Ancora crisi in Egitto, ancora giochi di potere mentre le masse muoiono di fame e di miseria

La rivolta contro gli islamisti

Piazza Tahrir è riesplosa. Milioni di manifestanti hanno invaso le piazze delle principali città dell’Egitto. Il presidente Morsi è stato destituito, arrestato e sorvegliato negli “uffici” della Guardia repubblicana. Un presidente ad interim, Adli Mansour, ex presidente della Corte costituzionale, ne ha preso il posto, la costituzione è stata sospesa. In progetto c’era la nascita di un governo tecnico che rivedesse la costituzione e preparasse il terreno per le prossime elezioni da tenersi entro nove mesi, massimo un anno, mentre l’esercito continua ad essere il perno della vita pubblica egiziana. Lo è stato ai tempi di Mubarak, lo è stato sotto la breve gestione del governo Morsi, lo è tuttora in questa fase di delicata crisi per gli equilibri interni e internazionali. Non a caso il nuovo uomo forte è il generale, ministro della Difesa, Al Sisi, che domina la scena politica del dopo Morsi.

Perché tutto questo, perché ancora l’Egitto sulla coda della cosiddetta primavera araba? Innanzitutto va detto che la grave crisi economica che è stata alla base delle prime manifestazioni di piazza contro Mubarak, non solo non è stata risolta, ma si è pesantemente aggravata, colpendo quasi tutte le stratificazioni sociali. In due anni l’Egitto ha fatto dieci passi indietro da un punto di vista economico. In un paese dove la maggioranza della popolazione vive in condizioni di semi povertà, la disoccupazione reale è arrivata al 40% e la pauperizzazione sembra essere un processo inarrestabile, è normale che il fermento sociale covi sotto la cenere, pronto a incendiare le piazze alla prima occasione.

L’occasione è stata fornita dalla delusione nei confronti del Governo Morsi, del suo partito al potere e, più in generale, di quella Fratellanza musulmana che tanto aveva predicato in termini di democrazia e uguaglianza e che aveva stravinto le elezioni politiche di un anno fa. Morsi non solo ha disatteso le aspettative, ma, con la sua cricca fondamentalista, ha continuato la vecchia tradizione di potere dittatoriale basato sulla forza, sulla coercizione e sulla corruzione. Nulla era cambiato nei confronti del vecchio e tanto vituperato regime, se non l’aggravarsi della crisi economica e l’involucro religioso sempre più opprimente che confezionava il solito potere.

La combinazione di questi due fattori è stata alla base delle nuove manifestazioni di piazza contro il governi Morsi e di quelle a suo favore, anche se, va detto, di non minore intensità politica ma di contenuto numerico molto più contenuto, come gli avvenimenti di venerdì 5 luglio hanno dimostrato. Il che ha dato l’impressione agli osservatori politici interni che internazionali che, se qualche “demiurgo” non fosse intervenuto per tempo, la guerra civile sarebbe violentemente scoppiata, l’Egitto sarebbe entrato in una crisi politica grave e con lui l’intera regione, mettendo in discussione i già difficili equilibri tra mondo arabo e Israele, tra Unione europea e Stati Uniti, per non parlare del prezzo del greggio e il muoversi della speculazione internazionale sulla rendita petrolifera.

Il “demiurgo” non poteva che scendere in campo, per scongiurare la crisi, salvaguardare gli interessi economici del grande capitale e prendere in mano la situazione politica prima che la piazza portasse sino in fondo la sua confusa rabbia. Il “demiurgo esercito” ha fatto il suo dovere. Ha fatto cadere il Governo, ha arrestato Morsi, ha promesso entro nove mesi le prossime elezioni e nel frattempo ha assunto, nella figura del generale Al Sisi, il vero comando delle operazioni. Tutto come da programma sul piano della conservazione del sistema e dell’imbonimento delle masse, ma, al riguardo, ci sono alcune considerazioni da fare. La prima è che l’esercito si è ben guardato dall’intervenire nelle piazze con la forza quando le critiche colpivano Morsi e il suo Governo. Ha addirittura usato la carota, mentre il bastone lo ha estratto solo per dare un colpetto a Morsi, colpetto che è stato sufficiente a cancellare il vecchio governo senza che l’opinione pubblica interna e quella internazionale gridassero al “golpe”, anche se di questo si tratta. Il bastone lo ha riservato quindi ai sostenitori di Morsi, scesi in piazza per rivendicare la legittimità del loro leader. La seconda è che l’uso del guanto di velluto verso la piazza e il confezionamento molto soft del colpo di Stato, sono stati “consigliati” dall’Amministrazione Obama, che ha praticamente seguito via telefono le operazioni raccomandando il massimo della prudenza. Il ministro degli esteri americano è stato sempre in diretto contatto con Al Sisi prima e durante le operazioni del golpe militare. Non ingannino le successive dichiarazioni di Obama (“pretendiamo che la normalità democratica sia al più presto ripristinata”), perché rientrano nel solito gioco delle parti. Alla Casa Bianca il governo islamista di Mohammed Morsi non era mai piaciuto. Se lo è trovato tra i piedi e ha dovuto far buon viso a cattivo gioco, mostrando di stabilire una normale collaborazione che non pochi osservatori hanno scambiato per incondizionato appoggio . Il suo atteggiamento di favore e di aiuto a formazioni come gli Hezbollah libanesi e Hamas palestinese non rientravano certamente tra i programmi del Pentagono. Approvando nei fatti il golpe, i progetti americani tentavano di raggiungere un triplice scopo. Impedire che una nuova crisi stacchi l’Egitto dai piani americani interni all’area medio orientale, ovvero fare in modo che il rapporto con Israele non si modifichi, lasciando le cose come stanno. Riallacciare i fili che da sempre hanno legato i governi americani con l’esercito egiziano, l’unica struttura forte, in termini politici ed economici, con la quale ci si deve rapportare per qualsiasi soluzione interna. Usare l’arma del ricatto (un miliardo e trecento milioni di dollari che annualmente arrivano nella casse dell’esercito che è stato di Mubarak, di Tantawi e ora di Al Sisi) per condizionarne l’allineamento e le modalità operative. Che l'esercito e non i presidenti egiziani sia il punto focale dell'alleanza tra il Cairo e Washington è cosa ben nota ai consiglieri di Obama. Quando la piazza si è espressa contro Mubarak, l'esercito ha prima lasciato fare, quando si è accorto che le cose stavano andando male si è schierato con la folla e ha scaricato il “Faraone”, mettendo a capo provvisorio un suo rappresentante nella persona fisica di Tantawi, che ha condotto l'Egitto alle prime elezioni “democratiche”. Quando il governo islamista ha mostrato la corda, l'esercito ha appoggiato l'opposizione, quella stessa che in parte militava precedentemente nelle fila del partito dello stesso Mubarak. Via Morsi, il vero “dominus” dell'Egitto è ancora una volta un militare, il ministro della difesa Al Sisi. Quindi al governo Usa non interessa chi vada formalmente al potere, non ha grande importanza quali uomini politici siedano sulla sedia della più alta carica della Repubblica del Nilo, anche se qualche preferenza esiste, l'importante è che non si spezzi il rapporto con la struttura militare. D'altra parte, l'interesse è reciproco. L'imperialismo Usa non può fare a meno dell'allineamento dell'esercito egiziano, come quest'ultimo non può rinunciare ai finanziamenti americani se vuole continuare a giocare un ruolo di primo attore nella vita economica e politica dell'Egitto. All’interno di tutti questi aspetti c’è stata anche la pretesa di Obama di proporre Mohammed el Baradei - capo della opposizione laica e vice presidente di Mansour, sino alle sue dimissioni e alla conseguente fuga in Austria dopo l'accusa di tradimento - quale futuro candidato alla presidenza egiziana. Giochino che non gli era riuscito due anni prima, quando la situazione di piazza Tahrir gli era politicamente scappata di mano dando vita a quel Governo islamista che non poche preoccupazioni gli avrebbe dato, pur avendo esso dichiarato di non stracciare gli accordi con Israele e di continuare ad essere un fedele alleato degli Usa.

In conclusione, sino a quel momento, i milioni di disperati egiziani che sono scesi nelle piazze hanno consentito un gioco che è passato sopra le loro teste. Da un lato hanno fornito il pretesto all’esercito di riprendere il potere - con la destituzione di Morsi hanno avuto il contentino politico - ma hanno permesso all’imperialismo Usa di riguadagnare ruolo, immagine e consensi in un’area che sino a poco tempo fa lo avrebbe rigettato come un corpo estraneo.

Quello che lascia più sconcertati è che la piazza, all’annuncio della destituzione di Morsi e al colpo di stato dell’esercito, ha festeggiato come se quella fosse una sua vittoria e non la sua ennesima sconfitta. Il rischio è stato, anzi è stata una certezza annunciata che giù Mubarak su Tantawi, giù Tatawi su Morsi, su un governo laico, poi uno religioso, poi ancora uno laico, per il mondo del lavoro non ci sarebbe stato nessun cambiamento. Intanto la crisi del capitalismo resta, il capitalismo stesso non è messo in discussione. I lavoratori egiziani sono sempre più poveri e disoccupati e l’esercito rimane sempre al comando delle operazioni che, in questo caso, ha anche avuto una etero direzione che è sempre quella dell’imperialismo americano.

Il golpe militare e i suoi effetti

La manovra golpista dell’esercito ha scatenato l’inevitabile reazione del Partito Libertà e Giustizia di Morsi e di Al Noor suo alleato e rivale salafita. Le piazze si sono riempite di nuovo ma con il segno opposto. Non milioni ma soltanto decine di migliaia di islamisti hanno manifestato contro il nuovo regime accusandolo di aver sovvertito gli esiti delle prime elezioni libere, di aver interrotto il processo di democratizzazione iniziato con la “primavera egiziana” di piazza Tahrir e di aver restaurato il vecchio regime del “faraone” Mubarak. Il contro coro dei seguaci di Mansour ha respinto le accuse rovesciandone i contenuti. “Voi” siete stati i veri responsabili del fallimento del processo di democratizzazione di piazza Tahrir. “Voi” avete interposto, tra l’abbattimento del vecchio regime dittatoriale di Mubarak e il futuro democratico dell’Egitto, il vostro oscurantismo islamista. “Voi” avete provocato la nuova rivolta che ha ripreso l’obiettivo interrotto di portare sino in fondo il processo di democratizzazione. Nel frattempo l’esercito ha represso duramente le manifestazioni degli islamisti e ha arrestato i suoi leader più rappresentativi. Computo finale: 51 morti nella sola giornata di lunedì 9 luglio e migliaia di feriti. Tutto da copione per una guerra civile annunciata. Masse che scendono in piazza, che si agitano in favore della “loro” frangia di borghesia di riferimento e i vertici politici borghesi che amministrano le “loro” masse sul terreno elettorale e su quello dello scontro violento a seconda dei casi e della posta in palio. Sull’esercito e sul suo ruolo all’interno della società egiziana abbiamo già detto in precedenti articoli, vale però la pena di riaffermare alcune considerazioni di massima. Sin dai tempi di Mubarak, lui stesso proveniente dalle sue fila, l’esercito ha rappresentato non solo una struttura portante dell’impalcatura difensiva degli interessi capitalistici egiziani, come si conviene a qualsiasi esercito di questo mondo, ma, soprattutto, la spina dorsale della borghesia nazionale di cui fa parte. I generosi introiti “elargiti” dagli Usa, a partire dal 1978 dagli accordi di Camp David in avanti sino ai giorni nostri, hanno consentito alla Casta militare di diventare una struttura politicamente potente e, contemporaneamente, il cuore degli investimenti capitalistici nazionali. In pratica non c’è settore imprenditoriale, finanziario e commerciale che non veda la pesante presenza dei vertici militari. Gli investimenti vanno dal settore petrolifero al possesso di azioni della Compagnia che gestisce il canale di Suez. Dalla gestione delle attività legate al ricco settore del turismo agli investimenti speculativi sulle piazze borsistiche internazionali. Date queste condizioni, l’esercito non può che essere contemporaneamente arbitro e giocatore. Arbitro dei destini politici e giocatore all’interno delle fazioni del capitalismo nazionale. Ha fatto cadere Mubarak quando ha capito che non c’era più nulla da fare per la continuità politica del “faraone”, ha dato mandato a Mansour dopo essersi liberato dello scomodo governo islamista. E' dietro la nomina di Hazem Beblawi a capo del Governo, così come ha favorito la candidatura di Mohammed El Baradei a vice primo ministro. Il tutto ovviamente assecondando le necessità americane di leadership nell’area e di assicurazione che il flusso finanziario da Washington verso il Cairo continuasse, altrimenti l’esercito perderebbe il duplice ruolo di arbitro e giocatore per assumere quello di raccattapalle nei campi della periferia.

Anche in questo caso non inganni l’atteggiamento della diplomazia americana che, formalmente, dichiara di seguire con “preoccupata attenzione” le vicende egiziane, mentre nei fatti considera soddisfacente la soluzione Beblawi con El Baradei alla vice presidenza, finchè è rimasto, tanto da continuare a fornire sovvenzionamenti all’esercito oltre al portare a termine la programmata vendita di tre F 16. A scanso d’equivoci, la VI flotta americana ha inviato due navi da guerra a perlustrare la costa egiziana da Suez ad Alessandria per eventuali necessità riguardanti cittadini americani.

A completamento del quadro, gli storici alleati del Governo americano, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Kuwait, ovvero il fronte imperialistico petrolifero sunnita, è immediatamente andato in soccorso della boccheggiante economia del Cairo e del suo precario Governo transitorio. A fronte di un crollo verticale delle entrate da turismo, della netta diminuzione degli introiti del canale di Suez a causa del diminuito flusso dei commerci internazionali, di un calo del Pil in soli due anni di oltre il 60% (dal 7,2 al 2,2) e di una inflazione del 10%, gli alleati del Golfo hanno sborsato 15 miliardi di dollari. Mai carità è stata così pelosa. Chi ha sopportato maggiormente il peso dell’esborso, l’Arabia Saudita, ha fatto un investimento politico a lungo periodo. Il suo primo interesse è quello di impedire che i Fratelli musulmani possano riprendere il potere con il rischio, già paventato dagli Usa, di creare squilibri nell’area a vantaggio dello sciismo degli Hezbollah, di Hamas e, in generale, del jihadismo filo iraniano. Rischio che difficilmente Riad correrebbe ma non impossibile, per cui tanto vale cautelarsi. In seconda istanza i soldi, una volta arrivati a destinazione, lavorano automaticamente, nel senso di condizionare il nuovo Governo egiziano sino ad essere una sorta di paese politicamente dipendente dagli interessi del grande benefattore o, al minimo, un buon alleato su cui fondare delle buone aspettative. In terza battuta aiutare ad arginare le ondate di protesta in Egitto, fare in modo che la latente guerra civile ritorni all’interno degli argini istituzionali, è un obiettivo che interessa molto la borghesia dei Saud, come di tutti gli altri paesi del Golfo, che hanno visto nella “primavera araba” uno spettro da nascondere alle proprie masse, pena la concreta possibilità di contagio. Da ultimo, ma non per importanza, le laute regalie e aperture di credito hanno l’obiettivo di contribuire al mantenimento di una situazione di tranquillità nella zona, tranquillità che renderebbe più certa e affidabile la rendita petrolifera e, con essa, più forte il ruolo imperialistico di Riad, dei paesi del Golfo, in chiave anti-iraniana per la supremazia energetica di tutto il Golfo persico e dintorni. Il che, oltretutto, rinsalderebbe l’asse con Washington, che negli ultimi anni ha registrato qualche colpo a vuoto.

Le ragioni della caduta del governo Morsi

Le cause che hanno determinato la caduta del governo Morsi sono le stesse che hanno mandato a casa Mubarak con l’aggravante del tradimento delle aspettative. Mubarak è stato spazzato via dalla crisi che ha investito l'economia egiziana, Morsi è stato destituito con un colpo di Stato, dopo gigantesche manifestazioni popolari, perché non è riuscito a superare la crisi, a contenere la disoccupazione, a tamponare il morbo della corruzione, in sintesi perché non ha dato nessuna risposta alle aspettative che aveva creato prima e durante la campagna elettorale. Sotto il regime di Mubarak i Fratelli musulmani avevano costruito la loro immagine politica e creato consenso a loro favore, non solo riproponendo l'Islam quale unica via d'uscita dalla crisi e dalla crescente pauperizzazione, come qualsiasi altro fondamentalismo, ma erano riusciti a trasformare le moschee in luoghi di accoglienza per i poveri. Hanno proposto e praticato uno Stato sociale là dove lo Stato, quello vero, continuava a latitare sulle questioni sociali di tutti i giorni, dal pane alla distribuzione delle medicine, dall'assistenza agli anziani all'aiuto agli indigenti. Poca cosa, ma che sembrava enorme a confronto di quello che lo Stato non era più in grado di fare, e quello che faceva prima era già molto poco. Dopo la loro salita al potere le promesse, tutte, si sono sgonfiate. Tutto è rimasto come prima, unica novità è stata che la crisi ha continuato il suo corso aggravando le già precarie condizioni della popolazione. La promessa di controllare i prezzi attraverso politiche antiinflazionistiche è rimasta al palo. Nell'ultimo anno l'inflazione è notevolmente aumentata sino a superare il 10%. Lo stesso dicasi per la disoccupazione, mentre il potere d'acquisto dei salari ha continuato a scendere. Così come l'incapacità di rinegoziare un prestito di 3,8 miliardi di Euro con il Fondo monetario internazionale e l'impossibilità di passare ad un welfare di Stato degno, almeno, di superare quello familiare sin lì condotto dagli stessi Fratelli musulmani, che, se sotto Mubarak sembrava essere un segno contrario al regime e comunque positivo, sotto l'amministrazione di Morsi si è trasformato in un segno di incapacità e di debolezza. Da qui la ripresa delle manifestazioni sull'onda della disillusione e per questo l'intervento dei militari che non avevano nessuna intenzione di perdere quel ruolo egemone che sempre hanno avuto.

In più, i dati allarmanti che provengono dalla Banca Centrale dicono di una significativa contrazione delle riserve valutarie, che da 36 miliardi di dollari del 2010 sono passate agli attuali 13,5. La riduzione delle riserve mette a serio rischio l'amministrazione dell'intero paese in termini di stipendi ai dipendenti pubblici, di pagamenti dello Stato alle imprese private e, non da ultimo, la sostenibilità di un debito pubblico in continuo aumento e il pagamento degli interessi sui debiti contratti, come ad esempio con la Banca di Hong Kong, la Hsbc, che vanta un credito di 33 miliardi di dollari solo per gli interessi maturati al 2013.

Nel settore agricolo le cose vanno ancora peggio. Almeno un milione di contadini è sul lastrico. La produzione di grano, base ancora oggi dell'alimentazione delle classi più povere, è letteralmente crollata, dell'80%. L'aumento del costo del carburante ha costretto molti contadini, soprattutto nelle zone dell'alto Egitto, a non effettuare i raccolti e ad abbandonare le coltivazioni. Il Governo Morsi ha potuto andare avanti grazie ai prestiti del Qatar (sei miliardi di dollari) e a forniture di petrolio a prezzi agevolati, altrimenti la situazione sarebbe precipitata ben prima. Ad aggravare la situazione il Governo Morsi ha denunciato di essere costretto al taglio dei sussidi ai poveri per ottemperare alle richieste del Fondo monetario internazionale in cambio di prestiti miliardari. Anche la tanto sbandierata riforma sanitaria ha segnato il passo per continuare ad assumere le solite sembianze privatistiche degli istituti caritatevoli gestiti dalla stessa Fratellanza. Essa ha nutrito la speranza che questo portasse acqua al mulino islamista come negli anni dell'opposizione al regime del “faraone”, non accorgendosi che i tempi erano cambiati, che la crisi viaggiava a ritmi insostenibili e che, essendo al governo, non poteva più permettersi di fare della carità spicciola ma avrebbe dovuto fare quelle riforme che aveva promesso.

L'ultimo settore che ha contribuito ad allargare le maglie della crisi e a indebolire la figura di Morsi è quello del turismo. Le previsioni del Governo erano quelle di un ritorno ai numeri del periodo migliore per il turismo delle piramidi. Si favoleggiava di una presenza di 13 milioni di visitatori invece, in nemmeno un anno, il decremento è stato di quasi il 20%, con centinaia di migliaia di posti di lavoro perduti che sono andati a sommarsi con quelli dell'agricoltura, del commercio marittimo (canale di Suez e indotto), del tessile e del manifatturiero in generale. Le entrate finanziarie dello Stato sono paurosamente calate, si è passati dai 46 miliardi di dollari del 2010 ai 13 del 2013. Sempre nella crisi del turismo ha giocato un ruolo anche la decisione del Governo di stringere i lacci islamisti alla vendita di alcolici nelle zone a maggiore frequentazione turistica, così come la decisione del sindaco salafita di Luxor, che avrebbe imposto alle donne straniere il velo, non ha certamente dato una mano all'incremento del turismo e alla popolarità interna di Morsi. In conclusione, l'esperienza di questo Governo è stata fallimentare su tutti i fronti dell'economia e delle aspettative sociali. Non poteva essere altrimenti, ma per chi aveva votato i partiti islamici con un consenso quasi plebiscitario la delusione è stata pari all'entusiasmo delle aspettative, per cui anche un colpo di Stato militare è stato salutato come un evento positivo e solo una minoranza dei Fratelli musulmani ha gridato allo scandalo. A chiudere il cerchio sono arrivati i declassamenti di Fitch e Merrill Lynch. La prima ha assegnato all'Egitto una valutazione inferiore che lo ha portato dalla già bassa B a -B. La seconda ha dato un segnale d'allarme agli investitori stranieri perché fuggano dalla finanza del Cairo, mentre Moody’s e Standard&Poor’s si sono espresse in termini ancora più negativi, declassando l'economia egiziana e la sua instabilità politica ad una misera tripla C con un segno meno davanti.

Solo la Borsa del Cairo ha registrato qualche sussulto positivo, segno che la mala pianta della speculazione sta grattando il fondo più oscuro del barile mentre i risparmiatori fanno la fila davanti agli sportelli delle Banche prima che chiudano definitivamente i battenti.

Intanto le proteste continuano. Le due fazioni (pro e anti Morsi) si scontrano quotidianamente nelle piazze a suon di centinaia di feriti e qualche decina di morti. L'esercito prosegue nella sua opera di repressione nei confronti dei sostenitori di Morsi come da programma.

E' di un certo interesse apprendere che poche ore prima degli scontri del 23 luglio, Essam el-Erian, numero due del partito dei Fratelli Musulmani, aveva lanciato un'aperta accusa contro le pesanti ma reiterate interferenze americane nelle vicende politiche egiziane. L' accusa riguardava esplicitamente l'ambasciatore Usa di aver appoggiato la destituzione di Morsi e, conseguentemente, il colpo militare. L'incitamento dato agli aderenti del suo partito è stato quello di "assediare" l'ambasciata Usa e di espellere l'ambasciatore dal suolo egiziano. "Il ruolo americano nel colpo di stato è molto chiaro e nessuno può nasconderlo. Chiedo alle masse del popolo egiziano...di assediare le ambasciate finché non andranno via" ha dichiarato el-Erian, lo stesso eminente rappresentante politico dei Fratelli Musulmani, durante un incontro ufficiale con un centinaio di ex membri islamisti della Camera alta del Parlamento, prima che venisse sciolta. L'interesse sta nel fatto che, mentre le forze politiche e la stampa internazionale soffiano sulle vicende interne, il ruolo degli imperialismi esterni, Usa in primo piano, è lasciato in ombra come se fosse un fattore secondario, quando, invece, ne è un elemento quanto meno complementare. Sempre a proposito di stragi perpetrate dall'esercito contro i manifestanti pro Morsi, l'atteggiamento del presidente Obama è stato quello della massima estraneità, come se la cosa non riguardasse la politica estera americana. Il presidente Usa si è limitato a dire che le violenze devono cessare e che al più presto la realtà politica egiziana deve tornare alla normalità. Poco, troppo poco per chi è accusato dagli oppositori interni di collusione con il golpe militare, tanto poco che la stessa stampa americana si è espressa in termini di grande critica: "Se Obama non vuole un bagno di sangue e la nascita di una nuova autocrazia deve fare di più e subito", è la denuncia lanciata da un editoriale del Washington Post, che scarica sul presidente americano la responsabilità di non aver preso una posizione di condanna nei confronti dell’esercito. Anzi - scrive il Post - "gli Stati Uniti continuano a sostenerlo". La stessa mossa del Pentagono di ritardare la consegna all'Egitto di nuovi caccia F16 viene interpretata solo come il solito fumo negli occhi per rabbonire l'opinione pubblica. "I programmi di aiuto annuali – afferma la Washington Post - in realtà vanno infatti avanti grazie allo stratagemma legale adottato dal Dipartimento di Stato". Stratagemma che consente in modo fraudolento alla Casa Bianca di non prendere posizione sugli accadimenti egiziani dopo la defenestrazione di Morsi: la struttura giuridica di Foggy Bottom che guida la Casa Bianca, uno dei dei più efficienti studi legali di Washington D.C., ha consigliato il presidente di usare un atteggiamento di basso profilo perché all'Amministrazione Usa non può essere richiesto di dichiarare ufficialmente se in Egitto c'è stato o no un golpe. Come dire “per noi è come se non fosse successo niente e se qualcosa è successo non è di nostra competenza giudicarlo, per cui tutto come prima”. Così facendo, continuano ad esserci 1,3 miliardi di dollari a disposizione del generale Al -Sisi, ministro della difesa e uomo forte del regime, e la politica dell'Egitto continua a essere la stessa, in sintonia con gli interessi americani dell'area. Non è un caso, come sottolinea il New York Times, che il presidente Obama, a commento dell'arresto del primo presidente “democraticamente” eletto nella storia egiziana e della sospensione della Costituzione da parte dei vertici militari, non abbia mai usato l'unica espressione possibile, quella di “colpo di Stato militare”, limitandosi, come in precedenza, prosegue il N.Y. Times “ad invitare le forze armate a non cedere alla violenza e a lavorare per il ritorno di un governo democraticamente eletto”. L'imbarazzo c'è sia nei confronti dell'opinione pubblica interna sia di quella internazionale, ma le necessità dell'imperialismo sono inderogabili e non saranno certo un imbarazzo e una brutta figura alla sua immagine di presidente (peraltro non sarebbe la prima rispetto ai suoi programmi di riforme rimasti tutti sulla carta) a renderle impraticabili.

Due piazze, un esercito e la barbarie delle stragi

Mentre l'imperialismo americano si barcamenava in qualche modo nei confronti del regime dei militari, l'opposizione scendeva in piazza dando vita a una serie ininterrotta di manifestazioni di protesta. Gli orfani di Morsi chiedevano che il loro presidente venisse scarcerato, reinsediato alla presidenza dell'Egitto come avevano sancito le elezioni. Gridavano allo scandalo e si organizzavano per una mobilitazione di massa. Due le piazze scelte per segnare il territorio e per organizzare la resistenza:piazza al Nahda e piazza Rabaa. Così come gli anti Morsi avevano eletto Tahrir a simbolo della loro protesta. Mentre i dimostranti chiedevano fortemente il diritto di avere agibilità politica, il governo rispondeva che con i terroristi, con chi sosteneva Hamas e gli Hezbollah, con chi agiva violentemente contro le istituzioni e le stesse Forze armate non c'era possibilità di dialogo, per cui sgomberare le piazze, ritornare nei ranghi altrimenti l'esercito sarebbe intervenuto per difendere la “legalità”. I primi, i dimostranti, dimenticavano che i loro aneliti di democrazia non tenevano conto di come Morsi avesse stravolto con piccoli colpi di mano la vecchia costituzione rendendola sempre più vicina ai dettami della sharja che di uno stato borghese moderno. Di come il modello integralista della società progredisse di pari passo all'occupazione statale dei membri della Fratellanza musulmana, e di come le nostalgie politiche del Califfato non fossero nemmeno più nascoste. Il secondo, l'esercito, in nome di una improbabile difesa della legalità, la sua, scambiava il colpo di stato militare come l'unica strada da percorrere per la salvezza della società egiziana, minacciando con la clava chi la metteva a repentaglio. Entrambe le posizioni rappresentavano due aspetti della controversa borghesia egiziana. Da un lato quella più debole, fuori dai grandi giochi economici e finanziari, ma desiderosa di arrivarci al più presto combattendo sul fronte della media e piccola imprenditoria, tradizionalmente copta, per poi tentare di spiccare il grande salto nella gestione della “cosa pubblica”. Dall'altro la grande borghesia, interpretata dai quadri alti dell'esercito, che controllano circa il 40% dell'intera economia egiziana, che non molla di un centimetro. In mezzo, come al solito, proletari, sotto proletari e contadini che diventano carne da macello su di un fronte piuttosto che su quell'altro, privi di qualsiasi riferimento politico autonomo.

Dopo una serie di ultimatum, peraltro rimandati più volte nel tempo, mercoledì 14 agosto, è scattata violentemente la minacciata repressione. L'esercito è intervenuto nelle piazze di al Nahada e Rabaa con ferocia inaudita, ha ucciso complessivamente 800 manifestanti, arrestati a migliaia e sequestrato i principali leader dei Fratelli musulmani.

Il gravissimo episodio non poteva che mettere in fibrillazione l'opinione pubblica internazionale nonché le centrali dell'imperialismo che in Egitto hanno interessi diretti o di più ampio respiro nell'area del basso Mediterraneo. Gli Usa si sono trovati in un ulteriore imbarazzo. Le cronache di “palazzo” raccontano che alla casa Bianca erano al corrente delle mosse di Al Sisi, sapevano che prima o poi la repressione sarebbe scattata e per questo sia Obama che Kerry e il ministro della difesa Hagel facevano pressione perché l'uso della forza fosse il più soft possibile e che i “danni collaterali” non superassero la soglia della “normale” operazione di polizia. Questo non perché alla Casa Bianca aleggiasse un inusitato sentimento umano né, tanto meno, perché si volesse salvare Morsi, bensì per non mettere in ulteriore difficoltà l'Amministrazione Obama di fronte alle nefandezze repressive del regime militare del Cairo. Non a caso il presidente americano è stato costretto a dare il via a una serie di dichiarazioni dall'alto tasso di fumosità tossica. Ha deprecato l'eccessivo uso della forza, ha rilanciato il solito appello al ripristino della legalità e, come massima punizione, ha pensato di rivedere alcuni aspetti dell'alleanza con l'Egitto e di cancellare le esercitazioni navali comuni previste per settembre. Non una parola però sul colpo di stato del 3 luglio, silenzio totale sulla natura del governo di Mansour e del suo braccio armato Al Sisi.

Solo a due mesi di distanza, il presidente Usa si è visto costretto ad inscenare una pantomima punitiva nei confronti del governo egiziano, il 9 ottobre, quando Al Sisi ha dichiarato di voler condannare Morsi reo di aver ordinato l’uccisione di decine di manifestanti, dopo che lui stesso ne aveva trucidati più di ottocento nelle piazze del Cairo. Le sanzioni minacciate riguardano la sospensione di 260 milioni di fondi e di un ulteriore prestito programmato per altri 300 milioni. Inoltre, verranno ritardate le consegne di carri armati M1-Abrahams, aerei F-16, missili Harpoon ed elicotteri Apache. Jen Psaki, uomo del Dipartimento di Stato, ha ufficialmente dichiarato che verranno ritardate le consegne di attrezzature militari fino a che non si manifesteranno «credibili progressi» verso un governo di unità nazionale e indette libere elezioni.

Nel comunicato si precisa che restano confermati invece i fondi per la lotta al terrorismo, per la sicurezza dei confini nazionali ed in particolare della penisola del Sinai, territorio strategico per la vicinanza con Israele a la Striscia di Gaza e, ultimamente, teatro di attacchi all’esercito egiziano da parte di formazioni jihadiste. Per cui il Pentagono si appresta a sospendere non l'intera assistenza militare al tradizionale alleato regionale, ma solo una piccola parte, circa un terzo e, in nessun caso, sarà toccato il sostegno Usa nel settore dell'anti-terrorismo, in particolar modo per ciò che riguarda il contrasto alle formazioni jihadiste operanti nella penisola del Sinai.

Costretto dagli avvenimenti, e ben dopo le stragi del 14 agosto al Cairo, il governo americano si è visto costretto a prendere delle misure “punitive” che si sarebbe ben volentieri risparmiato se non fosse stato pressato dalla esecrazione da parte della sua opinione pubblica e dallo sconcerto internazionale. Nonostante ciò Obama si è ben guardato dal cancellare gli aiuti militari limitandosi a sospendere l’erogazioni di una piccola parte di essi. Non ha cessato di inviare carri armati e aerei da combattimento ma ha minacciato di ritardarne le consegne a “tempi migliori” e, soprattutto, si è impegnato a non far venir meno quelle forniture strategiche per la sicurezza del paese alleato contro i comuni nemici jihadisti nella solita ottica di difesa imperialistica contro l’asse russo iraniano e le interferenze cinesi nel continente africano. In altri termini Obama è stato costretto a tirare la corda senza però correre il rischio di spezzarla, altrimenti correrebbe il rischio non solo di perdere il suo alleato chiave ma di aprire le porte alla penetrazione della concorrenza imperialistica. Cina e Russia infatti, immediatamente dopo le misure americane hanno fatto sapere al governo egiziano di essere pronti a sostenere il peso economico della sua stabilizzazione politica e finanziaria e, perché no, di essere disponibili a forniture militari di ogni tipo.

Nel frattempo, quello americano non è stato l'unico imperialismo che si è messo in moto prima e dopo la strage. L'Arabia saudita, il Quwait e buona parte degli Emirati arabi Uniti si sono schierati a fianco di Al Sisi definendolo il difensore dell'integrità politica dell'Egitto dagli attacchi dei terroristi islamisti. Il Qatar e la Turchia, invece, hanno preso le difese di Morsi in quanto presidente democraticamente eletto e vittima dell'arroganza dell'esercito egiziano. La scelta del fronte, ovviamente, è il frutto di interessi e ambizioni imperialistici di area che dai tragici avvenimenti del Cairo hanno ricevuto una poderosa spinta. La Turchia di Erdogan ha ritenuto che le affinità religiose con il governo Morsi potessero costruire i termini generali di una salda alleanza politica, che favorisse il progetto di Ankara di consolidare il suo ruolo di hub petrolifero nel Mediterraneo e di collegamento energetico tra l'Europa e l'Asia, cosa che, con un governo militare ripiegato sui suoi interessi nazionali e sotto il costante ricatto economico americano, sarebbe stato più difficile dati gli ultimi problemi con lo stato d'Israele, anche se non impossibile, in quanto la diplomazia sotterranea degli Usa ha come obiettivo proprio quello di ricomporre i vertici del vecchio triangolo militare e politico costituito da Egitto, Israele e dalla stessa Turchia.

Il Qatar non si è risparmiato. Con la sua rete televisiva al Jazeera ha inondato il mondo arabo, e non solo, di una costante propaganda a favore di Morsi, già abbondantemente foraggiato in termini finanziari, e con il quale il ricco emirato aveva prospettato inusitati affari di tipo turistico-commerciale. Il Qatar si era già esposto (gennaio 2013) con un credito di 2,5 miliardi di dollari a favore del governo di Mansour identificando nel regime militare l'involucro ideale nel quale inserire i propri investimenti finanziari. A questo credito sarebbe dovuto seguirne un altro della stessa entità, ma l'aspetto più rilevante era che il piccolo paese del Golfo dalla grande rendita petrolifera aveva già intavolato la possibilità di realizzare un business con il governo Morsi, per la cifra faraonica di 200 miliardi di dollari, in base al quale il Qatar si sarebbe assicurato per 5 anni la gestione economica dei più importanti siti archeologici egiziani tra cui, ovviamente, le piramidi, Luxor, la Valle dei Re e delle Regine.

Ben più complesso è l'atteggiamento dell'Arabia Saudita. Secondo le notizie fornite dall'Agenzia saudita SPA il re Abdallah ha deciso di inviare al nuovo regime sostenuto dai militari un bonifico senza interessi alla Banca centrale egiziana per due miliardi di dollari, una regalia di un miliardo di dollari più due miliardi di dollari sotto forma di forniture di beni petroliferi e gas. In una recente dichiarazione, appena dopo la presa del potere da parte dell'esercito, il ministro delle Finanze saudita, Ibrahim al Asaf, ha dichiarato all’agenzia Spa che la decisione di aiutare l’Egitto è stata presa dal re Abdallah per sostenere economicamente l'Egitto in un momento di particolare debolezza politica oltre che economica. D'altra parte l’Arabia Saudita non ha mai fatto mistero della propria soddisfazione per la caduta di Morsi. Lo stesso re Abdallah è stato tra i primi capi di Stato a congratularsi con il neo presidente Adli Mansour poche ore dopo il colpo di Stato. Tanto disprezzo per Morsi e tanto amore per il regime dei militari è spiegato dal ruolo egemone che l'Arabia saudita intende svolgere tra i paesi del Golfo e nel Medio oriente, nonché sull'Egitto che da sempre ha avuto un ruolo determinante nelle vicende dell'area. L'imperialismo di Riad si è sempre mosso in favore dei gruppi estremisti, integralisti e jihadisti quali pedine atte al rafforzamento della propria influenza finanziaria esportata sotto le mentite spogli di una guerra confessionale all'interno del mondo islamico. Dopo la caduta di Mubarak, fidato alleato e per questo aiutato finanziariamente, il re saudita ha sponsorizzato i salafiti di al Noor contro i Fratelli musulmani di Morsi rei di aver boicottato la candidatura del salafita Hazem Salah abu Ismail a tutto vantaggio loro nello scontro elettorale di un anno fa. Una volta che Morsi è salito al potere, i rapporti si sono complicati. La sua politica di favore nei confronti degli Ezbollah libanesi e di Hamas in Palestina ha reso il regime saudita ulteriormente sospettoso. Il timore era che l'Egitto scivolasse progressivamente verso l'asse sciita Siria-Iraq-Iran andando a modificare gli equilibri petroliferi sin lì raggiunti dal primo paese produttore al mondo. In seconda battuta, l'aristocrazia petrolifera saudita aveva il timore che, dopo la caduta di Ali in Tunisia, la “rivoluzione democratica” dei Fratelli musulmani potesse essere un esempio da esportare anche in Arabia e nei paesi del Golfo. Per cui l'allontanamento, anche violento di Morsi e della sua esperienza politica, non poteva che essere salutata con favore dal wahabbismo saudita. Molto meglio un regime militare e sanguinario che un potenziale nemico politico in grado di mettere in discussione l'egemonia petrolifera dell'Arabia, con alleanze pericolose. In questo senso vanno lette le dichiarazioni del principe Saud al Feisal che ripropone l'asse politico Usa-Egitto- Arabia saudita come l'unico in grado di opporsi nel Mediterraneo e nel Golfo all'asse Russia-Iran-Siria.

Crisi, caos, repressione e il proleteriato che fa?

Una grossa porzione dei 25 milioni di proletari egiziani ha preso parte alle manifestazioni che hanno deposto Mubarak prima, Morsi poi. Prima e durante le manifestazioni si sono avuti significativi episodi di mobilitazione sul terreno rivendicativo contro il carovita, contro l'inflazione, contro la disoccupazione avanzante e contro quel processo di impoverimento che ormai durava da anni e che sotto il peso dell'attuale crisi si stava facendo insopportabile. La mobilitazione ha visto presente il proletariato di Suez, Ismailia e Porto Said, per quanto riguarda le attività economiche relative alla gestione del Canale di Suez. Ci sono stati gli episodi, anche recentemente contro il governo Morsi, dei lavoratori tessili di Mahalla e manifestazioni contadine in tutto il Delta per mancanza di lavoro e di salari e per l'alto costo dei beni alimentari. Sul terreno politico, invece, si è avuto ben poco in termini di lotta di classe perché rinchiusa nei termini imposti dai vecchi e nuovi sindacati e, per quanto riguarda il livello politico, le masse salariate si sono fatte attrarre dalle fazioni borghesi che sono state, e continuano ad essere, le vere interpreti della vicenda sociale egiziana. Al riguardo due esempi e un rammarico.

Il primo riguarda il ruolo negativo del sindacalismo vecchio e nuovo, quello compromesso con qualsiasi forma di potere che (non) agisce all'interno delle compatibilità dettate dalla crisi, e quello radicale che pensa di agire su di un impossibile terreno di neo riformismo.

Dopo la caduta di Mubarak e il collasso dei vecchi sindacati di regime (La Federazione sindacale Egiziana) nasce un nuovo sindacato (La Federazione Egiziana dei Sindacati Indipendenti) con apparenti ambizioni di maggiore autonomia e determinazione nella conduzione delle lotte. Nei fatti, il nuovo sindacato si è comportato come i precedenti, più attento alle necessità del capitalismo egiziano che alle condizioni di vita e di sfruttamento del proletariato, al punto che, all'atto della costituzione del governo Morsi, uno dei leader fondatori ha pensato bene di candidarsi ad un Ministero, quello del Lavoro, riuscendo nel suo tentativo di scalata alle istituzioni islamiste. Voci insistenti riferiscono che il nuovo sindacato FESI, composto da elementi provenienti dall'esperienza del vecchio Sindacato di regime, sia addirittura nato sotto l'influenza della Cia per tentare di condizionare il comportamento delle masse all'epoca dei primi movimenti anti Mubarak. Anche in considerazione di questo fallimento si sono espressi una serie di sindacatini (molto simili a quelli espressi dall'esperienza italiana), tanto radicali a parole quanto impotenti sul terreno pratico,con poco seguito e con nessuna possibilità di contare qualcosa sul terreno contrattuale. La conclusione è stata la polverizzazione delle lotte proletarie in mille rivoli, slogan senza alcun possibile punto d'arrivo, illusioni bruciate nello spazio di una manifestazione e tanta, tanta disillusione. Gli scioperi sono stati organizzati prevalentemente al di fuori dei Sindacati, la sfiducia l'ha fatta da padrone sia nei confronti del neo sindacalismo, sia nei confronti delle forze politiche tradizionali.

Il secondo esempio riguarda l'aspetto politico della lotta dei lavoratori egiziani. Nonostante la crescente sfiducia nei confronti dei Sindacati vecchi e nuovi e nei confronti delle tradizionali forze politiche, l'atteggiamento del proletariato si è speso o per una richiesta rivendicativa (salario minimo garantito, lotta alla disoccupazione) senza mai uscire da questo terreno, o si è mosso su quello “politico” fungendo però da massa di manovra di una delle due grandi fazioni borghesi che si combattono nelle piazze del Cairo e di Alessandria, senza avere nessuna autonomia critica nei confronti di ciò che accade e del perché accade con tanta violenza. Durante i primi sommovimenti che hanno portato alla caduta del “Faraone”, una parte del proletariato ha rappresentato la testa d'ariete contro il vecchio regime per ritrovarsi un governo islamista, quello di Morsi, sostenuto dall'ala integralista e fascista dei salafiti di al Noor. Caduto anche questo governo, non solo perché simile a quello precedente, ma perché non più confacente agli interessi imperialistici delle potenze del Golfo e degli stessi Usa, il proletariato si è ritrovato un nuovo regime militare simile negli uomini e negli atteggiamenti repressivi a quello di Mubarak, se non peggio, con l'aggravante che il proletariato stesso si è spaccato in due, fungendo da sponda agli interessi delle fazioni borghesi interne e alle ambizioni degli imperialismi internazionali.

Il rammarico è la conseguenza dei due esempi di lotta destinati alla sconfitta sia sul terreno rivendicativo che su quello politico. E' la mancanza di un partito di classe, di una avanguardia rivoluzionaria che possa iniziare a porre le questioni fuori e contro le leggi economiche e le logiche del capitalismo. Senza una avanguardia politica di classe, senza una tattica e una strategia rivoluzionaria che elevi le lotte rivendicative a lotte politiche contro il capitale. Senza una avanguardia che distingua gli interessi della classe da quelli della borghesia, che anteponga le logiche della necessità di un rinascente internazionalismo proletario a quelle dei nazionalismi borghesi di ogni colore politico o confessionale e alla ferocia degli imperialismi resi ancora più famelici dalle ferite della crisi internazionale, la lotta di classe sarà sempre al palo. In alternativa si rimane seduti al tavolo truccato delle tre tavolette della borghesia nazionale che fa sparire ed apparire i personaggi politici come se fossero delle carte da gioco. Giù Mubarak su Morsi, dentro Morsi fuori Mubarak, mentre el Baradei dimissionario, e per questo incriminato di tradimento, fuggiva a Vienna lasciando orfani gli Usa di una loro pedina, a meno che la mossa non fosse già stata pensata per salvare e rilanciare una opzione per un futuro più o meno imminente.

FD, agosto 2013

Ultimo aggiornamento: 2013-10-13

Lunedì, August 26, 2013

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.