La vittoria di Renzi alle elezioni - Facciamo il punto della situazione

Scrivevamo nel mese di aprile,

I provvedimenti governativi … verranno spezzati in due tipologie, prima e dopo le elezioni europee del 25 maggio. Prima i provvedimenti più popolari, che possono portare voti al PD, dopo quelli impopolari.

Possiamo oggi dire che il piano ha pagato oltre le più rosee aspettative. Renzi esce dalle elezioni europee come “Il Trionfatore”. Ha sbaragliato la concorrenza di penta-stellati e berlusconiani, ha messo a tacere l'opposizione interna al PD che mai avrebbe ottenuto un risultato del genere se il partito fosse rimasto affidato alla vecchia nomenclatura ex-PCI, è stato capace di attrarre voti da tutte le fasce sociali: operai, piccoli e medi imprenditori, grande borghesia, ha conquistato l'elettorato di destra e di sinistra. La sua campagna elettorale, iniziata il giorno del suo insediamento, il 26 febbraio, è stata un piano ben congegnato e meglio riuscito.

Era esattamente quello di cui aveva bisogno la borghesia: un'ampia base di consenso attraverso la quale portare legittimamente avanti il proprio ambizioso progetto di riforma.

Prima di entrare nel merito di questo progetto, qualche riflessione.

Innanzi la lieve crescita dell'astensionismo, almeno in Italia, visto che a livello europeo il dato della partecipazione è rimasto identico a quello del 2009. In queste elezioni non hanno espresso un voto utile 23,2 milioni di elettori sui 50,7 milioni di aventi diritto, un incremento di circa 3,5 milioni rispetto al 2009. Poi l'oscillazione del corpo elettorale, nel giugno 2009 vinse il Popolo delle Liberà con il 35,3% e 10,8 milioni di voti, oggi ha vinto Renzi con il 40,8% e 11,2 milioni di voti. Poche centinaia di migliaia di elettori di differenza, medesimo tentativo – ma questa volta più credibile – di proporsi come “salvatore della patria”.

Nel 2009 la crisi dei sub-prime giungeva al suo apice con una contrazione del PIL di -5,5%, e Berlusconi, al governo da un anno, capitalizzava il trionfo alle europee per varare... il DDL intercettazioni, lo scudo fiscale, il reato di immigrazione clandestina, la sospensione della soppressione delle province, la riduzione dei tempi della prescrizione... la borghesia si rese conto una volta di più che quel personaggio truffaldino – nonostante avesse rappresentato gli interessi di settori importanti del capitalismo – andava messo da parte, serviva qualcun'altro sul quale scommettere per fare quelle riforme attese almeno dal 1992.

Nel 1992 – crisi della lira – le contraddizioni accumulate nel ventennio precedente arrivarono a maturazione, testimoniate dalla crescita enorme del debito pubblico. Da allora, nonostante il continuo aumento delle entrate dello Stato, le spese sono cresciute ulteriormente: dal 2000 al 2012 la tassazione è aumentata di 228 miliardi, la spesa pubblica di 274, ad oggi l'Italia ha il quarto debito pubblico al mondo (2.120 miliardi di euro, il 133% del PIL), una scarsa produttività del lavoro, la pressione fiscale al 47%, un'urgente necessità di investimenti in infrastrutture e la necessità di alleggerire la burocrazia.

Le pressioni della grande borghesia portarono alla lettera-impegno di Berlusconi del 26 ottobre 2011 per realizzare le “riforme strutturali”, ma il passo era tardivo, Berlusconi si dimetterà pochi giorni dopo. Fu poi il turno di Monti prima e di Letta poi, ma anche loro – nonostante le leggi anti-proletarie approvate nel frattempo, come l'innalzamento dell'età pensionabile, la riforma del lavoro Fornero e le privatizzazioni – non riuscirono ad imprimere quel “cambio di passo” richiesto dal grande capitale. Nel febbraio 2014 sarà allora la volta di Renzi che nel suo discorso per la fiducia al Senato dichiarò:

Il nostro è un Paese arrugginito, un Paese impantanato, incatenato da una burocrazia asfissiante, da regole, norme e codicilli che paradossalmente non eliminano l'illegalità: senza dover risalire alle gride manzoniane, l'idea che le norme che si sono succedute nel corso degli anni non abbiano prodotto il risultato auspicato è sotto gli occhi di tutti. Eppure, oggi chiedere la fiducia significa proporre una visione audace, unitaria e per qualche aspetto anche – spero – innovativa.

Il periodo trascorso dal suo insediamento fino alle elezioni europee è stato tutto teso da un lato a mettere a punto la serie di Riforme da lungo tempo attese, dall'altro a costruire quel consenso elettorale che era mancato sia a Monti che a Letta e senza il quale l'audace piano di riforme non poteva avanzare.

Ed eccoci ad oggi. Discorsi roboanti – e pochi fatti – sui tagli ai costi della politica, la promessa di un tetto agli stipendi dei manager pubblici, il DL Poletti che garantisce massima disinvoltura nell'utilizzo dell'apprendistato e dei contratti a termine, 80 euro messi in tasca a circa 10 milioni di lavoratori, tante dichiarazioni di rottura e la percezione diffusa nell'elettorato che “questa, con Renzi, è la volta buona” per cambiare veramente le cose in un paese che da troppi anni continua a soffrire.

Ecco la ricetta che ha portato al trionfo: ha battuto Grillo sul suo terreno presentandosi come il rottamatore che avrebbe potuto veramente attaccare la “casta”, ha catalizzato i voti degli operai, dei piccoli e medi imprenditori, della grande borghesia concedendo un poco a tutti. Così la prima parte del disegno è andata in porto, è arrivata la consacrazione elettorale, sebbene non in una elezione diretta – ma poco importa –, ora il governo ha le carte in regola per andare avanti fino al 2018: gli italiani lo vogliono!... avranno tempo per cambiare idea, aggiungiamo noi.

Ma andare avanti per fare cosa? Il Nostro, all'indomani della vittoria ha subito dichiarato:

Il bello deve ancora cominciare. Dalle urne il messaggio è arrivato forte e chiaro quindi le riforme non sono un optional ma un dovere che il Paese attende da anni dalla politica.

Quali riforme? Oltre alla riforma fiscale ne ha subito elencate altre quattro.

Riforma istituzionale: via alla ridefinizione in chiave centralistica ed autoritaria del potere legislativo, una sola camera con pieni poteri, riduzione del numero dei parlamentari, aumento dei poteri del premier a cui seguirà un ulteriore accentramento di poteri nel governo centrale a discapito degli enti periferici (tra i quali le Regioni il cui bilancio è per l'80% destinato alla sanità) e una riforma elettorale con alta soglia di sbarramento e ampio premio di maggioranza.

DDL lavoro: incremento della flessibilità in entrata e in uscita (licenziamenti) per tutti, riforma della contrattazione come da accordi del 10 gennaio 2014, taglio del cuneo fiscale, dinamica salariale collegata alla produttività, assegno universale di disoccupazione sganciato dal mantenimento del posto di lavoro, contratto unico.

Riforma della pubblica amministrazione: grazie al consenso elettorale raccolto è possibile abbattere la scure sulla pubblica amministrazione, come da indicazioni del commissario Cottarelli, una proposta in 44 punti tra i quali troviamo: agevolazione del part-time, mobilità per i lavoratori in esubero, riduzione del turn-over, dimezzamento delle ore per permessi sindacali, retribuzione legata alla produttività e all'andamento dell'economia, gestione manageriale dei poli museali, etc.

Riforma della giustizia: è la contropartita da pagare per il suo appoggio a Berlusconi e ai settori sociali di cui è espressione, non è ancora dato di saperne i contenuti.

In cambio, complice il semestre italiano di presidenza europea, il governo potrebbe ottenere dall'Europa una maggiore flessibilità sul controllo della spesa pubblica, nuovi fondi per 180 miliardi; contemporaneamente Draghi potrebbe ridurre a 0,1% il tasso di sconto dell'euro, garantendo afflusso di nuovi capitali alle banche che potrebbero così concedere un po' di credito alle imprese le quali si troverebbero ad investire in un “Sistema Italia” caratterizzato da lavoro più flessibile ed economico, riduzione di tasse e nuovi investimenti in infrastrutture. È una condizione che potrebbe portare ad una mini ripresa... dei profitti. Su questa base il disegno nel suo complesso potrebbe fare nuovi passi avanti.

Se così fosse, nel giro di 2/3 anni – Renzi ha come termine il 2018 – le condizioni del proletariato italiano sarebbero drasticamente peggiorate, il tasso di sfruttamento accresciuto, la disoccupazione, forse, lievemente calata a vantaggio della generazione di nuovo lavoro flessibile, precario, spesso part-time. Lo Stato Sociale ridotto drasticamente (assistenza, sanità, istruzione, pensioni). Nel frattempo sarebbero peggiorate anche le condizioni economiche e normative di chi lavora nel pubblico impiego. In questo modo, nel giro di breve tempo, anche quel welfare familiare che più di ogni altro fattore ha rallentato l'impoverimento verticale di milioni di lavoratori verrebbe gravemente minato.

Sia chiaro, non è nostro interesse difendere sprechi e ruberie che hanno da sempre caratterizzato il “Sistema Italia”, specie nel settore pubblico. Ma il problema è un altro. La crisi richiede tagli alla spesa, aumento della produttività, flessibilità nella gestione normativa ed economica della forza-lavoro. Verranno sicuramente sacrificati, in parte, gli interessi di alcuni settori della borghesia, specie quella che vive nei meandri dell'apparato burocratico, a vantaggio di quella imprenditoriale, ma il grande sacrificato sarà comunque il proletariato il quale vedrà ridursi sia il salario indiretto (tagli al welfare), che differito (pensioni) ed anche quello diretto (aumento della precarietà, facilità dei licenziamenti, etc.).

Ci aspettano tempi molto duri, alle avanguardie rivoluzionarie prepararsi e chiarire – quando e dove dovessero presentarsi episodi di conflittualità – che non esiste alternativa alla crisi del capitale al di fuori di quella storica: socialismo o barbarie.

Lotus
Lunedì, June 16, 2014

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.