Fatti e misfatti del sindacalismo “di base”

Sono ormai trent'anni che il sindacalismo “alternativo” è apparso sulla scena politico-sindacale e in questo arco di tempo, confermando le previsioni, ha progressivamente perso anche quegli aspetti formali per i quali pretendeva di passare come organismo di lotta economica vero, refrattario ai rituali istituzionali praticati dal sindacalismo maggioritario, rigorosamente giocati contro gli interessi del lavoro subordinato.

Il malumore serpeggiante in diversi settori dei servizi, il residuo di lotte massicce, all'origine in rottura coi sindacati confederali – Cobas della scuola – sono stati captati da un personale politico rimasto orfano dei “gruppi extraparlamentari” degli anni Settanta, che ha avuto modo di riciclarsi e riciclare la paccottiglia ideologica di cui era portatore: dallo stalinismo variamente declinato al riformismo borghese classico. Basta con la “Grande Utopia”, quella del comunismo qui e ora o, meglio, avviciniamoci pure a essa, ma per la strada della concretezza, del passo dopo passo, delle cose che interessano davvero alla gente, dunque, per quella di un sindacato veramente tale, di base, appunto.

Al di là delle buone intenzioni personali, il “nuovo” ceto politico-sindacale, rimasto rigorosamente attaccato a schemi teorici ampiamente superati e, per di più, distorti dallo stalinismo, non è in grado di capire le conseguenze sulla lotta di classe prodotte dalle trasformazioni del capitalismo. Anche per questo, più l'impraticabilità di un sindacalismo diverso emerge in maniera lampante, sottolineata da una delle peggiori crisi della storia del capitalismo, più i sindacati “di base” alzano la voce e allungano la lista del loro menù; allo stesso tempo, diventano più realisti del re nell'inchinarsi ossequiosi alla regolamentazione antisciopero. Se prima proclamavano gli scioperi un mese prima, adesso sono arrivati a indire la “scadenza di lotta” con un anticipo di novanta giorni, programmando un'astensione dal lavoro come si programma una vacanza (per chi se la può permettere).

Si scade persino nella banalità, nell'osservare che l'efficacia di uno sciopero si misura anche dai tempi della sua indizione: più questi sono stretti, maggiore è lo scompiglio che si crea al padrone, (privato e pubblico); ma una considerazione così elementare non ha cittadinanza nel “sindacato conflittuale”. E' il caso dello sciopero proclamato dall'USB e da altre sigle sindacali simili, i cui obiettivi, pur rimanendo dentro l'ottica borghese del lavoro salariato, sono talmente ambiziosi che, come minimo, avrebbero bisogno, per essere raggiunti, di una dittatura giacobina, più che di una semplice vertenza sindacale. Nei contenuti sui quali i lavoratori sono chiamati a scioperare, si dà fondo alla mitologia del riformismo vecchio e nuovo: dall'intervento statale per rilanciare sviluppo e occupazione alle nazionalizzazioni, dal sostegno a un'agricoltura diversa all'aumento dei salari, dall'abbassamento dell'età pensionabile (ma perché non l'abolizione delle riforme del sistema pensionistico?) fino al reddito di cittadinanza; il tutto condito con una maggiore democrazia nei luoghi di lavoro.

Si dovrebbe ottenere questo po' po' di roba seguendo un normale percorso sindacale, nel bel mezzo di una crisi che non solo ha praticamente cancellato ogni margine di riformismo “operaio”, ma impone al capitale un riformismo al contrario, un'aggressione continua al lavoro dipendente per riprendersi con interessi da usura ciò che negli anni di crescita economica post-bellica aveva potuto concedere – non senza conflitti, sia chiaro – anche e non da ultimo ai fini di una maggiore integrazione della classe operaia (intesa in senso lato) nei meccanismi del capitalismo. In breve, un aumento del salario, compatibile con la fase storica, il salario indiretto e differito (lo stato sociale), mentre consentivano un allargamento del mercato, hanno inumidito le polveri della lotta di classe, ammortizzando le asprezze dell'oppressione capitalistica. Non era l'interventismo statale a determinare la crescita economica, ma l'abbondanza di plusvalore estorto nel ciclo produttivo a permettere allo stato di prelevarne una parte per destinarla al sostegno complessivo dell'economia (“reale” e non puramente predatorio-parassitaria).

Se fosse vero che la via d'uscita dalla crisi consisterebbe nell'aumento generalizzato dei salari e nella ridistribuzione del reddito (il reddito sociale o di cittadinanza o comunque lo si voglia chiamare) per far ripartire i consumi, non si capisce perché, invece, la borghesia del mondo intero segua una via esattamente opposta. Forse la natura anarchica del capitale, forse la natura di classe della società borghese hanno la meglio su qualunque astratta razionalità piccolo-borghese: il Berlusca vivrebbe discretamente anche se un'imposta patrimoniale gli lasciasse “solo” mezzo miliardo di euro, dei quattro miliardi e mezzo di patrimonio stimati, ma vallo a convincere che sarebbe per il bene del sistema nel suo insieme...

Naturalmente, la critica politica alla teoria e alla prassi del sindacalismo “alternativo” non riguarda in alcun modo la disponibilità alla lotta, la determinazione e i sacrifici di quei settori del lavoro salariato/dipendente che seguono questo o quel sindacatino. Valga per tutti l'esempio dei facchini della logistica, protagonisti dei rari episodi di lotta di classe per ceri aspetti da manuale, apparsi in questi tempi di calma quasi piatta: scioperi senza preavviso, senza limiti di tempo, picchettaggi, scontri con le forze dell'ordine borghese a cui sono seguiti denunce e licenziamenti.

Come tutti sanno, a dirigere quelle lotte è stato il SiCobas, che, a differenza dei “cugini”, dice di porsi su di un terreno esplicitamente di classe e, meno esplicitamente, sembra ambire al ruolo di calamita per individui e gruppi che si richiamano all'anticapitalismo. Ebbene, l'accordo sottoscritto nel luglio scorso alla Granarolo (Bologna) conferma, una volta di più, che o il sindacato accetta le regole del gioco capitalistico oppure è destinato a sparire in quanto organizzazione “antagonista”. Alla Granarolo, infatti, si lottava per reintegrare quarantuno operai licenziati per rappresaglia, che seguivano così i sedici della cooperativa Adriatica (Anzola, Bologna), colpiti anch'essi perché avanguardie “di fabbrica” nello scontro con la Coop e con le cooperative appaltatrici della logistica, nelle quali, è noto, lo sfruttamento e la dittatura padronale non hanno limiti.

Per andare al dunque, dei quarantuno facchini ventitré sono stati riammessi, ma dispersi in siti diversi, gli altri diciotto collocati in cassa integrazione fino al 30 settembre, quando la loro posizione sarà riesaminata, in vista – si dice – di una riassunzione. Nel frattempo, il SiCobas intraprende un'azione legale per ottenere 20.000 euro di salario pregresso a testa, non versato arbitrariamente dall'azienda. Ora, a dispetto di chi canta le lodi di quell'accordo, è evidente che si tratta di una sconfitta, prima di tutto di quella coscienza e unità di classe che il SiCobas mette come stella polare del proprio agire. A parte che i padroni, senza il pungolo della lotta di classe, sono pronti a rimangiarsi quanto sottoscritto un secondo prima, avendo ben poca paura delle minacce di azione legale (i loro mezzi, anche da questo punto di vista, sono incomparabilmente più potenti di quelli in dotazione a qualunque sindacato “cattivo”, per non dire degli operai), l'aver accettato di rompere la solidarietà tra i lavoratori licenziati pone il SiCobas al livello di qualunque sindacato sempre pronto a far passare accordi indecenti come una mezza vittoria, il meno peggio conseguibile in una situazione difficile...

E' la musica stonata suonata un milione di volte dagli imbonitori di CGIL-CISL-UIL e il giustificarsi dicendo che l'accordo è stato approvato dai lavoratori (su sollecitazione del sindacatino medesimo) non attenua la gravità dell'atto, se mai lo aggrava. Che operai sfiancati da un conflitto lungo, duro, durante il quale hanno dato tanto, anzi, tantissimo, siano stati tentati e poi indotti a prendere quello che viene (quello che il padrone è disposto a concedere), a costo di sacrificare una parte dei compagni di lavoro, rientra, purtroppo, nella logica delle cose. Non rientra o non dovrebbe rientrare nella logica di un organismo classista, quale vuole essere il SiCobas, un accordo che invece di contribuire allo sviluppo della coscienza di classe – di cui l'unità degli sfruttati è elemento irrinunciabile – va in direzione opposta, sancendo, di fatto, il “si salvi chi può”. Ammessa – e non concessa – la possibilità dell'esistenza di un sindacato “rosso”, suo primo dovere sarebbe quello di non superare certi limiti oltre i quali si accetta oggettivamente la logica delle compatibilità borghesi antioperaie come campo d'azione.. Peggio ancora se si giustifica il tutto come passo spiacevole ma necessario alla propria esistenza. E' lo stesso Milani, capo del SiCobas, ad affermarlo chiaramente:

Abbiamo firmato perché costretti […] la nostra cassa di resistenza non può affrontare una lotta del genere […] se avessimo perso la vertenza anche alla Granarolo avremmo arrestato la nostra esperienza come sindacato.

dal sito SiCobas

In poche parole, Milani ha riassunto la traiettoria storica del sindacato. Nato dagli operai per difendersi dallo sfruttamento quotidiano, per vendere alle migliori condizioni possibili la propria forza lavoro, da elemento di disturbo dell'ingranaggio capitalistico ne è diventato parte integrante, si è autonomizzato da chi lo ha generato, la classe operaia, trasformandosi nel gestore di quest'ultima dentro le compatibilità del capitale; da mezzo, si è trasformato in fine, per adattarsi all'«ecosistema» capitalistico, suo ambiente naturale. Mentre il partito rivoluzionario ha come obiettivo la demolizione e l'archiviazione definitive della società borghese, il sindacato ha la sua ragion d'essere nel capitalismo medesimo: altrimenti, con chi e che cosa contratterebbe? Come disse una volta con franchezza un pezzo grosso del sindacalismo nordamericano,

Il capitalismo non è meno necessario al sindacalismo dell'acqua ai pesci.

CB
Giovedì, October 3, 2013