Noi, il debito, lo paghiamo? Sul debito argentino

L'avvoltoio del capitale e le illusioni del riformismo

La rimozione delle illusioni o dei fraintendimenti sulla natura del capitalismo è uno degli aspetti – e non tra i meno importanti – della battaglia politica condotta dai comunisti. Illusioni e fraintendimenti costituiscono, infatti, buona parte della materia prima con cui gruppi, correnti e individualità “di sinistra” elaborano programmi politici, se così vogliamo chiamarli (1), indipendentemente dalla loro collocazione soggettiva sul piano apertamente riformista o su quello che si autodefinisce rivoluzionario. Che si scelga la via della partecipazione “critica” alla competizione elettorale, per esercitare, dalle poltrone parlamentari, una pressione sui “poteri forti”, o si individui nell'azione diretta della “piazza” lo strumento per piegare il Sistema alle necessità della “gente” (in primo luogo della classe lavoratrice), di solito, l'uno e l'altro percorso si basano sul volontarismo, per non dire velleitarismo ossia sulla credenza di poter cambiare la realtà sulla base dei propri desideri, indipendentemente dalla realtà stessa.

Sia chiaro, al contrario di molti nostri critici supponenti e, perché no?, ignoranti (ma spesso arroganza e ignoranza vanno a braccetto), non guardiamo dall'alto al basso coloro che, mossi da una giustissima indignazione contro una società sempre più “ingiusta”, diseguale e criminale, si arrabattano – anche pagando di persona – per cercare in qualche modo di superarla con quello che il “mercato politico” offre. Visto l'estremo (e non voluto, inutile sottolinearlo) minoritarismo delle forse rivoluzionarie, è quasi inevitabile che il mercato in questione passi in genere uno strumentario col marchio di fabbrica del riformismo, più o meno “mansueto”, più o meno radicale, persino con una vernice rosso fiammante. No, la nostra critica, la più affilata possibile per quanto sta in noi, va non alle intenzioni, ma alle basi teorico-politiche inconsistenti su cui si fondano quelle intenzioni, che, pertanto, già di partenza sono destinate a risolversi in nient'altro che non sia delusione e sconfitta sterile, cioè che non lascia nessun insegnamento utile per le future battaglie.

Si lanciano parole d'ordine che rimbalzano da una capo all'altro dei continenti, senza preoccuparsi di indicare le strategie per tradurle concretamente sul piano pratico o, meglio, senza darsi troppo la pena di verificare se i percorsi politici siano adeguati agli obiettivi ambiziosi a cui si punta. Una di quelle è senza dubbio sintetizzabile nello slogan “Noi il debito non lo paghiamo”, in riferimento alle politiche economiche e sociali durissime che la borghesia impone al proletariato (e a strati sociali contigui) per risanare conti pubblici devastati dalla crisi e dagli interventi messi in atto dai governi al fine di puntellare l'impalcatura traballante del sistema economico-finanziario internazionale. Non da oggi, da almeno qualche decennio, anche se lo scoppio della bolla dei titoli tossici nel 2007 ha impresso un'accelerazione al tutto.

Il debito non si paga: d'accordo; ma come si fa a non pagarlo, pur rimanendo dentro la formazione sociale capitalistica? In ogni caso, quali mezzi abbiamo noi, “gente comune”, debitori contro la nostra volontà e persino – ma stavolta è vero – a nostra insaputa, per sbattere la porta in faccia agli ufficiali giudiziari che i “finanzcapitalisti” ci mandano a casa ogni giorno nella veste, appunto, delle manovre governative? Le proteste nella “rete”, l'indizione di campagne politiche conosciute e praticate da qualche migliaio di persone, scioperi e cortei (anche duri e generosi, come i Grecia) per lo più impostati e diretti da “stati maggiori” che si collocano nell'ottica di una riforma del capitalismo? Evidentemente, ci vuole altro. Nella storia, pochi, forse unici, sono i casi in cui i debiti pubblici siano stati cancellati: la rivoluzione bolscevica è uno di questi, ma si trattava di una rottura complessiva con la borghesia, in vista del superamento del suo mondo. E' capitato, certo, che siano stati condonati, in misura consistente, debiti pubblici di nazioni importanti, come quello della Germania nel 1953 o dell'Argentina dopo il default (fallimento) del 2001-2002, ma si tratta di eventi particolari, spiegabili con le circostanze storiche specifiche e, in ogni caso, non sempre col medesimo “lieto fine”, per così dire.

Nel 1953, allo schieramento imperialista guidato dagli USA, faceva comodo la “resurrezione” della Germania (Ovest) sia dal punto di vista economico sia geo-politico, tanto che le venne cancellato più di metà del debito, appesantitosi fortemente con le spese per il riarmo e la guerra. I creditori fecero buon viso a cattivo gioco, complice la fase ascendente del ciclo di accumulazione (il boom), allora agli inizi, che avrebbe prodotto abbastanza plusvalore per rendere tutti (i capitalisti) felici e contenti.

Diverso è il caso dell'Argentina. E' noto che dal 31 luglio il paese sudamericano è stato dichiarato tecnicamente fallito, in seguito al rifiuto di dare seguito alla sentenza del giudice federale statunitense T. Griesa., che impone di pagare integralmente, interessi compresi, i tango-bond (titoli di stato) detenuti da due “istituti” finanziari domiciliati negli States, soprannominati, non a caso, “Fondi avvoltoio”. Facciamo un passo indietro per inquadrare meglio la questione.

Col fallimento del 2001, lo stato argentino non era più in grado di rimborsare i detentori dei suoi titoli pubblici, quindi, il nuovo governo peronista “di sinistra” di Nestor Kirchner (seguito da quello della moglie Cristina) rifiutò i “consigli” del FMI (i cui funzionari abbandonarono il paese) e cercò una via argentina, non al socialismo, ma all'uscita dal default e allo sviluppo economico. La rinegoziazione del debito era una componente fondamentale di questa strategia e, in effetti, quasi il 93% dei creditori (spesso piccoli risparmiatori, di cui decine di migliaia italiani) accettò il compromesso, rinunciando a circa i due terzi del capitale. Naturalmente, la contropartita fu l'iscrizione dell'Argentina nella lista nera della finanza internazionale, che le ha praticamente chiuso l'accesso al credito. Anche per questo motivo, i governi Kirchner hanno puntato sull'esportazione di materie prime, soprattutto agricole (soia, in primis), con cui reperire il capitale necessario al rilancio dell'economia, all'assestamento dei conti pubblici e a un riformismo sociale sul quale consolidare il consenso di massa al nuovo corso politico. Una parte del denaro proveniente dalle esportazioni è stato destinato al tentativo di reindustrializzare il paese, dopo che una parte importante del settore industriale era stato spazzato via dalle politiche “neoliberiste”(espressione, a loro volta, di precisi interessi economici), inaugurate col colpo di stato del 1976, quando i generali instaurarono un regime di terrore propedeutico al nuovo modello di accumulazione, se così vogliamo chiamarlo per comodità di discorso. I prezzi crescenti delle merci esportate (soprattutto verso i paesi “emergenti”) hanno dunque permesso all'economia argentina di risollevarsi, di riassorbire gran parte della disoccupazione esplosa nel 2001, di aumentare i salari – precipitati nel momento più duro del default – e, come si diceva, di praticare un moderato riformismo sociale, che ha mandato in visibilio i riformisti di ogni luogo, felici di aver avuto la conferma che, se lo stato vuole, è possibile attuare politiche alternative al criminale (vero!) rigore neoliberista.

Anche i sogni più belli, però, svaniscono al risveglio, che prima o poi arriva. Infatti, il rallentamento dell'economia cinese e di altre “emergenti” ha creato non pochi problemi alle esportazioni argentine, riducendo il flusso dei capitali a disposizione del bilancio statale. Come se non bastasse, è venuto a scadenza la causa intrapresa dagli “Avvoltoi” di cui sopra; tutto ciò ha messo in evidenza le difficoltà economiche del paese, attenuate, sì, ma non certamente eliminate. Questi fondi speculativi, secondo una prassi abituale, avevano acquistato al loro valore reale, cioè quasi carta straccia, una parte dei tango-bond, rifiutandone la ristrutturazione e, anzi, appellandosi alla corte competente (situata negli USA per leggi risalenti ad alcuni decenni fa; l'imperialismo yankee è l'imperialismo yankee...) e reclamandone il pagamento per intero, che ammonta a circa 1,3 miliardi di dollari. Ora, benché lo stato dell'economia argentina sia meno florido di quanto il governo voglia far credere, la somma, in sé, sarebbe alla sua portata, ma il rischio concreto è che il restante 93% dei creditori pretenda di essere rimborsato al cento per cento, il che significherebbe dover tirare fuori 140-200 miliardi di dollari. Da qui, il rifiuto del governo di sottomettersi alla sentenza del giudice Griesa, che, a sua volta, ha bloccato i fondi depositati dall'Argentina a New York, in pagamento di una parte del debito ristrutturato. Qualcuno dice che la stessa Amministrazione USA abbia deplorato il fondamentalismo neoliberista degli “Avvoltoi”, qualcun altro, invece, a cominciare dalla Kirchner, denuncia il fondamentalismo degli Stati Uniti, arrivando persino a parlare di imperialismo. Pur non condividendo - inutile sottolinearlo – lo stesso concetto di antimperialismo della “Presidenta”, la seconda ipotesi ci sembra molto più aderente alla realtà. Senza negare che singoli “baroni” del capitale possano benissimo giocare anche in proprio, al di fuori della strategia di gioco seguita dalla squadra cui formalmente appartengono, è nell'interesse dell'imperialismo statunitense mettere in difficoltà quei paesi latinoamericani (cioè le rispettive borghesie) che da una ventina d'anni circa stanno tentando di allentare la pressa dell'Avvoltoio in capo, che, semplificando, dal suo nido di Washington, cerca di affondare ancora di più gli artigli, quanto più teme che la preda gli stia sfuggendo.

Insomma, per chiudere, pare che il debito debba essere pagato, col rischio di dire addio al blando riformismo sociale degli ultimi anni, che poteva essere praticato – non solo ma anche – perché lo si attuava coi soldi degli altri, cioè dei creditori (2).

Adesso, che cosa accadrà? E' difficile dirlo, ma una cosa ci sembra scontata, a maggior ragione se i problemi economici non potranno essere sedati come prima da un flusso sostenuto di esportazioni. Che si taglino lo “stato sociale” e i salari, che si privatizzino i beni dello stato, alla fine il conto sarà pagato dalla classe sul cui sfruttamento si basa la società borghese, cioè il proletariato.

CB

(1) Che un tale, con barba e capelli folti, chiamava ricette per le osterie dell'avvenire...

(2) Seguiamo la logica della contabilità borghese, la stessa, per altro, seguita da ogni governo, quello argentino incluso, naturalmente.

Mercoledì, August 13, 2014