Contro la “riforma” del lavoro, contro il Governo, l'unica strada è la lotta, unita all'impegno politico

Il Governo sta affondando una parte importante del suo complessivo attacco contro il lavoro e questa parte ha un nome: jobs act.

Si tratta di uno dei tasselli più importanti del suo programma, in quanto tale, portatore di fibrillazioni, malumori, tensioni più frutto del riposizionamento delle compagini borghesi intorno alla sostanza di tale progetto, al suo effettivo procedere come forzatura degli stessi equilibri e procedure parlamentari ed istituzionali, che di una effettiva opposizione di merito.

Per capire il tutto, il punto di partenza di ogni ragionamento non può che essere la crisi: l'economia arranca, il PIL continua a contrarsi, il debito pubblico cresce e con esso la disoccupazione e la stagnazione dei consumi. Una situazione molto difficile rispetto alla quale l'”Europa” ed ampi settori della borghesia nazionale, da tempo, chiedono di intervenire.

All'interno del nostro sistema economico l'unico termine di riferimento che veramente conta, al di là delle chiacchiere dei mass media, è il profitto. É indifferente cosa e come si produca, l'importante è che venga prodotto profitto: che il capitale inizialmente anticipato, alla fine del ciclo, sia accresciuto, il più possibile. É proprio la difficoltà a produrre profitto in quantità soddisfacente che ha determinato dapprima la crisi, poi la stagnazione ed infine le politiche di austerità che stiamo subendo da anni (tagli e sacrifici per tutti i lavoratori, aumento dei profitti o di plusvalenze per i capitalisti, almeno per una parte di essi).

Considerando che ogni investimento è costituito da una parte fissa (impianti, materie prime, energia...) e da una parte variabile (i salari di coloro che con il loro lavoro creano la ricchezza), vi è un modo molto semplice per aumentare i profitto: ridurre i salari.

Meno parte della ricchezza prodotta affluisce nelle tasche dei lavoratori più ne fluisce in quelle dei padroni. Ma c'è una conseguenza: più tagliano i salari più si contrae la generale capacità di acquisto e quindi aumentano disoccupazione e problemi sociali in genere. Il centro è proprio questo. Come risollevare i profitti tagliando il costo del lavoro, ma cercando di dare vita a meno scompensi possibili? È a questa esigenza che tutta la politica del Governo Renzi e il suo studiato impatto mediatico cercano di rispondere.

Il salario è composto da tre parti: diretta, indiretta e differita. É quindi possibile contrarre il salario nel suo complesso attaccando violentemente le seconde due – servizi e pensioni -, ma dando l'impressione che la prima, quella che ci ritroviamo mensilmente in busta paga, si sia accresciuta. Si tratta di un giuoco delle tre carte, ma molte delle addormentate coscienze proletarie abboccano: “Ti do due spicci in più oggi, ma in cambio ti tolgo tutti i “vantaggi” che ti ho concesso negli ultimi anni... meglio di niente, no?”... “NO!”.

Prima di procedere teniamo a mente che non è possibile considerare il Jobs act come a sé stante, si tratta infatti di un elemento organico ad un piano di attacco più generale. Tale piano include, per esempio, la riforma della Costituzione, delle Province, del Parlamento, della Scuola, dell'Università la spending review, la riforma della giustizia, etc.

Il Jobs act è solamente un tassello, sebbene dalla portata micidiale. Il piano nel suo complesso, se dovesse andare in porto nella sua articolazione e applicazione, avrà una portata enorme, sarà un significativo passo avanti in più verso la barbarie alla quale il capitalismo, da tempo, ci ha condannato.

Per fare solo un esempio, basti pensare che il Presidente del Consiglio ha da poco affermato che l'art. 18 (il diritto ad essere reintegrati se, in un azienda con più di 15 dipendenti, si viene licenziati senza “giusta causa”) coinvolge solamente 2.323 lavoratori. Perché arrivare allora al rischio di spaccare il PD, di elezioni anticipate, per cancellare una norma dall'applicazione così ridotta? Forse liberalizzare la possibilità di licenziare questi 2.000 lavoratori ci aiuterà ad uscire dalla crisi? Ovviamente no. Il punto è tutto politico: il governo, chi lo sostiene e i lavoratori che lo subiscono devono avere chiaro in mente un concetto, sono finite le “garanzie” e i “privilegi” (!!!) per chi vive del proprio lavoro, queste, e ben maggiori, possono essere mantenute solo per chi vive del lavoro altrui.

Sono quattro i pilastri sui quali poggia la riforma del lavoro:

Codice semplificato del lavoro si tratta di superare i contratti co.co.co e co.co.pro., ad oggi circa 700 mila, per andare verso un'unica tipologia contrattuale. Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. La scommessa, di fatto, è quella di rendere questa nuova forma contrattuale più vantaggiosa (per il padronato). Di fatto quello che si prospetta è un generale livellamento verso il basso delle condizioni per tutti i nuovi assunti. Le tipologie contrattuali future dovrebbero infatti essere: il contratto indeterminato a tutele crescenti che abbiamo visto, l'apprendistato che è sempre meno vincolato, sempre più libero ed economico per chi assume; il par-time; il voucher, altro che co.co.co. In questo caso è la precarietà più totale: “entro i 5000 euro l'anno io ti pago quando, come e nelle condizioni che voglio, non a nero, ma con dei ticket orari sui quali ho già pagato le tasse. 3 ore? 3 ticket, se poi ho di nuovo bisogno di te, ti chiamo io”.

Massima flessibilità in entrata e in uscita. Una volta che i licenziamenti saranno liberalizzati del tutto per i primi anni e poi possibili con una piccola contropartita in denaro (p.es. in Spagna è una mensilità per ogni anno lavorato), i padroni potranno fare dei loro lavoratori quello che vorranno e questo non tanto a causa dell'art. 18 che non ci sarà più, quanto per l'ennesima sconfitta politica che avranno inferto alla nostra classe. Certo, il reintegro rimarrà obbligatorio – forse e per il momento - in caso di licenziamento discriminatorio e per alcuni licenziamenti disciplinari, ma il passo indietro è comunque notevole e, lo ripetiamo, politico prima che giuridico. In entrata vi sarà la massima possibilità di gestire orari e modalità di impiego, in quanto, a fronte di un contratto unico sempre più leggero, sarà la contrattazione locale a diventare sempre più importante, andando di fatto verso l'individualizzazione del rapporto di lavoro.

É infatti in cantiere, a latere del jobs act, una nuova legge sulla rappresentanza sindacale che non solo recepisca il testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, ma approfondisca (con la totale adesione di Landini a questo progetto) l'importanza della contrattazione aziendale a discapito di quella nazionale. Divide et impera si diceva un tempo, oggi si continua a farlo.

Vi è poi la nuova disciplina degli ammortizzatori sociali, la quale verte tutta attorno all'assegno universale di disoccupazione e alle politiche attive del lavoro, sul modello tedesco. Quando si viene licenziati si perde immediatamente il rapporto con il proprio posto di lavoro (al contrario della CIG o della mobilità, etc.) e si entra in un girone infernale fatto di assegni miseri che si ha diritto a mantenere solo se si svolgono corsi di formazione (chi li paga?) e se si è disposti ad accettare qualsiasi tipo di lavoro venga proposto. Le aziende della formazione si sfregano le mani, i lavoratori vedono aprirsi dinnanzi a loro un arretramento di decine di anni nei livelli e nella qualità della loro vita.

Alla miseria che sprigiona da questa violenta bastonatura, il governo risponde aumentando il salario diretto: 80 euro provenienti dal taglio dell'IRPEF, la possibilità di avere già da subito, mese per mese, il 50% del proprio TFR... in pratica taglio del proprio futuro, della sanità, della scuola, dei servizi, della liquidazione... per sentire un poco meno la miseria del presente, per mantenere la pace sociale tra chi lavora, nel perenne tentativo di rianimare i profitti di chi vive del lavoro altrui.

Lotus
Giovedì, October 2, 2014