Capitalismo significa guerra - L’unica alternativa è la lotta di classe!

Documento della TCI per il Primo Maggio 2014

Dal gennaio di quest’anno i nostri padroni non hanno smesso un attimo di commemorare il centenario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale. Inutile dire che le cause imperialistiche di tale carneficina di massa non vengono affatto ricordate. Al loro posto troviamo vaghi riferimenti a una “catastrofe del secolo”, legati assieme da una spessa rete di miti nazionalisti. E’ dura da ammettere, ma non si tratta ormai più solo di storia della politica. Nel frattempo, infatti, persino gli opinionisti borghesi hanno iniziato a sottolineare con evidente imbarazzo i paralleli con le convulsioni della storia mondiale odierna. In realtà, ci sono molti segnali che ci fanno capire come i giochi di potere dei padroni della Terra stiano nuovamente andando incontro a dinamiche fatali. La Prima Guerra Mondiale è stata la prima competizione su scala mondiale della fase imperialistica, è stata una guerra come nessun’altra prima. Non una semplice guerra di riassesto dei confini statali, bensì una guerra totale, una guerra a oltranza, una lotta all’ultimo sangue tra poteri imperialistici in competizione fra loro, determinati ad annichilire tanto economicamente quanto militarmente i loro rivali. La guerra ebbe inizio sull’onda di un’euforia nazionalistica generale, fomentata dalle potenze imperialistiche impegnate a spingere i lavoratori a combattere per la patria, o per il “re ed il paese”.

Il tutto costò la vita a più di 20 milioni di persone, e sarebbe finita solo con le rivoluzioni di classe in Russia e in Europa Centrale, che però non ebbero la forza di porre fine al capitalismo, i cui feroci appetiti erano ben lungi dall’essere soddisfatti. La contro rivoluzione stalinista in Russia, l’ascesa del Fascismo e la crisi economica mondiale del 1929 furono solo passi verso i fatali sviluppi che alla fine alimentarono le basi per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, chiusasi con oltre 70 milioni di vittime. Dovremmo tenere bene a mente tutto ciò, ogni volta che gettiamo uno sguardo verso l’Europa dell’Est, specialmente in Ucraina.

Crisi e guerra

Raramente qualcuno è caduto maggiormente in errore dell’analista politico Francis Fukuyama, che predisse la “fine della storia” dopo il collasso del Blocco Sovietico. Ben lungi dal guidarci verso una nuova “era di pace e sviluppo” (George Bush senior), l’ordine multipolare mondiale emerso dopo il 1989, ci ha condotti verso un sempre maggiore inasprimento dei conflitti imperialistici e delle tensioni. Lungo le coordinate mondiali c’è stato un rimescolamento delle carte non appena si sono liberati posti per far nascere nuove strutture di potere imperialistiche. Sullo sfondo storico degli ultimi trent’anni il conflitto in Ucraina è infatti un momento significativo all’interno di una lunga catena di scontri con modalità guerresche (Kosovo, la Guerra del Golfo, Afghanistan, Syria, ecc…). Il colpo di mano di Putin in Crimea è stata una chiarissima risposta per evitare che le manovre occidentali risucchiassero l’Ucraina dentro al proprio blocco. Nel caso specifico dell’Ucraina, entriamo proprio nel succo della questione. Essa gioca un ruolo chiave nei piani sia di Washington che di Mosca, per anni infatti la Russia ha lavorato assiduamente per abbracciare in maniera più stretta quegli stati che le appartenevano precedentemente, puntando prevalentemente su accordi commerciali, ma anche sulla creazione della cosiddetta Unione Eurasiatica, cioè uno spazio economico avente le proprie forze dell’ordine in ambito militare e in ambito di sicurezza generale. A causa, prevalentemente, della grande capacità di controllo geostrategico di materie prime e delle linee di rifornimento energetico, la Russia potrebbe diventare una formidabile forza di contrappeso rispetto agli Usa e alla UE. Ovviamente, nello scenario di scontro odierno, troviamo molti riferimenti alla “integrità territoriale” e alla “autodeterminazione nazionale”, ma è dura nascondere il fatto che il conflitto ucraino sia, anzitutto, una concretissima lotta imperialistica per il potere, condotta da ambo le parti con misure via via più disperate. Nella fase imperialistica del capitalismo ogni richiesta di “diritti nazionali”, non importa con quale pretesto, con quale vessillo politico o giustificazione, è necessariamente parte integrante del gioco di potere imperialistico.

Ad ogni modo, le contraddizioni imperialistiche non collidono in maniera implacabile solo in Europa. A parte l’Afghanistan, l’Iraq, la Syria, il Sudan del Sud, Gaza, il Mali o la Repubblica Centrale Africana, giusto per nominare i conflitti più celebri, dobbiamo ricordare come anche in Asia, subito dopo la fine della Guerra Fredda, hanno preso piede scontri durissimi. La Cina ha aumentato il suo budget militare di ben otto volte negli ultimi vent’anni, ma anche i suoi vicini nel Pacifico stanno tentando di rimanere al passo. Il Vietnam, le Filippine, Singapore, la Corea del Sud e il Giappone stanno tutte innalzando prepotentemente i budget di spesa militare. L’India ha addirittura sorpassato la Cina diventando la prima importatrice mondiale di armi, così come pure la più grande costruttrice di navi da guerra. Gli Usa, che hanno il compito di difendere da un numero sempre maggiore di concorrenti il proprio scettro di superpotenza militare egemone, hanno investito l’iperbolica cifra di 640 miliardi di dollari per la difesa nel solo 2013. Ciò non ha comunque agito da deterrente contro l’aspirante superpotenza cinese, che dal canto suo ha tirato fuori tutti gli assi dalla manica per superare gli USA, specialmente nella regione del Pacifico. L’accanimento mostrato nelle dispute riguardanti piccoli territori come, per esempio, le Isole Senkaku/Diaoyu, è la dimostrazione dell’asprezza dei conflitti imperialistici in un mondo dove la corsa alle armi permanente è condizione essenziale per mantenere la sovranità nazionale.

Contro tutte le ideologie nazionalistiche!

Sul fronte interno, un inasprimento della competizione mondiale si riflette in una propaganda e in una retorica di stampo nazionalista sempre più aggressiva. L’idea della nazione è sempre stata e continua ad essere un punto chiave dell’ideologia borghese e del suo conseguente dominio. Essa maschera il carattere di classe del sistema capitalistico e incoraggia l’idea che le condizioni esistenti siano espressione dei comuni interessi fra le persone. Nel nome della “competitività nazionale” viene incoraggiato il sacrificio, viene tagliato il welfare e le maglie dello sfruttamento vengono strette, mentre nel frattempo la “sicurezza nazionale” serve a legittimare l’apparato di sorveglianza e di repressione, nonché a chiudere le porte a sgradite forze di opposizione. I “valori nazionali”, spesso invocati, o la “cultura nazionale”, sono sempre stati la via più breve per rinforzare il razzismo e per agire contro chiunque non si conformi alla moralità sessuale dominante.

Le ideologie reazionarie si nutrono sempre della decomposizione, dell'atomizzazione e della crescente insicurezza sociale. Dal Fronte Nazionale in Francia al partito Jobbik in Ungheria, la destra razzista è in crescita, ed è alla ricerca di voti, con una miscela pericolosa di razzismo, antisemitismo e demagogia sociale. In Grecia, il partito fascista “Alba Dorata” è diventato una minaccia per la vita stessa degli immigrati e, grazie ai suoi sostenitori nella polizia e nell'esercito, ha ottenuto importanti posizioni di potere nell'apparato statale. Tuttavia, i fascisti non si collocano fuori dal nazionalismo e dalla struttura dell'autorità costituita dell'attuale società borghese, bensì ne sono parte integrante. I nazisti non incarnano né una forma di protesta né di opposizione contro le condizioni di potere dominanti, ma al contrario affilano il contenuto ideologico diffuso ogni giorno dai nostri governanti. Per questo motivo, non ha senso voler combattere i nazisti per difendere la democrazia. La nozione di difesa della democrazia si riduce ad accettare, diffondere ed infine soccombere al mito dello Stato come entità neutrale rispetto alle classi. La resistenza al fascismo deve far parte di una lotta anti-capitalista globale per il rovesciamento di tutte le forme di dominio borghese. Ciò però richiede che le condizioni siano viste nel loro insieme, come un tutt'uno.

Crisi e composizione di classe

Sono passati ormai sette anni dallo scoppio della bolla speculativa, che ha gettato l'economia mondiale nel vortice della recessione. Ma, a dispetto di tutte le previsioni e gli auspici di una pronta guarigione, la crisi si è solo approfondita. La montagna di debiti diventa sempre più grossa, l'instabilità aumenta e la speculazione finanziaria gira a pieno regime. Nel frattempo, si può tranquillamente scommettere sullo scoppio della prossima bolla. Tutto ciò deriva da una profonda crisi strutturale del sistema, che perdura da decenni (in effetti, dalla fine del sistema di Bretton Woods nel 1973). Il capitalismo si trova al termine di un ciclo di accumulazione, da cui alla fine può uscire solo attraverso una massiccia svalutazione di capitale. Agli albori del capitalismo, un paio di errori e qualche fallimento sarebbero stati sufficienti. I capitalisti vincitori avrebbero acquisito i perdenti a prezzi stracciati e il sistema avrebbe potuto ricominciare. Oggi però, nonostante la ristrutturazione degli anni 1980, la massa di capitali in tutto il mondo è così grande che solo una svalutazione massiccia del capitale può riavviare l'accumulazione e portare il sistema fuori dalla crisi. Una tale svalutazione richiederebbe una tale distruzione massiccia di capitali da poter essere realizzata solo con una distruzione fisica, in una guerra globale. Anche se oggi non esistono ancora le pre-condizioni politiche e diplomatiche per una tale guerra, il pericolo è virulento e cresce ogni giorno.

Di fronte a questa sfida, la classe operaia si trova in una posizione evidentemente difensiva, quasi senza speranza. Per decenni, il capitale ha puntato sulla compensazione della caduta del saggio di profitto tramite la ristrutturazione completa del processo di produzione (ad esempio, attraverso l'introduzione della microelettronica) e il massiccio aumento del tasso di sfruttamento. La produzione ed i posti di lavoro vengono delocalizzati verso paesi a basso salario, dove gli operai faticano in fabbrica per salari da fame, mentre i lavoratori nei centri tradizionali del capitalismo sono costretti a ingoiare tagli salariali e peggioramenti delle condizioni di lavoro. In tutto il mondo, c'è una concorrenza spietata che spinge verso il basso i salari, utilizzando metodi di sfruttamento che ricordano quelli del 19° secolo. Posti di lavoro part-time, temporanei, con contratti cosiddetti “a zero ore” (i quali, per esempio, sono estesi ad oltre un milione di persone in Gran Bretagna, che devono essere a disposizione dei padroni tutto il giorno, per qualsiasi tipo di lavoro), cosiddetti “mini-jobs” e falsi lavori autonomi sono solo alcuni esempi della creatività utilizzata per asservire la classe operaia al capitale. La classe operaia ha chiaramente subito un arretramento dal punto di vista del grado di organizzazione e di unità. La frammentazione e le molteplici linee di divisione, assieme alla diffusione di precarie condizioni di lavoro, pongono grosse sfide per lo svi-luppo della difesa collettiva.

Per la lotta di classe autonoma!

Ma non si tratta solo di strutture. Al contrario, la rinascita di un efficace controffensiva della classe operaia dipende dalla comprensione degli obiettivi politici e delle prospettive della lotta. L'opposizione alle politiche di austerità sarà possibile solo se comprendiamo che ogni forma di resistenza agli attacchi della classe dominante alle nostre condizioni di vita fa parte della lotta globale della nostra classe, in tutto il mondo. Ciò richiede il netto rifiuto di tutte le ideologie nazionaliste e di ogni tentativo di subordinare gli interessi della nostra classe a favore di qualche fazione della borghesia. Al tempo stesso, è necessario capire che anche le eventuali vittorie conseguite su obiettivi contingenti saranno sempre e solo temporanee.

Ormai è evidente che l'umanità può avere un futuro solo a condizione di un cambiamento radicale del modo di produzione. L'unica soluzione è una società da cui siano eliminati denaro, sfruttamento e profitto e in cui la produzione sia in armonia con l'umanità e con l'ambiente; una società in cui la produzione serva a soddisfare i bisogni umani e non il profitto. Questo è ciò che intendiamo per comunismo! Una società alternativa, di questo tipo, non si realizzerà in maniera spontanea. Potrà essere perseguita soltanto attraverso la lotta, condotta da un movimento cosciente, che intenda sbarazzarsi dei rapporti sociali attualmente dominanti.

Abbiamo davanti una lunga strada. Ma, nonostante ciò, coloro che hanno compreso la necessità di una nuova società devono unirsi come avanguardie comuniste in una organizzazione internazionale ed internazionalista. Un partito di questo tipo non pretende di incarnare in sè un nuovo governo, ma si pone come strumento indispensabile, per dare una chiara prospettiva e una guida politica alla lotta per una nuova società.

Questa lotta si combatte ovunque la classe operaia si oppone capitalismo, ma la sua essenza non è l'opposizione a questo o quell'aspetto dell'oppressione capitalistica, ma all'intero sistema. Le contraddizioni capitalistiche non spariranno da sole, ma anzi continuano a manifestarsi in crescente disuguaglianza e sfruttamento, guerre genocide e degrado ambientale. Non sarà facile liberare il pianeta da questi flagelli, ma ogni compagno che si impegnerà nella lotta per una nuova organizzazione di classe internazionale ci aiuterà a fare un passo in avanti verso il nostro obiettivo: una “associazione di liberi ed eguali”, in cui il “libero sviluppo di ciascuno sia la condizione per il libero sviluppo di tutti”.

TCI 1°Maggio 2014
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Giovedì, May 1, 2014