La lotta dei lavoratori AMT di Genova

La scintilla dell'Italia siamo noi.

Lavoratori AMT in corteo

Non dobbiamo cambiare il mondo, dobbiamo pensare ai nostri problemi.

Sindacalista FALSA-CISAL

Apriamo questo commento sulla recente mobilitazione dei lavoratori AMT di Genova con queste due espressioni che meglio di ogni altra cosa sintetizzano le anime, le spinte e il ruolo delle diverse forze in campo. Da un lato la spontaneità della mobilitazione che ha rotto gli argini legalmente costituiti per opporsi ai piani di ristrutturazione aziendale e del comune di Genova. Dall'altro il ruolo del sindacato che, pur sul terreno preso dalle lotte, ha giocato la propria partita per il recupero e la gestione delle stesse, funzionale a reincanalarle dentro gli ambiti della mediazione politico-istituzionale.

Gli eventi hanno chiarito come fra questi due intendimenti - il primo istintivo spontaneo, almeno nelle prime fasi, il secondo organizzato e ancora con una forte presa e presenza fra le fila dei lavoratori stessi - chi avesse la meglio. Il terreno di scontro, gli strumenti politici, la forza di organizzazione delle forze avversarie hanno sicuramente giocato a sfavore dei lavoratori, la potenzialità di classe è rimasta imbrigliata nei suoi stessi limiti e nella rete dei suoi avversari, segnando una secca sconfitta almeno nell'immediato.

I 5 giorni di lotta dei lavoratori AMT non nascono dal nulla, ma sono il prodotto di un processo conflittuale che ha scandito la loro realtà, l'intero settore del trasporto pubblico locale (TPL) e delle municipalizzate in genere negli ultimi 20 anni, di fronte ai processi di ristrutturazione che li hanno visti coinvolti . Processi di ristrutturazione che hanno la loro radice nella crisi capitalistica e nelle relative misure di austerity e di tagli progressivi che hanno investito tutto il settore.

Il patto di stabilità interno, con i criteri di erogazione dei fondi e gestione della spesa rigidamente centralizzati al governo nazionale centrale, riflesso interno dei vincoli economico-finanziari europei, se da un lato ha aperto la strada alla progressiva riduzione dei trasferimenti dal centro agli enti locali, ha via via permesso lo svilupparsi di nuovi terreni di profitto per il capitale privato.

Questo processo, al di là della falsa dicotomia pubblico/privato, visto il primo come vittima e il secondo come squalo, ha in realtà portato ad una sinergia di linee di indirizzo e sviluppo combinato per dare materialità a quei processi di massima razionalizzazione dei servizi erogati, indirizzando risorse verso quelli ritenuti più profittevoli e tagliando sugli altri, puntando ad un abbassamento drastico dei costi di gestione, sia riferiti alla qualità dei servizi erogati che ai termini normativi e salariali della forza lavoro impiegata.

Nei TPL questo processo si è manifestato, pur con caratteristiche di fondo similari, in forme specifiche attinenti alle diverse realtà comunali. A Napoli, pur rimanendo il TPL ufficialmente pubblico, sono state abolite decine di corse e tagliati altrettanti chilometri di percorrenza. A Roma le linee periferiche sono state tolte all'ATAC per essere date in gestione alla TPL SCARL, società a capitale privato che ovviamente campa con i trasferimenti pubblici. Solo nell'arco del 2013 numerose sono state le fermate di questi lavoratori per i ritardi sul pagamento degli stipendi. A Firenze la tanto decantata privatizzazione dell'ATAF, ceduto alla BUS ITALIA (una controllata delle Ferrovie dello Stato) aveva visto fra il 2011 e il 2012 ben 9 scioperi dei lavoratori. Ora, non solo la società ha subito un processo di balcanizzazione aziendale, essendo stata spacchettata in 3 aziende, ma ultimamente i lavoratori si sono visti disdire il contratto integrativo con una perdita secca in busta paga fra i 200-300 euro.

Più in generale, il governo centrale ritiene che ben il 40% delle TPL siano “aziende morte” (testuale) e che ci sia bisogno di una profonda “riforma complessiva” dell'intero settore, il che è tutto dire, visti gli indirizzi perseguiti fin qui.

A Genova, i lavoratori dell'AMT già in passato, nel 2005, avevano assaggiato cosa volesse dire la sinergia di intenti fra pubblico e privato nella loro azienda.

In quell'anno il 41% di AMT passa nelle mani della TRANSVED (azienda pubblica di trasporti francese) e la prima dichiarazione del socio transalpino in consiglio di amministrazione non lascia dubbi: “Noi siamo qui per guadagnare non per perdere quattrini”. Il risultato negli anni fu la riduzione delle linee, l'aumento del biglietto, la riduzione del personale, insomma il solito copione.

Spremuto l'osso, la TRANSVED si ritira, riprendendosi le quote investite e lasciando l' AMT con un debito più che raddoppiato. Ovviamente i costi sociali e per i lavoratori erano stati altissimi ma, come si dice, indietro non si torna…

Tutta la gestione successiva, nell'intento ufficiale di “ salvare l'azienda”, ha di fatto proseguito nel medesimo percorso di progressivo ridimensionamento dell'AMT, con l'avallo pieno del sindacato autonomo CISAL (maggioritario) e dei confederali. Solo nell'ultimo anno, ci sono stati giorni di ferie tagliati, aumenti giornalieri dei tempi di guida, premi di produzione non corrisposti, ecc. ecc.

In questo quadro la delibera comunale incriminata non è stato altro che la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso oramai stracolmo:

  1. l'irruzione e l'occupazione della sala consiliare del comune;
  2. la proclamazione e l'attuazione dello sciopero ad oltranza in barba alla legge 146;
  3. cortei e manifestazioni;
  4. assemblee.

Queste sono state le diverse forme di lotta che i lavoratori hanno messo in piedi. Sopratutto i 5 giorni di blocco totale hanno costituito un momento di rottura ed esempio per la categoria ed oltre.

Proprio per questo motivo, per le possibili implicazioni sulla tenuta complessiva degli argini della lotta - verso una sua possibile generalizzazione, non solo di categoria, e radicalizzazione effettiva - il sindacato si è posto alla guida di questo processo su un terreno stabilito inizialmente dalla lotta stessa. La fretta con cui si sono consumati in seguito una serie di passaggi rispecchia l'indice delle preoccupazioni, extravertenziali…, dei vari attori politici in gioco. La firma dell'accordo ha rappresentato la classica politica del “ fatto compiuto”, dove il sindacato al tavolo negoziale ha ritrovato la sua funzione reale di organo borghese, nella veste di rappresentante “formale” dei lavoratori in lotta, di fatto sottraendo agli stessi anche la più piccola possibilità di avere voce in capitolo.

Ovviamente questa duplice funzione, una sostanziale e una formale, lo ha messo nella condizione di dover gestire in maniera spregiudicata la stessa ratifica dell'accordo; tenendo in conto il prezzo da pagare nell'immediato: doveva fare il lavoro sporco e lo ha fatto.

L'incapacità di comprendere la necessità di far saltare il tavolo negoziale ha di fatto condannato la lotta alla sua fine. E' ovvio che ciò avrebbe presupposto una ulteriore capacità di organizzarsi fuori e contro la mediazione politico-istituzionale e sindacale e portare la lotta su un piano più avanzato. Ma con i ma e i se non si fa la storia....

L'accordo sarebbe riduttivo definirlo “bidone” poiché proprio nella sua genericità sostanzialmente recupera i “punti” avanzati dal comune di Genova. La formalizzazione della messa in appalto delle linee periferiche (le collinari), la necessità di riequilibrare i conti dell'AMT cercando risorse per 4 milioni di euro all'interno dell'azienda, già di per sé mettono in dubbio la tenuta dei livelli occupazionali e salariali, nonostante le dichiarazioni di principio contenute nell'accordo. Ovviamente, per i punti più scabrosi ci saranno accordi successivi fra le parti sociali, senza i rompipalle di mezzo (cioè i lavoratori...). Un accordo di ristrutturazione, con il vincolo della intangibilità dei singoli punti altrimenti salta tutto l'accordo.

La lotta degli autoferrotranvieri genovesi, come ogni lotta, è sempre ricca di conferme ed insegnamenti che vanno al di là della parzialità della stessa e che per noi rivoluzionari diventano fondamentali. Il primo punto che possiamo cogliere è quello che, dentro la crisi, le espressioni di lotta devono obiettivamente misurarsi per emergere e strutturarsi con la cappa di piombo degli assetti corporativi e dei vincoli di ordine legale che tendono a ratificare lo stato dei rapporti di forza, imponendo dinamiche sterili alla lotta stessa. La lotta dei lavoratori dell'AMT, in maniera istintiva, materiale, ha affrontato questo nodo, almeno nella fase iniziale. Indipendentemente dall'esito della lotta stessa, ha posto sul terreno la possibilità e la praticabilità di rompere gli steccati preposti all'imbrigliamento delle lotte. I 5 giorni di sciopero ad oltranza, andando contro le normative antisciopero, hanno comunque costituito un fattore di riferimento per tutti coloro che hanno guardato a questa lotta.

Il secondo punto è inerente al carattere stesso della lotta, tipicamente vertenziale e ancora – nonostante tutto - con una forte presenza sindacale, che ne ha di fatto castrato le potenzialità, che pur vivevano, verso una ricerca di collegamento e generalizzazione quantomeno di categoria.

Il terzo punto riguarda la capacità della borghesia di articolare un intervento, dosato e calibrato alle diverse situazioni con i suoi diversi strumenti a disposizione, al fine di recuperare e riassorbire anche le lotte più dure.

Il quarto punto mette in luce come una chiara coscienza anticapitalista non possa mai essere il prodotto spontaneo di una lotta per quanto essa dura. Ma ciò richiede l'intervento fattivo ed agente dell'avanguardia rivoluzionaria, che nei momenti alti e nei rinculi della lotta, costruisca gli strumenti idonei all'intervento di direzione rivoluzionaria della classe.

EG
Martedì, November 26, 2013

Comments

Ottima presa di posizione. Ben detto!