Il capitale tedesco e la crisi dell'euro

Cause e limiti di un progetto di espansione

Mentre crescono le preoccupazioni per le bancarotte di Stato, in Germania si registrano dati economici positivi. La Cancelliera si spinge talmente in avanti da affermare che per la Germania le cose non andavano così bene da molto tempo a questa parte. Perfino il più restio giornale specialistico “Internationale Politik” cantava trionfalmente:

I mesi della salvaguardia europea 2010 hanno mostrato che Angela Merkel è come se fosse diventata la Cancelliera d'Europa.

Ogni partecipante ai summit europei sulla crisi sa che nessun Paese europeo può essere salvato prima che la Germania, con il suo potenziale economico e finanziario e il suo prestigio, dia l’ok ai mercati finanziari.

In confronto a paesi come la Gran Bretagna, la Francia e l’Italia, il vantaggio chiave della Germania sta nel mantenimento vincente di una struttura industriale, anche laddove il mercato mondiale chiede continua modernizzazione. In Gran Bretagna, per ristrutturare l'apparato manifatturiero a favore di un sistema economico imperniato sui servizi e sulla finanza, la classe dominante ha attaccato i lavoratori del settore metalmeccanico e delle miniere di carbone in modo violento, ma relativamente tardi. Oggi ne possiamo vedere i risultati. In Germania la ristrutturazione industriale è invece avvenuta prima e in modo diverso. Per esempio, quando la CEE è stata fondata col “Trattato di Roma” del 1957, 607.000 minatori lavoravano nella Repubblica Federale Tedesca, numero che è stato drasticamente e rapidamente ridotto col boom del dopoguerra, senza che si arrivasse allo scontro con la classe operaia dei settori trainanti dell’economia (come invece fece a suo tempo la Tatcher). Attraverso il pensionamento anticipato, i corsi di formazione, i piani sociali e gli ampi sussidi, il numero dei minatori è stato pressoché dimezzato tra il 1957 e il 1966. Nel 2006 in Germania si trovavano solo ancora 8 miniere, con un totale di 35.000 dipendenti, mentre nel 1957 se ne potevano contare fino a 153. Cambiamenti nel settore metallurgico furono condotti in modo del tutto similare. È vero che questa ristrutturazione industriale e l’introduzione di nuove tecnologie ha favorito la disoccupazione, che ha raggiunto e superato la soglia di 2 milioni di disoccupati, ma all’inizio degli anni Ottanta c’era ancora abbastanza spazio di manovra per gestire economicamente e politicamente il problema. Furono in particolare le campagne sindacali per le 35 ore settimanali ad essere abilmente utilizzate dal capitale, intensificando il lavoro e rendendo le condizioni di lavoro più flessibili. Con la riunificazione, la Germania poté accrescere il suo peso politico, sia a livello europeo che a livello internazionale, ma il boom della “riunificazione“ durò ben poco. Nel 1992 la Bundesbank innalzò il tasso di interesse per controllare le tendenze inflazionistiche rispetto ai crescenti salari e alla forte domanda interna. Questo ebbe pesanti conseguenze per i tassi di cambio delle monete europee. Il risultato della speculazione sulla valuta, rampante già a quell’epoca, costrinse il sterlina inglese, la lira e la peseta spagnola a svalutare, mentre il marco tedesco si rafforzava. Nonostante la situazione economicamente favorevole degli USA, il marco forte provocò un crollo nel settore delle esportazioni. Per tutti gli anni Novanta, l’export tedesco soffrì del meccanismo di cambio della valuta e della sua relativa crisi. Questa rimane fino ad oggi un’importante lezione per la borghesia tedesca. Anche oggi tale esempio (cioè la crisi del 1992) viene usato con successo come argomento per il rafforzamento dell’Euro.

L’Euro arma miracolosa della Germania?

È stato solo nel 2007-2008, con l’introduzione dell’euro e le riforme economiche del governo Schroeder, che l’export tedesco ha ritrovato il passo. Nel 2007 il surplus sul mercato estero era di 198 miliardi. Nel 2000 era stato di 17 miliardi. I bassi saggi di interesse associati all’euro causarono boom economici in altri paesi, di cui si avvantaggiò grandemente l'export tedesco. Il Pil spagnolo crebbe del 3,8%, quello irlandese del 6,8%, quello greco del 3,9% e quello portoghese del 2%. Comparata a questi dati, la crescita media della Germania si attestava intorno al 1,8%. In tal modo, si aprirono le economie dei paesi alle merci tedesche e fu così superata la stagnazione degli anni Novanta. La RFT ha realizzato un surplus nella bilancia commerciale, mentre gli stati menzionati sopra hanno avuto in seguito da combattere coi loro deficit commerciali. In aggiunta, la loro crescita economica era stata estesamente finanziata con crediti e così l’eccesso di importazioni continuò a infiammare la spirale dei debiti. Spiegato, in breve, il cocktail che porta alla bolla finanziaria. Non solo i prodotti importati erano “made in Germany”, anche il credito per comprare i beni d’importazione veniva dalle banche tedesche. Questi elementi hanno caratterizzato la politica economica della Germania – che stava puntando su una deregolamentazione del settore finanziario – che prevedesse generali agevolazioni fiscali per imprenditori e detentori di capitali. Nel 2005 la quota di tasse pagate dal settore del business in Europa era del 2,4%, in Germania invece, era solo dello 0,6%! Con la riforma delle tasse del 2008 la tassazione sull'impresa è caduta sotto il 30% e lo stesso è avvenuto in Francia, Belgio e Italia.

La crisi bancaria del 2008 ha messo bruscamente fine ai sogni e alle, a lungo, declamate certezze del neo-liberismo. Per combattere gli effetti peggiori della crisi e prevenirne una estensione all’economia reale, sono stati elargiti pacchetti di salvataggio da miliardi di euro. A differenza di altri paesi, come ad esempio l’Inghilterra, questi interventi statali non sono solo serviti a salvare le banche.

Tramite i finanziamenti per i lavoratori part-time, i tagli sullo stipendio e il sostegno finanziario alle piccole e medie imprese, fu fatto chiaramente intendere che il governo sosteneva l’industria per non far deragliare l'economia, misure che infine pagarono. In quella fase inoltre la Germania ha profittato molto di più dalle economie cinese e americana. Questo ha permesso alle esportazioni tedesche non solo di rimanere costanti, bensì di crescere. Nel 2010 le esportazioni verso la Cina sono aumentate fino al 40%. Uno dei settori che ha avuto maggior slancio è stato quello della produzione di macchine utensili, protagonista di un vero boom. Allo stesso modo, i pacchetti di salvataggio per Grecia e Irlanda, ma anche le cosiddette “Facilitazioni per la stabilità finanziaria europea”, tali EFEF, sono state misure importanti che hanno contribuito a potenziare le esportazioni tedesche. Nel ruolo di cassiere responsabile europeo, la Germania non solo si ingrandisce economicamente, si innalza anche coscientemente a ruolo di leader europeo. La stabilizzazione del meccanismo dell’euro e lo stretto controllo sulla BCE, offre grandi possibilità di intervento diretto all’interno degli affari degli altri stati membri della EU. È vero che mantenere l’euro è molto costoso, ma alla lunga la sua forza verrà usata per spezzare il dominio a lungo tenuto dal dollaro sui mercati internazionali e anche questo è uno dei punti centrali della strategia espansionistica tedesca. Come ci ricorda il “chairman” di Allianz:

Con l’euro noi europei abbiamo un peso nell’economia mondiale. Se non ci fosse la EU, la Germania da sola non sarebbe capace di competere con la sua valuta sullo scenario internazionale. Il fatto che il 26% delle riserve monetarie mondiali sia in valuta Euro, dimostra che c’è grande fiducia nei suoi Stati membri.

Da Welfare a Workfare State

L’euro ha provato ad essere un importante motore per l’economia delle esportazioni tedesche. Ma non può funzionare in sé. Gli incredibili vantaggi che la Germania ha sugli altri stati membri e la sua posizione di mega-esportatore sono basati su una politica di salari “bidone”, perpetrata ormai da anni. Tra il 2000 e il 2010 i salari nell’EU sono cresciuti del 20%, in Germania solo del 6%. La borghesia ha abilmente utilizzato la disoccupazione di massa, crescente nella ex Germania Est dopo la caduta del muro, operando così massiccia pressione sulla classe operaia. Durante gli ultimi 10 anni, salari e servizi sociali sono stati progressivamente tagliati e le condizioni di lavoro deregolate. I salari sono scesi ormai da vent’anni a questa parte, in continua diminuzione dal 1993. Questo, in primo luogo, è una conseguenza dello “spread” del lavoro part-time. Anche la paga oraria è calata costantemente dal 2003. Attuando la cosiddetta “Agenda 2010”, è stato possibile per la borghesia tedesca registrare una importante vittoria strategica. Questa “riforma” riguardante la disoccupazione e i servizi sociali (fatti passare dalla borghesia per privilegi) ha incrementato la pressione sulle condizioni di lavoro e ingigantito il solco all’interno della classe lavoratrice.

Hartz IV” è comunemente diventato sinonimo di povertà ed esclusione sociale. Tutto ciò che ha la parvenza di una fonte di reddito, tutti i risparmi, vanno dichiarati agli uffici statali. Questo spesso include i mezzi di sostentamento della famiglia, di eventuali conviventi e alle volte perfino quelli del compagno di stanza. Quando qualcuno perde il proprio lavoro, tutti i suoi risparmi anche in forma di “mattone” o “malta” devono essere stati “consumati” prima di poter richiedere l'accesso al sussidio “Hartz IV”. Questo ammonta a 364 euro al mese per un adulto single, inclusi genitori single. Questa somma viene elargita con l'obbligo di accettare ogni lavoro “ragionevole”. Coloro che percepiscono questo sussidio non solo sono obbligati a dimostrare di essere alla ricerca di lavoro, sono anche soggetti ad essere inclusi in lavori part-time da un euro all’ora per organizzazioni no-profit, tali “ein euro jobs”. In caso di “rifiuto del lavoro” vengono applicate “sanzioni” e scatta la minaccia della riduzione dell’ammontare già misero del sussidio. Il “consumo” dei beni di proprietà si è esteso molto nel settore dei lavoratori sottopagati. In tutto questo, anche i salari tendono a diminuire. Un effetto immediato è che più di un quarto dei posti di lavoro sono sottopagati. Non c’è da stupirsi che la borghesia celebri le leggi di “Hartz IV” come un grande successo, un ribaltone nel mercato del lavoro. Le liste di disoccupazione ufficiali (alla fine del 2010: 3,15 milioni) sono invece indorate. Il dato reale della disoccupazione in quegli anni ammontava a ben 6 milioni di persone, considerate “senza lavoro a lungo termine” – senza alcuna possibilità di ricevere perfino del lavoro precario. Oggi, ogni cinque occupati, uno lavora in un settore a basso salario, il che equivale a 8 milioni di individui che guadagnano sotto i dieci euro l’ora nella Germania occidentale e meno di 8 euro l’ora nella Germania orientale.

Il cosiddetto “lavoro a contratto” si è espanso similarmente. Nel novembre del 2010, 900.000 persone (un record nella storia della RFT) stavano lavorando sotto questa forma di lavoro precario. Lavoratori a contratto, forza lavoro di agenzie interinali e di lavoro privato che “prestano” i lavoratori a imprese particolari. Hanno meno diritti riguardo all’avviso di licenziamento e alla liquidazione (anche quando lavorano a tempo pieno); in percentuale percepiscono meno del 50% di un impiegato a tempo pieno. Circa 100.000 lavoratori a contratto sono attualmente obbligati a chiedere ulteriori sussidi agli uffici governativi, per arrivare a fine mese. Il numero di questi e altri cosiddetti “toppers up” sono aumentati tra il 2005 e il 2009 da appena 400.000 a 1.3 milioni. 390.000 di loro lavorano a tempo pieno.

Uno dei pilastri centrali di questo modello tedesco di successo è stata l’integrazione e il lavoro in comune tra i sindacati, il capitale e lo Stato. Negli anni recenti, non solo il sindacato ha praticato la riduzione dei salari, ha anche largamente contribuito a sostenere il processo di flessibilizzazione del lavoro. È nella sua strategia organizzativa di concentrarsi principalmente sui lavoratori delle industrie maggiori, mentre si cura poco o niente dei contratti di lavoro precari. Politicamente, questa strategia è stata concepita nonostante il diffondersi del lavoro precario e sottopagato. Il settore delle paghe medie e alte ancora non è stato attaccato direttamente. Per assicurare la loro base industriale, il capitale ed i sindacati continuano a tenersi stretto uno strato di lavoratori specializzati altamente qualificati, possibilmente calmi e addomesticati.

I limiti e i dilemmi del progetto d’espansione tedesco

Tutto ha una fine, solo una salsiccia ne ha due”, recita un popolare detto tedesco. Di recente, durante il marzo di due anni fa, l’export tedesco è arrivato a 100 miliardi di euro. Quello è stato fino il più alto livello raggiunto dal 1950. Subito però, nel mese seguente, il valore delle merci esportate è sceso a 84.3 miliardi, chiaramente una somma molto più bassa. È il segnale che ci sono dei limiti al modello di esportazione tedesco. Il boom in Germania, verificabile fino ad oggi, è dipeso unicamente dalle esportazioni. Non si autososteneva né galvanizzava l’economia domestica. Di per sé, il commercio estero poteva creare un effetto-crescita solo in modo limitato. Finora, il capitale tedesco è riuscito a trovare, e usare, un sufficiente spazio di manovra per “cavalcare” i programmi di crescita economica dei paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina). Ma questo spazio si va man mano restringendo. L’intensificazione globale della crisi esige sforzi intollerabili dai paesi dipendenti dalle esportazioni, come la Germania.

A dispetto delle sue moderne infrastrutture industriali, anche la Germania non è immune al problema dell’indebitamento globale. Alla fine del 2010 il debito pubblico ammontava all’80% del Pil. Questo supera con ampio margine il “limite di stabilità” del 60% concordato nel trattato di Maastricht. Così anche l’ammontare di nuovi debiti, del 7,6% del Pil, sfora il limite del 3% permesso dal trattato di Maastricht.

Tutto questo genera un crescente nervosismo tra la classe dominante. I cosiddetti euroscettici hanno rafforzato la loro voce nei dibattiti politici e ventilano la possibilità di farla finita col modello EFSF [il meccanismo di finanziamento o aiuto che dir si voglia degli stati membri, N.d.R.] e con gli Euro-Bond. Queste voci, in prima istanza, tradiscono la crescente insicurezza della piccola borghesia e delle classi medie. La borghesia può, per ora, permettersi di dar loro voce, perché sono utili a rafforzare il nazionalismo ed il pensiero dominante, nascondendone il tentativo egemonico. Allo stesso tempo, la classe dominante è davvero consapevole dei propri limiti. Possibili bancarotte di stato in Portogallo, Italia o Spagna, vengono apertamente prese in considerazione come lo scenario peggiore possibile, che porterebbe al conseguente naufragio del progetto europeo in corso. Nessuno ha il coraggio di menzionare pubblicamente i possibili effetti che la bolla finanziaria cinese potrebbe provocare. Anche se non ha ancora un piano preciso, la borghesia tedesca è unanime nel dire che all’interno della propria strategia d’espansione, l’euro è da mantenere come pietra angolare. Questo è chiaro e non da ultimo per via delle errate azioni del governo Merkel, il quale sembra più essere guidato che guidare. Nessun governo della RFT ha mai perso così rapidamente consensi e popolarità in così poco tempo. Il bilancio generale, per ora, è costellato da una serie di bancarotte, sventure e incidenti.

Uno dei più grandi errori di calcolo consiste nell'aver capito troppo tardi la natura della primavera araba. Il risultato è stato un goffo intervento durante la crisi in Libia. La borghesia tedesca ha dovuto imparare la dolorosa lezione, che a volte la Gran Bretagna spara più veloce dei prussiani e che la Francia, ora e prima, è sempre stata un partner strategico con proprie ambizioni. La Germania sconta un ritardo pluridecennale nel mondo arabo e deve rifarsi sullo scenario politico internazionale, difendendo risolutamente le proprie posizioni. La presente coalizione governativa è profondamente instabile e potrebbe crollare in ogni momento sotto il voto dell’opposizione parlamentare. Tuttavia, in vista delle turbolenze sui mercati finanziari, l’opposizione ha paura di fare il passo decisivo. In ogni caso, tutti gli indicatori puntano sul fatto che importanti settori della classe dominante contano sull’ingresso (la coabitazione al governo con la CDU, la “Grosse Koalition”) della SPD negli affari del Governo.

Prospettive

La classe lavoratrice ha pagato un alto prezzo al modello esportatore tedesco e ha dimostrato una scarsa reattività nella difesa dagli attacchi alle sue condizioni di vita. Ci sono diverse ragioni: La disoccupazione e Hartz IV continuano ad essere un forte strumento disciplinante. La divisione della classe in forza lavoro specializzata largamente garantita, un settore a bassi salari ed un segmento intermedio – che viene lentamente eroso dalla crisi – continua a funzionare e pone molti problemi sul come unirsi e resistere collettivamente.

Inoltre, la borghesia tedesca ha dato finora il massimo per evitare un attacco complessivo alla classe lavoratrice nel suo insieme. Continua a procedere con estrema attenzione, settore per settore, ramo per ramo. Non solo ha usato con successo le divisioni esistenti nella classe, le ha approfondite ulteriormente. Il lungo periodo di pace sociale lascia le sue tracce. C’è poca esperienza di lotta e nessuna radicata tradizione di resistenza agli attacchi. La tendenza all’individualizzazione si acutizza sempre più all’interno della classe. La perdita del lavoro e la disoccupazione sono spesso visti come un destino individuale, in alcuni casi viene perfino percepito come risultato di un fallimento personale. È vero che l’ideologia interclassista di salvaguardare la sola propria condizione è stata lievemente mimetizzata, tuttavia essa trova ancora accettazione da parte del nocciolo duro della forza lavoro (specialmente nell’industria). Oggi, come prima, il sindacato svolge la sua potente funzione di mantenimento di questa pace sociale da cimitero. Le adesioni al sindacato sono in diminuzione. Dopo anni di caduta dei salari, si è fatta strada una certa disillusione. Ciononostante, molti dei membri del sindacato lasciano i sindacati e accettano la disoccupazione in maniera passiva dal punto di vista politico e sociale. Le poche lotte difensive fatte sono state organizzate dal sindacato, ma non sono andate oltre il lavoro di frammentazione, classico del sindacato stesso. In generale, sono episodi che sono rimasti impressi nel lavoratori come sconfitte. Il movimento degli indignados non è stato capace di radicarsi in Germania. Per quanto riguarda il movimento “Occupy”, esso non ha ancora portato a dinamiche estese. Nonostante i suoi limiti politici, può però fungere da rompighiaccio dell’isolamento. In queste condizioni, lo sviluppo di minoranze rivoluzionarie si trova di fronte, per forza di cose, molti ostacoli.

Uno degli obbiettivi più urgenti al giorno d’oggi è quello di portare avanti un processo di chiarificazione politica, nell’ordine di fare sostanziali passi avanti verso un nuovo inizio per l’organizzazione rivoluzionaria. In vista dei restringimenti della crisi, ciò, è ormai una corsa contro il tempo ed i comunisti, all’interno di questa competizione, non stanno proprio partendo in pole position.

J.W.
Venerdì, January 17, 2014

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.