Sugli attentati di Tunisi

Partiamo dai fatti: la barbarie del fondamentalismo islamista non si ferma. A Tunisi un commando di jihadisti ha fatto, sino a questo momento, 23 morti in un assalto armato al museo del Bardo alla periferia della capitale. E' la prima volta che in Tunisia, dall'inizio della “rivoluzione dei gelsomini” che ha portato alla cacciata di Ben Ali e dato il via alle cosiddette primavere arabe, si registra un simile attentato contro civili, stranieri, turisti europei in vacanza.

L'obiettivo non erano tanto i turisti quanto il turismo, ovvero una delle principali fonti di reddito dell'economia tunisina, in crisi profonda come buona parte di quelle dei paesi del sud del Mediterraneo. L'attacco ai visitatori occidentali doveva creare un clima di terrore tale da cancellare qualsiasi opzione turistica nella terra che storicamente è stata una delle prime civiltà del Mediterraneo e la patria del mitico Annibale. L'obiettivo vero era quello di indebolire il governo di Caid Essebsi e del suo apparato politico, un po' laico e un po' islamico, risultato vincitore alle elezioni politiche del 2014, per creare le condizioni di uno sviluppo del jihadismo nel più laico dei paesi del nord Africa.

Gli interpreti dell'attentato sono arcinoti e già da tempo sotto l'occhio dei Servizi. Nel mese scorso l'esercito tunisino aveva messo le mani su alcuni elementi del gruppo Okba Ibn Nafaa, probabilmente interprete degli episodi criminosi al museo del Bardo e dichiaratosi già da tempo affiliato allo Stato Islamico. Il gruppo opera in termini di semi clandestinità ed è particolarmente attivo nell'area montuosa di Kasserine, a ridosso delle prime propaggini del deserto. In febbraio le forze di sicurezza hanno catturato molti aderenti ad un'altra cellula jihadista, responsabile di un attacco armato nella cittadina di Boulaaba, in cui sono stati uccisi quattro agenti della Guardia Nazionale. Tra i componenti del gruppo che sono stati catturati spicca il nome di Khaled Hamadi Chaieb, più conosciuto come Lokmane Abou Sakhr, uno dei capi jihadisti più carismatici e da tempo nel mirino dell'Antiterrorismo.

Il che rende chiaro sino all'evidenza che nemmeno la Tunisia è immune dalle infiltrazioni jihadiste e al fascino dello Stato Islamico di al Baghdadi, a cui il gruppo Okba Ibn Nafaa si richiama. Lo stesso Stato Islamico ha ufficialmente rivendicato l'attentato riconoscendo esplicitamente il gruppo OIN come propaggine del costituendo “Califfato” in Tunisia. Inoltre, il territorio tunisino è particolarmente permeabile alle penetrazioni jihadiste sia in entrata che in uscita dalle frontiere con la Libia, dove il califfato di al Baghdadi si è insediato nella città di Sirte, uno dei più importanti terminali petroliferi, esattamente al centro delle altre due componenti politico militari libiche, quella di Tripoli e quella di Tobruk, a loro volta capolinea degli altri due terminali petroliferi libici. Il valico di Ras Jedir e di Ben Guardane sono ritenuti dei punti di “libero” transito per centinaia di jihadisti libici e tunisini. In più, all'interno dello steso mondo politico tunisino ci sono state delle crescite più o meno consistenti di forze jihadiste. Su questo versante occorre dire che a partire dal 2013 c'è stata una sequela di attacchi terroristici di ispirazione qaedista sul monte Chaambi, alla frontiera con l'Algeria, che hanno portato alla scoperta di molti di depositi d’armi e campi d’addestramento jihadisti.

Ma è altrettanto chiaro come alla base di questo fenomeno di radicalizzazione religiosa e politica del jihadismo ci sia la nera ombra della nube della crisi economica. Il tasso ufficiale di disoccupazione è del 18%, quello reale supera abbondantemente il 20%. La disoccupazione giovanile è oltre il 40%. Secondo stime della Banca Mondiale il 50% dei giovani diplomati è senza lavoro. Se ad essere diplomate sono le giovani donne, il tasso sale al 65%. Quando a questo si aggiunge la mancanza di una qualsiasi prospettiva a breve termine di uscita dalla crisi si capisce come i predicatori del jihadismo, provenienti dell'Arabia Saudita e dal Qatar e dall'Algeria, abbiano facile gioco a indottrinare buona parte di questi giovani, facendogli credere nella bontà di una alternativa a questo stato di cose. Il tutto in nome di Allah, in nome della divina giustizia, contro le stesse istituzioni statuali arabe non “ortodosse” e contro il mondo occidentale corrotto e corruttore.

E' in questo clima, peraltro non solo tunisino, che migliaia di giovani si sono aggregati alle “falangi” del califfo nero. Dai tre ai cinque mila giovani tunisini hanno subito il fascino delle sirene dello “jihadismo imperiale” dello Stato Islamico, che è sorto grazie ai finanziamenti della solita Arabia Saudita, del Qatar e degli Usa in chiave anti Assad, per poi agire in proprio nel tentativo di gestire una fetta della rendita petrolifera dell'area Medio orientale. E' la stessa disperazione che aleggia nelle banlieues parigine o nei quartieri dell'immigrazione londinese, favorita prima, esasperata poi, dalla durezza della crisi economica, le cui devastanti conseguenze non hanno ancora finito di ricadere sui proletari, sottoproletari e piccolo borghesi in via di proletarizzazione. E' la mancanza di un futuro credibile che spinge migliaia di giovani arabi nelle maglie dell'integralismo jihadista, dopo aver sperimentato il fallimento della falsa democrazia occidentale come del falso comunismo sovietico. Ma così facendo concorrono a sommare alla barbarie capitalista degli imperialismi occidentali quella del costituendo Stato Islamico, che contiene al suo interno tutti gli stessi elementi capitalistici di quelle realtà sociali che vorrebbe combattere, con tanto di elementi di degenerazione economica e di parassitismo finanziario. Elementi che producono la ferocia degli attentati contro civili, esattamente come l'uso dei droni e delle armi chimiche contro le popolazioni inermi da parte degli imperialismi del sempre più avido e assassino “Occidente”.

Alle sparute avanguardie rivoluzionarie che ancora sopravvivono all'interno di questo scenario politico spettano due compiti prioritari. Il primo è quello di denunciare che le guerre imperialiste, comunque combattute e comunque ideologicamente giustificate, fanno parte della stessa barbarie capitalista. Il secondo è quello di preparare le condizioni soggettive alla storica, impellente necessità di un'alternativa vera. Alternativa che non riproponga sotto falsi miti religiosi lo stesso contenuto dei rapporti tra capitale e lavoro, oltretutto in salsa oscurantista e nazional-fascista, ma che abbia come fulcro la necessità della lotta al capitalismo, alle sue devastanti crisi economiche, alle sue guerre di aggressione o di “difesa” per le definitiva rottura dei meccanismi economici del capitale che sono alla base di tutto questo sfacelo. Sfacelo in campo economico e in quello sociale, dove la crescente pauperizzazione, la disoccupazione e l'iper sfruttamento sono il denominatore comune per milioni di lavoratori, che in alternativa hanno solo le guerre e il loro bagaglio di morte. Non importa se a Tunisi o al Cairo, a Baghdad o a Damasco, se sotto le bandiere di questo o quel nazionalismo, di questo o quell'imperialismo. La via dell'emancipazione proletaria è un'altra ed è quella che passa attraverso l'autonomia di classe. Autonomia verso tutte le istanze borghesi e premessa politica al rovesciamento di tutte le categorie economiche capitalistiche. Contro quegli stessi fattori economici che esperienze come quelle del Califfato stanno tentando di portare a termine e di rafforzare ricorrendo al tragico cinismo della morte di ignari civili e di giovani disperati, resi ciechi e feroci strumenti di un criminale disegno politico che è pur sempre legato alla rendita petrolifera, al capitale e alle sue sanguinolente leggi.

FD
Venerdì, March 20, 2015