vita del lavoro salariato/dipendente. Però allora – solo per richiamare un fatto di cronaca, naturalmente – gli accordi produssero fiammate di rabbia dei lavoratori che si manifestarono col lancio di poco democratici, ma molto “operai”, dadi metallici all’indirizzo dei sindacalisti, mentre oggi, misure di gravità uguale, se non forse maggiore, passano tra l’indifferenza pressoché generale, anche se per molti aspetti sarebbe meglio dire tra l’ignoranza generale. Infatti, quelli che dovrebbero essere i punti di riferimento della classe lavoratrice (così dice la leggenda) o si sono limitati a un borbottio di facciata, rimandando, come da tradizione, “dure” azioni di lotta… all’inizio dell’autunno (si sta parlando dei sindacati, ovviamente) oppure – il centrosinistra – ha votato a favore del provvedimento per il solito senso di responsabilità che lo contraddistingue. In ogni caso, tutti si sono ben guardati dall’illustrare alla loro base elettorale o associativa la natura e le conseguenze dell’accordo che hanno sottoscritto o finto di contrastare.

Per arrivare al dunque, si sta parlando del trattato europeo chiamato “Patto fiscale” o “fiscal compact”, approvato definitivamente il 20 luglio da una Camera dei deputati in cui spiccavano le assenze dei pezzi grossi dei vari gruppi politici. Inutile sottolineare che tali assenze non erano dovute all’emergere di un improvviso nonché inedito senso di responsabilità verso il proletariato, quanto alle lotte a coltello tra le gang borghesi che occupano le poltrone parlamentari, se non, più banalmente, all’abituale disinteresse per le fatiche, le difficoltà, le sofferenze del vivere quotidiano della stragrande maggioranza dei cosiddetti cittadini (1). Difficoltà e sofferenze accentuate in quest’epoca di crisi profonda del sistema capitalistico, alla quale il “Pattodovrebbe fare da argine, cominciando col ricondurre entro limiti ragionevoli la massa del debito pubblico, costantemente cresciuto dentro e fuori i confini dell’Unione Europea. Ovviamente, siamo noi che usiamo il condizionale, perché i sacerdoti dell’ideologia borghese in paramenti neoliberisti sono invece convinti – così almeno danno da vedere – che le ricette da loro prescritte imprimeranno una spinta energica al carro sgangherato del capitale, avviandolo verso nuovi e luminosi orizzonti. Poco importa che decenni di cosiddetto neoliberismo non abbiano estirpato la cancrena che corrode l’economia mondiale ormai da quarant’anni e passa; poco importa che, al contrario, i problemi siano stati solamente spostati più avanti nel tempo e, appunto, incancreniti: come ogni religione che si rispetti, la religione del capitale non ammette dubbi né confutazioni, anche se queste sono di un’evidenza solare.

Privatizzazioni, “liberalizzazioni”, tagli ininterrotti del salario (diretto, ma anche indiretto e differito: lo stato sociale), predazione delle risorse e monetizzazione di tanti aspetti della vita impoveriscono necessariamente fasce sempre più larghe della popolazione, con l’inevitabile restringimento del mercato, l’altare su cui viene stesa la vittima sacrificale: il proletariato. Eppure la borghesia insiste su questa strada perché alternative non ne ha, non ce ne sono: se può vivere, come classe sociale, solo dallo sfruttamento, è lo sfruttamento, in tutte le sue forme, che deve intensificare e in questo diventa tanto più audace – o feroce – quanto più il suo antagonista storico è stordito, spaventato dalla crisi e, non da ultimo, privato della propria identità di classe nonché della speranza in un mondo diverso. Ecco allora la scure del “Patto fiscale”, secondo il quale il debito pubblico dovrà scendere al 60% del PIL da qui al 2032, il che significa, per l'Italia, una cifra compresa tra i 45 e i 50 miliardi di euro all'anno. Come se non bastasse, il “Bel paese” dovrà versare altri quindici miliardi in cinque anni al MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), un fondo per finanziare le banche in difficoltà e impedirne il fallimento. Chi non farà i “compiti” ossia non rispetterà le procedure per la riduzione del debito, sarà colpito con una multa fino allo 0,1% del PIL. Ci vuol poca fantasia per indovinare quale asino dovrà trasportare questa soma gigantesca, ammesso che il “fiscal compact” venga effettivamente messo in atto, perché l'entità delle cifre in questione è spropositata. Se poi il PIL dovesse continuare a scendere o a stagnare e la “ripresa” allontanarsi a data da stabilirsi (segnali in senso contrario non se ne vedono né difficilmente possono vedersene...) il rapporto debito/PIL crescerebbe, con tutto ciò che ne consegue. Allora, altre privatizzazioni, altre svendite del patrimonio “pubblico” ai soliti pescecani, ancora tagli agli scampoli di stato sociale rimasti, ai salari e agli stipendi, altri licenziamenti e un'ulteriore dose di precarietà del posto di lavoro. D'altronde, la BCE (Banca Centrale Europea), sommo sacerdote del tempio capitalistico europeo, non perde occasione per ricordare quale sia la strada che conduce alla fantomatica ripresa, per sollecitare i governi – e le “parti sociali” – a imboccarla con meno esitazioni di stampo elettoralistico e più senso di responsabilità: bisogna

incoraggiare la flessibilità dei mercati del lavoro e la moderazione salariale, [dato che] in vari paesi la correzione al ribasso dei salari è stata modesta, e ciò malgrado l'aumento della disoccupazione a indicazione della necessità di ulteriori riforme che favoriscano la flessibilità dei salari.

Bollettino mensile della BCE, citato da F. Piccioni, il manifesto 13-07-2012

Chi, anno dopo anno, fa sempre più fatica ad arrivare a fine mese, per non dire a metà mese, chi vive quotidianamente condizioni di lavoro da anni cinquanta del Novecento – o anche... dell'Ottocento – potrebbe chiedersi quasi più con stupore che con rabbia (si fa per dire): ma come, ancora? Non basta tutto quello che ci costringono a subire?

No, non basta né basterà. Come hanno ricordato alti esponenti della borghesia (per esempio, Squinzi, presidente di Confindustria) la crisi sta producendo effetti paragonabili a quelli di una guerra, ma a differenza di questa – aggiungiamo noi – non sta facendo piazza pulita di mezzi di produzione, risorse e vite “esuberanti” rispetto alle necessità del capitale, per spianare la strada a un nuovo ciclo di accumulazione su scala mondiale. Però è vero che, come in tutte le guerre, chi paga i conti più salati è la “gente comune”, vale a dire la stragrande maggioranza della popolazione, quella che per vivere deve vendere la propria forza lavoro, sotto qualsiasi forma, in cambio di un salario o di uno stipendio.

Giustamente, Giorgio Cremaschi, una delle personalità più note del radical-riformismo, ha paragonato i tagli del “Patto fiscale” alle riparazioni imposte alle nazioni sconfitte (ossia, specifichiamo, al loro proletariato) dopo una guerra. Meno giustamente, Cremaschi si indigna per il colpo inferto alla democrazia dal diktat europeo, accettato in fretta e furia da un parlamento ansioso di chiudere il più rapidamente possibile la “pratica” senza informare il proprio elettorato. Perché scandalizzarsi? Non da ieri diciamo che la democrazia borghese non solo è, di per sé, una truffa ben congegnata, ma che il personale politico borghese, riflettendo il processo di concentrazione-centralizzazione del capitale, tende a svuotare anche formalmente il rituale democratico-borghese, riducendolo a puro involucro estetico, imponendo sempre di più decisioni prese al di fuori delle aule parlamentari. L'esistenza stessa del governo Monti ne è una prova, una delle tante. Ma questo il radical-riformismo non lo capirà mai, anche e forse soprattutto quando è in buona fede, cioè spesso: ipnotizzato dalle sue stesse illusioni, continuerà a scandalizzarsi per le violazioni della democrazia borghese compiute dalla borghesia medesima, si affannerà a elaborare ricette economiche “alternative” pescando a piene mani in un armamentario ideologico borghese “buono” per altre epoche storiche del ciclo capitalistico (il keynesismo), disorientando, dividendo o paralizzando potenziali soggettività anticapitalistiche. Niente di nuovo sotto il sole, in fondo: finché le masse proletarie, spinte dalle condizioni economico-sociali, non cominceranno, per lo più spontaneamente e confusamente, a rompere con il quadro ideologico borghese in tutte le sue varianti, finché il partito rivoluzionario non sarà una realtà davvero operante in quelle stesse masse, le illusioni riformiste avranno diritto di cittadinanza tra la “gente”.

La prima condizione non dipende dai rivoluzionari, la seconda sì, a patto che nuove energie, nuove intelligenze vadano a irrobustire l'esilissimo corpo delle attuali forze che puntano a costituire il partito internazionale che guidi quella trasformazione politica radicale, ma dall'anima sociale, di questo mondo.

CB

(1) Tanto per non dimenticare quale sia la vera natura della genìa politicante, la Lega Nord ha votato contro, mentre quando era al governo aveva votato a favore del percorso sfociato nel “Patto fiscale”. D’altra parte, qualche anno fa Maroni, allora ministro, non aveva escluso l’aumento dell’età pensionabile a 70 anni, per innalzare fieramente la bandiera della difesa popolare(?) una volta cacciati - i leghisti - a calci nel posteriore dal governo e tuonare contro l’ultima “riforma” delle pensioni, da loro avviata in precedenza, sia pure più con qualche esitazione per pure ragioni di convenienza elettorale.

Giovedì, August 30, 2012

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.